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        <title>La mitologia greca e romana. Volume II</title>
        <author key="Pescatori, Costantino (1...-1...)">Costantino Pescatori</author>
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        <edition>OBVIL</edition>
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          <name>Nolwenn Chevalier</name>
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        <publisher>Sorbonne Université, LABEX OBVIL</publisher>
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          <licence target="http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/fr/">
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        <bibl><author>Costantino Pescatori</author>, <title><hi rend="i">La mitologia greca e romana: Dichiarazione non solo
            de’ greci e de’ latini poeti ma degl’italiani e d’altre nazioni e di molte locuzioni
            viventi tuttavia nel comune linguaggio; esposta dal D.r Costantino Pescatori in uso
            delle scuole e di ogni colta persona</hi></title>, <biblScope>volume II</biblScope>,
            <pubPlace>Firenze</pubPlace>, <publisher>Tipografia della Gazetta d’Italia</publisher>,
            <date>1874</date>, <biblScope>in-12, p. 260-530</biblScope>. PDF : <ref
            target="https://books.google.fr/books?id=wUIvB1NFHzsC">Google</ref>.</bibl>
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        <date when="1874"/>
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      <div1 type="section">
        <head type="sur">Parte II</head>
        <head type="main">Degli dei inferiori o terrestri</head>
        <div2 type="chapter">
          <head type="sur">XXXIII</head>
          <head type="main">Osservazioni generali</head>
          <p>Nella classazione generale delle Divinità del Paganesimo (vedi il N. III) fu accennato
            che gli Dei di 2° ordine eran detti <hi rend="i">Inferiori</hi> o <hi rend="i"
              >Terrestri</hi> ; e questi appellativi spiegano bastantemente la minor potenza e
            l’ordinario soggiorno di tali Dei sulla Terra. Gli Dei <hi rend="i">Superiori</hi>, di
            cui abbiamo parlato nella Iª Parte, erano soltanto venti, e gl’<hi rend="i"
              >Inferiori</hi> a migliaia, e costituivano la plebe degli Dei, come li chiama Ovidio :
              <hi rend="i">de plebe Deos</hi>. Fortunatamente, per chi deve studiar la Mitologia, a
            ben pochi di questi Dei fu dato dai Pagani un nome proprio, e la maggior parte furon
            compresi sotto certe generali denominazioni, come ora suol farsi nella Storia Naturale
            in cui si distinguono soltanto i generi, le specie, le famiglie, le varietà, ecc. e non
            gl’individui, o vogliam dire i singoli prodotti naturali. E a render più facile il
            còmpito di chi vuole imparar la Mitologia contribuisce ancora il non avere inventato i
            Pagani molti <hi rend="i">miti</hi> o fatti miracolosi riferibili a questi Dei <hi
              rend="i">Inferiori</hi>, perchè molto limitata credevano la loro potenza. Abbiamo
            notato nel principio del N. IV che, ammessi più Dei, nessuno di loro poteva essere <pb
              n="260" xml:id="p260"/><hi rend="i">onnipotente</hi>, perchè il poter di ciascuno era
            limitato dalle speciali attribuzioni degli altri ; e se ciò era vero per gli Dei
            Superiori e per lo stesso Giove, come ci è accaduto di narrare più volte, tanto più è
            presumibile e conseguente per gli altri Dei che furon detti e considerati <hi rend="i"
              >Inferiori</hi>.</p>
          <p>Agli antichi Mitologi non bastò l’avere assegnato tre Dee al globo terrestre, come
            notammo nel N. VIII, ed anche altre Divinità Superiori ai principali prodotti della
            Terra, cioè <hi rend="sc">Cerere</hi> alle biade, <hi rend="sc">Bacco</hi> al vino, <hi
              rend="sc">Vulcano</hi> alla metallurgia, ecc. ; e lasciando libero il freno alla
            immaginazione videro Divinità da per tutto, nei monti, nei fiumi, nelle fonti, nelle
            selve e perfino nelle piante, come col microscopio si vedono da per tutto brulicar
            gl’insetti e gl’<hi rend="i">infusorii</hi>. Sappiamo poi dagli scrittori ecclesiastici
            dei primi secoli del Cristianesimo (i quali studiavano con gran premura ed attenzione la
            Mitologia per dimostrare le assurdità della religione degl’Idolatri)<note place="bottom"
              >Quindi ebbero origine i libri di polemica fra gli scrittori delle due opposte
              religioni.</note>, molte particolarità che non si trovano altrove, perchè le trassero
            da quei libri dei Pagani<note place="bottom">Molti frammenti di opere, ora perdute, di
              Autori classici delle lingue dotte si trovano riportati nei libri degli scrittori
              ecclesiastici.</note>, che posteriormente furon perduti o distrutti nelle successive
            invasioni dei Barbari.</p>
          <p>E qui mi basterà rammentare, a proposito di quanto ho accennato di sopra, che il
            vescovo d’Ippona (S. Agostino) asserisce che i Pagani erano giunti ad assegnare
            quattordici Divinità alla vegetazione del grano. Anzi vi aggiunsero anche un altro Dio,
            che schiverei di rammentare, se, oltre Lattanzio, non ne parlasse anche Plinio il
            Naturalista ; ed era il Dio <hi rend="i">Sterculio</hi> o <hi rend="i">Stercuzio</hi>,
            così detto perchè aveva inventato il modo di render più fertili i terreni col fimo o
            concime. Plinio asserisce che era questi un re d’Italia <pb n="261" xml:id="p261"
            />deificato per sì utile insegnamento<note place="bottom"><p>Colitur et <hi rend="i"
                  >Sterculius</hi>, qui <hi rend="i">stercorandi</hi> agri rationem primus
                induxit.</p><bibl>(<hi rend="sc">Lactant</hi>., lib. 1, c. 20.)</bibl><p>Italia regi
                suo <hi rend="i">Stercutio</hi> ob hoc inventum immortalitatem
                  tribuit.</p><bibl>(<hi rend="sc">Plin</hi>., lib. 17, c. 9.)</bibl></note>. Di
            tali divinità il cui ufficio si conosce e s’intende dal significato del loro stesso nome
            ve n’era un bel numero nel <hi rend="i">Politeismo</hi>, come per esempio, il Dio <hi
              rend="i">Robigo</hi>, la Dea <hi rend="i">Ippona</hi>, il Dio <hi rend="i"
              >Locuzio</hi>, la Dea <hi rend="i">Mefiti</hi>, ecc. ecc. ; e basta conoscere
            l’etimologia e il significato di questi vocaboli per intendere qual fosse l’ufficio di
            tali Dei. Non dovrà dunque recar maraviglia che il dottissimo Varrone, contemporaneo ed
            amico di Cicerone, abbia annoverati trentamila Dei del Paganesimo, come dicemmo nel
            N. III ; e deve parer probabile che fossero aumentati da quell’epoca al tempo in cui
            scriveva S. Agostino, cioè in più di quattro secoli, poichè i Pagani avevano libertà di
            adottare anche gli Dei stranieri, e poi per mezzo della cerimonia detta l’<hi rend="i"
              >Apoteosi</hi> facevano diventar <hi rend="i">Divi</hi> i loro Imperatori dopo la
            morte, e spesso li consideravano tali anche in vita<note place="bottom">Perciò nel <hi
                rend="i">Corpus Juris</hi> dei Romani (le Pandette, il Codice, ecc.) troviamo
              rammentati col titolo di <hi rend="i">Divi</hi> quegli Imperatori di cui si citano le
              leggi o i rescritti (<hi rend="i">Divus Julius, Divus Augustus, Divus Traianus</hi>,
              ecc.).</note>.</p>
          <p>Anche <hi rend="sc">Dante</hi> confrontando, nel Canto <num>xix</num> dell’<hi rend="i"
              >Inferno</hi>, il numero degli Dei degl’ Idolatri con quelli <hi rend="i">d’oro e
              d’argento</hi> adorati dai <hi rend="i">Simoniaci</hi>, e dichiarando che questi Dei
            son cento volte più numerosi di quelli, accetta per lo meno il computo di Varrone,
            poichè così rimprovera i Simoniaci stessi<note place="bottom"><p>Senza occuparci della
                distinzione che fanno i canonisti della <hi rend="i">Simonia a pretio, a precibus,
                  ab obsequio</hi>, ci contenteremo della definizione che ne dà l’<hi rend="sc"
                  >Alighieri</hi> pel 1° capo, cioè per la Simonia <hi rend="i">a
                  pretio</hi> :</p><quote><l>« O Simon Mago, o miseri seguaci,</l><l>« Che <hi
                    rend="i">le cose di Dio</hi>, che di bontate</l><l>« Deono essere spose, e voi
                  rapaci</l><l>« <hi rend="i">Per oro e per argento adulterate</hi>,</l><l>« Or
                  convien che per voi suoni la tromba,</l><l>« Perocchè nella terza bolgia
                  state. »</l></quote></note> :</p>
          <quote>
            <l><pb n="262" xml:id="p262"/>« Fatto v’avete Dio d’oro e d’argento ;</l>
            <l>« E che altro è da voi all’ Idolatre<note place="bottom">Chi ha letto almeno una
                volta tutta la <hi rend="i">Divina Commedia</hi> sa bene che vi si trovano più e
                diversi <hi rend="i">latinismi</hi>, o vogliam dire parole di forma e terminazione
                latina, come è questa <hi rend="i">Idolatre</hi> invece di <hi rend="i"
                  >Idolatri</hi> ; e cosi altrove <hi rend="i">Eresiarche, peccata</hi> e simili.
                Anche adesso nel linguaggio ecclesiastico dicesi le <hi rend="i">quattro
                  tempora</hi> invece dei quattro tempi.</note></l>
            <l>« Se non ch’egli uno e voi n’orate cento<note place="bottom">I Grammatici noteranno
                in questo verso il pronome <hi rend="i">egli</hi> invece di <hi rend="i">eglino</hi>
                per troncamento della sillaba finale, che nella metrica latina e greca direbbesi <hi
                  rend="i">apocope</hi> ; come pure il verbo <hi rend="i">orate</hi> per <hi
                  rend="i">adorate</hi>, che è una licenza poetica chiamata <hi rend="i"
                  >aferesi</hi>.</note> ? »</l>
          </quote>
          <p>Convinti dunque che il numero degli Dei Pagani fosse anzi più che meno di
              trentamila<note place="bottom"><p>I più dotti commentatori di Dante, e tra essi anche
                il canonico Bianchi di onorata memoria, interpretano questo passo cosi :
                  <quote>« per quanti idoli adorassero i pagani, voi ne adorate cento volte più, che
                  vi fate idolo ogni moneta d’oro e d’argento. »</quote> Stando soltanto al numero
                di 30 mila Dei dichiarato da Varrone, e moltiplicandolo per cento, come dice Dante,
                ne verrebbero 3 milioni di Dei, adorati dai Simoniaci. E non bastavano per saziar
                quella <hi rend="i">Lupa</hi>,</p><quote><l>« Che mai non empie la bramosa
                  voglia,</l><l>« E dopo il pasto ha più fame che pria. »</l></quote></note>, e
            assicurati al tempo stesso che migliaia e migliaia di questi sono <hi rend="i">sine
              nomine vulgus</hi>, e da spacciarsi in massa, (o come taluni dicono <hi rend="i"
              >in</hi>
            <pb n="263" xml:id="p263"/><hi rend="i">blocco</hi>) e con poche e generali
            considerazioni sul loro comune appellativo, procediamo senza spaventarci ad osservare
            anche altre fantasmagorie preistoriche dei nostri più remoti Antenati.</p>
        </div2>
        <div2 type="chapter">
          <head type="sur">XXXIV</head>
          <head type="main">Il Dio Pane</head>
          <p>Prima di parlar dell’etimologia del nome di questo Dio e degli ufficii di lui, credo
            opportuno di presentarne il ritratto. È una eccezione al mio metodo, che mi par
            giustificata dall’ufficio eccezionale e dalla forma particolare di questo Dio. Egli è
            mezz’uomo e mezzo bestia : ha le gambe e i piedi di capra, il naso camuso, ossia
            schiacciato, le orecchie a sesto acuto, ossia appuntate dalla parte superiore, e due
            lunghissime corna gli torreggiano sopra la fronte. Tutte le altre sue membra son di
            forma umana, ma coperte di pelo caprino ; e in queste membra semibestiali alberga
            l’anima di un Nume immortale. Quantunque abbiamo trovato prima d’ora, e troveremo anche
            in appresso, qualche Divinità che, a giudicarne dalla forma, si prenderebbe piuttosto
            per un mostro di natura che per un essere soprannaturale, il Dio <hi rend="i">Pane</hi>
            richiama maggiormente la nostra attenzione per gli uffici che gli furono attribuiti, e
            per quanto ragionan di lui non solo i poeti, ma anche gli storici e i filosofi.</p>
          <p>Il nome di questo Dio in greco è <hi rend="i">Pan</hi> che significa <hi rend="i"
              >tutto</hi> ; e gli antichi Mitologi basandosi sul significato di questo vocabolo e
            interpretando la forma strana di questo Nume come emblematica dei principali oggetti
            della creazione, lo considerarono come simbolo della Natura o dell’Universo. Questa
            etimologia e la conseguente spiegazione, furono adottate nei <pb n="264" xml:id="p264"
            />dizionari etimologici delle lingue dotte e in quelli enciclopedici più moderni<note
              place="bottom">I Latini usarono lo stesso greco nome <hi rend="i">Pan</hi>,
              declinandolo anche alla greca col gen. in <hi rend="i">os</hi> e l’acc. in <hi
                rend="i">a</hi>, per distinguerlo dal loro vocabolo <hi rend="i">panis</hi>
              significante il cibo quotidiano <hi rend="i">pane</hi>. Il qual compenso non seppero
              trovare gl’Italiani ; e perciò per distinzione bisogna dir sempre il <hi rend="i">Dio
                Pane</hi>.</note>.</p>
          <p><hi rend="sc">Bacone</hi> da Verulamio, che nel suo libro <hi rend="i">De Sapientia
              Veterum</hi> spiegò anche troppo minutamente e sottilmente il <hi rend="i">mito</hi>
            del Dio Pane, dichiara che <hi rend="i">gli Antichi lasciarono in dubbio la generazione
              di questo Dio</hi>, osservando che non si accordavano i Mitologi ad assegnargli i
            genitori, poichè lo stimavano figlio chi di Giove e di Calisto, chi di Mercurio e di
            Penelope, ed anche di Urano e di Gea, ossia Tellure. Afferma per altro che tutti eran
            d’accordo (e vi si unisce anch’egli) nella etimologia della parola <hi rend="i">Pan</hi>
            e nel simbolo indicato da questo Dio che, cioè, significhi il <hi rend="i">tutto</hi> e
              <hi rend="i">rappresenti perciò l’universa natura</hi><note place="bottom"><p>Son
                queste le precise parole di Bacone nel libro <hi rend="i">de Sapientia Veterum</hi>
                  cap. <num>xi</num> : <quote>« Antiqui universam Naturam sub persona <hi rend="i"
                    >Panis</hi> diligentissime descripserunt. »</quote> E poco più oltre aggiunge :
                    <quote>« <hi rend="i">Pan</hi> (ut et nomen ipsum etiam sonat), universitatem
                  rerum sive Naturam repræsentat et proponit. »</quote></p><p>Modernamente un
                eruditissimo filologo tedesco (Preller) asserisce che considerato il Dio <hi
                  rend="i">Pane</hi> come il Nume dei Pastori, l’etimologia di questo nome deriva da
                  <hi rend="i">pao</hi> (io pasco) ; e che <hi rend="i">pan</hi> è perciò una
                contrazione di <hi rend="i">paon</hi>.</p></note>. Ma la spiegazione che soglion
            dare delle diverse parti della figura del Dio Pane, e più specialmente delle corna, dei
            velli e degli zoccoli caprini, non solo i Mitologi quanto ancora il celebre filosofo
            Inglese, potrà sembrare ai dì nostri piuttosto uno sforzo d’immaginazione, che una
            indubitabile interpretazione, poichè dicono sul serio che <hi rend="i">le corna</hi>
            significano i raggi del Sole e la Luna crescente, <hi rend="i">i velli</hi> gli alberi e
            i virgulti del nostro suolo, e i <hi rend="i">solidi zoccoli caprini</hi> la stabilità
            della Terra. Risparmierò al cortese lettore altre <pb n="265" xml:id="p265"/>simili
            spiegazioni ; e aggiungerò soltanto al ritratto del Dio <hi rend="i">Pane</hi>, che ho
            delineato in principio, i distintivi che gli si davano perchè non si confondesse con
            altre inferiori divinità di forme presso a poco così <hi rend="i">graziose</hi> come
            quella di lui. Sul dorso aveva un mantello o <hi rend="i">clamide</hi> di pelle di
            pardo, in una mano la verga pastorale e nell’altra la <hi rend="i">sampogna</hi>. Di
            questi tre distintivi non sarà inutile dar la spiegazione, perchè riesce più
            concludente. Infatti, essendo il Dio <hi rend="i">Pane</hi> considerato come il
            protettore dei cacciatori e dei pastori, ed inoltre l’inventore della <hi rend="i"
              >sampogna</hi>, i tre distintivi preaccennati rammentano chiaramente questi tre
            attributi. Della <hi rend="i">sampogna</hi> poi convien raccontare pur anco l’origine
            mitologica.</p>
          <p>Al Dio <hi rend="i">Pane</hi> avvenne un caso simile a quello di Apollo rispetto a
            Dafne. Egli pure voleva sposar per forza una Ninfa di nome <hi rend="i">Siringa</hi> ;
            ma essa avendo pregato gli Dei a liberarla da un sì fatto sposo, ottenne soltanto di
            esser cangiata in canna, come Dafne in lauro. E il Dio <hi rend="i">Pane</hi>
            gareggiando con Apollo ad onorare in quella pianta la prediletta Ninfa, formò di sette
            canne di diversa lunghezza, unite fra loro colla cera, un musicale stromento, che in
            greco chiamavasi col nome stesso della Ninfa, cangiata in canna, cioè <hi rend="i"
              >Siringa</hi>, in latino <hi rend="i">fistula</hi> e in italiano <hi rend="i"
              >sampogna</hi><note place="bottom"><quote><l> « <hi rend="sc">Pan</hi> primus <hi
                    rend="i">calamos</hi> cera conjungere <hi rend="i"
                  >plures</hi></l><l>« Instituit ; <hi rend="sc">Pan</hi> curat oves oviumque
                  magistros. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc">Virg</hi>., <title>Ecl.</title>,
                  <num>ii</num>.)</bibl><quote><l>« <hi rend="i">Fistula</hi> cui semper decrescit
                  arundinis ordo,</l><l>« Nam <hi rend="i">calamus</hi> cera jungitur usque
                  minor. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc">Tib</hi>., <num>iii</num>,
              5ª.)</bibl></note>. Siccome <hi rend="i">Siringa</hi> in greco significa <hi rend="i"
              >canna</hi>, la somiglianza del nome potè aver dato origine a questa favola, come
            dicemmo dei nomi di Dafne, di Giacinto, di Ciparisso ecc.</p>
          <p>Sul rozzo stromento della sampogna fanno i Mitologi una infinità di commenti. Non
            contenti di eredere che le sette <pb n="266" xml:id="p266"/>canne simboleggino i sette
              <hi rend="i">toni</hi> della musica, o, come ora direbbesi, le sette note musicali,
            immaginarono che rappresentassero l’armonia delle sfere, secondo le idee di
            Pitagora.</p>
          <p><hi rend="sc">Dante</hi> rammenta la favola di <hi rend="i">Siringa</hi> nel Canto
              <num>xxxii</num> del <hi rend="i">Purgatorio</hi> ; e, com’è suo stile di esser
            concisissimo e presentare al lettore più idee che parole, qui è più conciso che altrove,
            poichè con una sola similitudine e in soli due versi e mezzo, riunisce due <hi rend="i"
              >miti</hi>, ed allude evidentemente al racconto che ne fa <hi rend="sc">Ovidio</hi>
            nel lib. <num>i</num> delle <hi rend="i">Metamorfosi</hi>, che cioè Mercurio per
            addormentare Argo non solo suonasse la lira, ma gli raccontasse pur anco la favola di
            Pane e Siringa :</p>
          <quote>
            <l>« S’io potessi ritrar <hi rend="i">come assonnaro</hi></l>
            <l>« Gli occhi spietati, udendo di Siringa,</l>
            <l>« Gli occhi a cui più vegghiar costò sì caro ;</l>
            <l>« Come pittor che con esemplo pinga</l>
            <l>« Disegnerei com’ io m’addormentai ;</l>
            <l>« Ma qual vuol sia che l’assonnar ben finga. »</l>
          </quote>
          <p>Il Dio <hi rend="i">Pane</hi>, mancatagli la sposa che ambiva, si ammogliò in appresso
            colla Ninfa <hi rend="i">Eco</hi>, la quale era stata da Giunone cangiata in voce, in
            punizione della sua loquacità, e condannata a tacere se nessun le parlava, ed a ripeter
            soltanto le ultime voci di chi le dirigeva il discorso : favola ricavata evidentemente
            dai noti effetti del fenomeno acustico dell’<hi rend="i">Eco</hi>. Il matrimonio del Dio
              <hi rend="i">Pane</hi> con questa Ninfa sembra significare <hi rend="i">che solo ai
              detti suoi l’Eco rispose</hi>.</p>
          <p>Questo Dio era adorato principalmente in Arcadia come Dio dei pastori, e da quella
            regione fu trasportato il suo culto in Italia dall’Arcade Evandro tre secoli e mezzo
            prima della fondazione di Roma. Evandro aveva fissata la sua residenza su quel monte che
            egli chiamò Palatino dal nome di suo figlio Pallante, ed ove poi fu da Romolo fabbricata
            l’eterna città. Anche a tempo di Cicerone, com’egli racconta nelle sue <pb n="267"
              xml:id="p267"/>epistole familiari, esisteva sotto quel colle un antro consacrato da
            Evandro al Dio Pane.</p>
          <p>Dai Romani ebbe questo Dio anche il nome di <hi rend="i">Luperco</hi> (<hi rend="i">ab
              arcendis lupis</hi>) dal tener lontani i lupi dal gregge ; e si celebravano le feste
              <hi rend="i">Lupercali</hi>, in onore cioè di <hi rend="i">Luperco</hi>, ossia del Dio
            Pane, nel mese di febbraio. Son celebri nella storia romana i <hi rend="i"
              >Lupercali</hi> dell’anno 710 di Roma, poichè in quel giorno offrì Marc’Antonio il
            regio diadema a Cesare che lo ricusò ; e Cicerone rammenta questo fatto più volte nelle
            sue opere, e specialmente nelle <hi rend="i">filippiche</hi> contro lo stesso
            Marc’Antonio.</p>
          <p>Dal nome del Dio <hi rend="i">Pane</hi> è derivata l’espressione di <hi rend="i">timor
              pànico</hi>, che etimologicamenie significa timore ispirato o incusso dal Dio <hi
              rend="i">Pane</hi> ; e, nella comune accezione, timore che assale all’improvviso e non
            ha fondamento o causa razionale o evidente.</p>
          <quote>
            <l>« Temer si deve sol di quelle cose</l>
            <l>« Che hanno potenza di fare altrui male :</l>
            <l>« Dell’altre no, chè non son paurose, »</l>
          </quote>
          <p>diceva <hi rend="sc">Dante</hi> nella <hi rend="i">Divina Commedia</hi> ; ma non tutti
            gli uomini e non sempre possono ragionare freddamente e conoscer subito la causa delle
            cose ; e per casi nuovi o ignorati o non preveduti avviene spesso che si alteri la
            fantasia, specialmente del volgo, e si tema ove nessuna ragion v’è di temere. Ma perchè
            questo improvviso e mal fondato timore debba chiamarsi <hi rend="i">pànico</hi>, ossia
            prodotto dal Dio <hi rend="i">Pane</hi>, anzichè <hi rend="i">Plutonico</hi>, o <hi
              rend="i">diabolico</hi>, o altrimenti, cerca di spiegarlo la Mitologia ; la quale,
            dopo avere asserito che il Dio <hi rend="i">Pane</hi> soggiornando nelle solitudini più
            selvagge e piene di sacro orrore, spaventa da quelle colla sua terribil voce i
            passeggieri, vi aggiunge, quali prove di fatto, diversi aneddoti riferiti nelle antiche
            storie, come per esempio, che il Dio Pane al tempo della battaglia di Maratona parlasse
            a Fidippide Ateniese, e <pb n="268" xml:id="p268"/>gli suggerisse il modo di spaventare
            i Persiani ; che la voce di questo Dio, uscita dalle sotterranee caverne del tempio di
            Delfo, atterrisse e mettesse in fuga i Galli che volevano saccheggiare quel ricchissimo
            tempio, ecc. È però da notarsi che gli aneddoti riferibili alle voci miracolose del Dio
            Pane, raccontati da Erodoto, da quel <hi rend="i">miracolaio</hi> di Plutarco e da altri
            scrittori di minor conto, sono la relazione delle popolari credenze prevalenti a quei
            tempi, e non la storica dimostrazione della verità dei fatti. Anche Tito Livio racconta
            molti miracoli nella sua Storia Romana, ma non li garantisce, e aggiunge quasi sempre un
              <hi rend="i">si dice</hi>, o <hi rend="i">si crede</hi> ; e nella prefazione dichiara
            esplicitamente che egli non intende di confermarli nè di confutarli<note place="bottom"
                ><p>Narrando <hi rend="sc">T. Livio</hi> che l’augure Accio Nevio tagliò col rasoio
                la pietra, cosi dice : « Tum illum haud cunctanter discidisse cotem <hi rend="i"
                  >ferunt</hi>.</p><quote><l>« Di Orazio sol contra Toscana
                tutta »</l></quote><p>dichiara che questo fatto era più famoso che credibile : « Rem
                ausus plus famae habituram ad posteros, quam <hi rend="i">fidei</hi>.</p><p>E nella
                  <hi rend="i">Prefazione</hi> osserva che generalmente gli Antichi spacciavano
                molte favole anche in mezzo ai racconti storici : <quote>« Quae ante conditam
                  condendamve urbem, poeticis magis decora fabulis, quam incorruptis rerum gestarum
                  monumentis traduntur, <hi rend="i">ea nec affirmare nec refellere in animo
                    est</hi>. Datur ea venia antiquitati, ut, miscendo humana divinis, primordia
                  urbium augustiora faciat. »</quote></p></note>.</p>
          <p>Ma poichè <hi rend="i">timor pànico</hi> venne posteriormente a significare anche
            presso i Pagani una <hi rend="i">paura senza fondamento</hi>, ciò stesso dimostra che si
            aveva per una ubbìa e non per un miracolo. Anche Cicerone nelle sue Opere usa almeno due
            volte, per quanto mi ricordi, l’aggettivo <hi rend="i">pànico</hi> riferito a timore o
            romore, ma lo scrive con lettere greche, perchè greca è l’origine di questo aggettivo al
            pari del nome <hi rend="i">Pan</hi> da cui deriva, e perchè quel celeberrimo oratore lo
            credeva un <hi rend="i">neologismo</hi> che non avesse ancora acquistato la cittadinanza
            romana. È però usato nelle lingue moderne comunemente, e parlando e <pb n="269"
              xml:id="p269"/>scrivendo, e trovasi anche registrato nei vocabolarii non solo
            italiani, ma altresì in quelli francesi, inglesi e spagnuoli : anzi gl’Inglesi l’usano
            assolutamente come nome.</p>
          <p>E per non chiudere il capitolo con queste quisquilie filologiche, terminerò esponendo
            una solenne osservazione filosofica del celebre Bacone da Verulamio sul <hi rend="i"
              >timor pànico</hi>. Egli afferma che ai timori veri e necessari per la conservazion
            della vita si aggiungono sempre molti timori vani, da cui tutti gli uomini, chi più, chi
            meno, sono assaliti ; e quindi nota come immensamente più dannosa di qualunque altra
            vana paura la <hi rend="i">superstizione, che veramente</hi>, com’ egli dice, <hi
              rend="i">non è altro che un terror pànico (quœ vere nihil aliud quam panicus terror
              est</hi>).</p>
        </div2>
        <div2 type="chapter">
          <head type="sur">XXXV</head>
          <head type="main">I Satiri ed altre Divinità campestri</head>
          <p>Chiunque ha veduti sculti o dipinti i Satiri avrà notato una gran somiglianza di forme
            fra essi e il Dio Pane, e riconoscerà quanto graziosamente e concisamente il Redi nel
            suo Ditirambo intitolato <hi rend="i">Bacco in Toscana</hi> li abbia definiti :</p>
          <quote>
            <l>« Quella che <hi rend="i">Pan</hi> somiglia</l>
            <l>« Capribarbicornipede famiglia. »</l>
          </quote>
          <p>Molti di essi formavano il corteo di Bacco, come dicemmo parlando di questo Dio, ed ivi
            notammo che per frastuono, stravizii ed ogni genere di follie non la cedevano alle più
            effrenate Baccanti. E a chi si maravigliasse di sì spregevol razza di Dei diremo
            soltanto che avendo i Mitologi ammessi anche gli Dei malefici, eran questi di certo
            peggiori dei Satiri, per quanto poco esemplari. Siccome poi, come dicemmo fin da
            principio, avevan foggiato i loro Dei a somiglianza degli uomini, così dopo averne
            ideati dei buoni e dei <pb n="270" xml:id="p270"/>cattivi, ne immaginarono ancora degli
              <hi rend="i">scioperati</hi> e dei <hi rend="i">fannulloni</hi>, come da Esiodo son
            chiamati i Satiri. Se questi eran poco esemplari come Dei, e molestavano le Ninfe
            campestri e boscherecce, almeno non nuocevano ai mortali. E perciò son rammentati quasi
            sempre scherzevolmente dai poeti, e per gli aneddoti che se ne raccontano rappresentati
            come i buffoni e i <hi rend="i">pagliacci</hi> delle divinità pagane. Anche la loro
            figura e il loro umore bizzarro e petulante si confaceva a tal qualificazione. Con
            questo concetto e sotto questo punto di vista furono introdotti i Satiri nelle
            Belle-Arti, quando cioè si volle rappresentare qualche cosa di giocoso e di bizzarro.
            Gli Artisti per lo più nel rappresentare i Satiri non seguono servilmente le descrizioni
            dei Mitologi, e studiansi di renderne meno sconcie le figure riducendole presso a poco
            alla forma ordinaria degli uomini ; ma però con fattezze più proprie della razza
            etiopica o malese, che della caucasica, e coi lineamenti caratteristici delle persone
            rozze e impudenti.</p>
          <p>Posson vedersi nella Galleria di Palazzo Pitti i Satiri di Tiziano nel suo quadro dei
              <hi rend="i">Baccanali</hi> ; nella Galleria degli Uffizi il Satirino che di nascosto
            pilucca l’uva a Bacco ebrio, gruppo di Michelangiolo, tanto lodato dal Vasari e dal
              Varchi<note place="bottom"><p>Il Varchi nella sua elaboratissima Orazione funebre in
                morte del Buonarroti, la quale egli recitò nella Chiesa di S. Lorenzo, così descrive
                il gruppo del Bacco e del Satirino : <quote>« Rarissimo e maravigliosissimo fu un
                    <hi rend="i">Bacco</hi> che egli, secondo che lo descrivono i poeti antichi,
                  fece di circa diciotto anni : il quale nella mano destra tiene sospesa in aria una
                  tazza ; la quale egli guata fiso, e disiosamente con occhi languidi e imbambolati
                  per berlasi tutta. Ha nel sinistro braccio una pelle indanaiata di tigre, e
                  co’polpastrelli, cioè colla sommità delle punte delle dita, regge penzo loni un
                  grappolo d’uva matura ; il quale un <hi rend="i">Satirino</hi> d’allegrissima
                  vista, che gli sta dai piè, si va a poco a poco, e quasi téma che egli nol vegga,
                  cautamente piluccando. »</quote></p><p>Non sarà inutile l’osservare per chi studia
                la propria lingua, che l’espressione <hi rend="i">indanaiata di tigre</hi>,
                riferibile a <hi rend="i">pelle</hi>, sebbene accolta e registrata nei Vocabolarii
                italiani, putirebbe ora di lucerna e di affettazione, ed equivale alla più semplice
                e più dell’uso comune <hi rend="i">pelle tigrata</hi>. Ma il verbo <hi rend="i"
                  >piluccare</hi> fu anche usato dall’<hi rend="sc">Alighieri</hi> nel Canto
                  <num>xxiv</num> del <hi rend="i">Purgatorio</hi> nella seguente
                  terzina :</p><quote><l>« Ei mormorava ; e non so che Gentucca</l><l>« Sentiva io
                  là ov’el sentìa la piaga</l><l>« Della giustizia che si gli <hi rend="i"
                    >pilucca</hi> ; »</l></quote><p>ed inoltre è un vocabolo sempre vivente nel
                linguaggio comune o dell’ uso. Può dunque convenire ad ogni genere di discorso e di
                stile in prosa e in verso.</p></note>. Inoltre intorno alla Fonte di Piazza della
            Signoria si vedono otto Satiri di bronzo fuso, quattro dei quali con piedi di capra e
            muso caprino, e gli altri quattro col <pb n="271" xml:id="p271"/>solo distintivo di due
            piccole corna che spuntano loro sulla fronte di mezzo ai capelli. Talvolta gli scultori
            pongono le figure dei Satiri per <hi rend="i">cariatidi</hi> ; della qual parola dà una
            bella spiegazione l’<hi rend="sc">Alighieri</hi> nella seguente similitudine :</p>
          <quote>
            <l>« Come per sostentar solaio o tetto</l>
            <l>« Per mensola talvolta una figura</l>
            <l>« Si vede giunger le ginocchia al petto,</l>
            <l>« La qual fa del non ver vera rancura</l>
            <l>« Nascere a chi la vede ; così fatti</l>
            <l>« Vid’io color, quando presi ben cura. »</l>
          </quote>
          <p>Due Satiri posti per <hi rend="i">cariatidi</hi> si vedono in Firenze nella facciata di
            un antico palazzo ora appartenente alla famiglia Fenzi. Nelle antiche Guide della Città,
            uno di questi due Satiri era attribuito a Michelangelo.</p>
          <p>I poeti italiani hanno introdotto i Satiri anche nelle <hi rend="i">Favole
              pastorali</hi>, ossia in quelle drammatiche rappresentazioni, i cui personaggi erano
            antichi pastori mitologici. Tra queste sono meritamente celebrate l’<hi rend="i"
              >Aminta</hi> del Tasso e il <hi rend="i">Pastor fido</hi> del Guarini, in ciascuna
            delle quali <hi rend="i">Favole</hi> trovasi <pb n="272" xml:id="p272"/>un Satiro, che
            sebbene parli elegantissimamente, e spesso anche troppo leziosamente, ragiona però
            bestialmente, come</p>
          <quote>
            <l>« …. Semiramis, di cui si legge</l>
            <l>« Che libito fe’licito in sua legge. »</l>
          </quote>
          <p>I Naturalisti danno il nome di <hi rend="i">Satiri</hi> a certi insetti del genere dei
              <hi rend="i">Lepidotteri</hi> diurni ; e i <hi rend="i">Retori</hi> o Letterati
            chiamano <hi rend="i">Satira</hi> un componimento che ha per oggetto la censura più o
            meno mordace degli altrui detti o fatti<note place="bottom"><p>Orazio <hi rend="i"
                  >satiro</hi>, come lo chiama Dante, ossia celebre per le sue <hi rend="i"
                  >Satire</hi>, nel parlar di giudizii diversi che ne davano i suoi contemporanei,
                così dice :</p><quote><l>« Sunt quibus in satira videor nimis acer, et
                  ultra</l><l>« Legem tendere opus ; sine nervis altera, quidquid</l><l>« Composui,
                  par esse putat, similesque meorum</l><l>« Mille die versus deduci
                posse. »</l></quote><bibl>(<title>Sat.</title>, <num>ii</num>,
            1ª.)</bibl></note>.</p>
          <p><hi rend="i">Sileni</hi> dicevansi i Satiri quand’eran vecchi ; e il più celebre di
            questi è quel <hi rend="i">Sileno</hi> che fu Aio e compagno di Bacco in tutte le
            spedizioni di proselitismo enologico. In pittura e in scultura neppur Sileno si
            rappresenta mezzo capro, ma con forme ordinarie d’uomo, e solamente vi si aggiunge
            qualche distintivo, come l’ellera, i corimbi, l’uva, i pampini, il tirso, ecc. Tale è
            l’antica statua di Sileno col piccolo Bacco nelle braccia, che trovasi nella villa <hi
              rend="i">Pinciana</hi>, e di cui una copia in bronzo esiste nel primo vestibolo della
            Galleria degli Uffizi in Firenze ; e come vedesi pure nel quadro dei Baccanali di <hi
              rend="i">Rubens</hi>, che è parimente nella stessa Galleria.</p>
          <p>Il Dio <hi rend="i">Momo</hi> è da porsi vicino ai Satiri pel suo umor satirico ed
            impudente. Il greco nome <hi rend="i">Momos</hi> datogli da Esiodo significa <hi
              rend="i">disdoro</hi> ossia <hi rend="i">disonore</hi>. Era in fatti spregevolissimo
            come fannullone e maldicente ; e molto a proposito fu creduto figlio del <hi rend="i"
              >Sonno</hi> e della <hi rend="i">Notte</hi>. Da prima era stato ricevuto nella corte
            celeste come buffone degli Dei, ma poi <pb n="273" xml:id="p273"/>ne fu scacciato per la
            sua soverchia insolenza. Poco o nulla hanno scritto di lui i Classici latini ; e tra i
            Greci, dopo Esiodo che creò questo bel tipo di maldicente, gli fece le spese Luciano
            ne’suoi dialoghi a schernire gli Dei ; ma gli fa dire tante <hi rend="i">freddure</hi>
            che sono una miseria e uno sfinimento a sentirle. Era rappresentato con un berretto
            frigio coi sonagli, un bastone ed una maschera in mano, distintivi significanti che egli
            con sfrenata licenza plebea e con modi da pazzo censurava tutti, pretendendo di
            smascherarne i vizii.</p>
          <p>I <hi rend="i">Fauni</hi> erano antiche divinità campestri d’origine italica<note
              place="bottom">Il nome di <hi rend="i">Fauno</hi> si fece derivare dal verbo <hi
                rend="i">fari</hi> (parlare) e si interpretò <hi rend="i">canere fata</hi> ossia
              presagire : quindi si disse che Fauno rendeva gli oracoli, come riferisce anche
              Virgilio nel lib. 7° dell’<hi rend="i">Eneide</hi>. La moglie di <hi rend="i"
                >Fauno</hi> chiamavasi <hi rend="i">Fauna</hi>, ed aveva un tempio in Roma sotto il
              nome di <hi rend="i">Dea Bona</hi>.</note> : in appresso si confusero coi Satiri, ma
            non furon mai rappresentati colle gambe e colle corna di capra<note place="bottom">Una
              delle più celebri statue di Fauno è quella che vedesi nella Tribuna della Galleria
              degli Uffizi. Lo stesso Michelangiolo giovanissimo scolpi una bella testa di
              Fauno.</note>. I Naturalisti per altro sin dal tempo di Linneo pare che li
            considerassero più bestie che uomini, poichè usarono a guisa di nome collettivo la <hi
              rend="i">Fauna</hi> per indicare complessivamente tutti gli animali che vivono in una
            data regione, nel modo stesso che dicono la <hi rend="i">Flora</hi> per significare
            tutti i fiori che si trovano nella regione medesima.</p>
          <p>Anche i <hi rend="i">Silvani</hi> appartenevano alla stessa classe di campestri
            divinità, e l’etimologia della parola li manifesta di origine latina (<hi rend="i">a
              silvis</hi>). Virgilio nelle <hi rend="i">Georgiche</hi> invoca <hi rend="i"
              >Silvano</hi> tra le divinità protettrici delle campagne, e accenna che per distintivo
            portava in mano un piccolo cipresso divelto dalle radici<note place="bottom"><quote><l>
                  « Et teneram ab radice ferens, <hi rend="i">Silvane</hi>,
                  cupressum. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc">Virg</hi>., <title>Georg.</title>,
                  <num>i</num>.)</bibl></note>.</p>
          <p><pb n="274" xml:id="p274"/><hi rend="i">Pale</hi> era la Dea dei pascoli e dei
              pastori<note place="bottom">Gli antichi Mitologi facevan derivare il nome di <hi
                rend="i">Pale</hi> da <hi rend="i">palea</hi> cioè dalla paglia, e i moderni
              filologi tedeschi dal verbo <hi rend="i">pasco</hi>. Ai Critici <hi rend="i">l’ardua
                sentenza</hi> !!</note>. Anticamente, e molto prima della fondazione di Roma, la
            festa di questa Dea celebravasi soltanto nelle campagne dai pastori e dagli agricoltori,
            per implorare la protezione di essa ; ed oltre le usate libazioni e le offerte di sacre
            focacce e di latte accendevansi fuochi di paglia, a traverso le cui vivide fiamme
            saltavano quei villici, credendo con tal atto di espiare le loro colpe. Questa <hi
              rend="i">placida Dea</hi>, come la chiama Tibullo<note place="bottom"><quote><l> « Hic
                  ego pastoremque meum lustrare quotannis,</l><l>« Et <hi rend="i">placidam</hi>
                  soleo spargere lacte <hi rend="i">Palem</hi>. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc"
                  >Tib</hi>., <title>Eleg.</title>, <num>i</num>, 1ª, v. 35.)</bibl></note>, e
            queste rozze e semplici cerimonie sarebbero rimaste ignote o presto obliate, se non
            fosse avvenuto che nel giorno stesso di quella festa avesse Romolo incominciato la
            fondazione di Roma, tracciando coll’aratro la prima cinta dell’eterna città. Quel giorno
            che fu il 21 di aprile divenne poi celebre e festeggiato solennemente anche in Roma come
            l’anniversario della fondazione di essa<note place="bottom"><p>Nell’antico calendario
                romano delle feste pagane il di 21 di aprile presentava queste tre
                indicazioni :</p><p>1ª <hi rend="i">XI. kal. majas</hi> cioè undici giorni avanti le
                calende di maggio, che significava, secondo l’uso latino di contare i giorni del
                mese, il 21 di aprile.</p><p>2ª <hi rend="i">Palilia</hi>, vale a dire <hi rend="i"
                  >Feste Palilie</hi>, cioè in onore della Dea <hi rend="i">Pale</hi>.</p><p>3ª <hi
                  rend="i">Romae Natalis</hi>, cioè giorno natalizio di Roma, ossia della sua
                fondazione.</p><p>Anche Cicerone rammenta questo giorno natalizio di Roma
                corrispondente alle <hi rend="i">Feste Palilie</hi> : <quote>« Urbis etiam nostrae
                    <hi rend="i">natalem diem</hi> repetebat <hi rend="i">ab iis Palilibus</hi>,
                  quibus eam a Romulo conditam accepimus. »</quote></p></note>, e tuttora si celebra
            e si solennizza, ma in altro modo, dai moderni Romani dopo 2628 anni.</p>
          <p><pb n="275" xml:id="p275"/>Il nome di <hi rend="i">Vertunno</hi>, che davasi al Dio
            delle stagioni e della maturità dei frutti, colla sua latina etimologia <hi rend="i">a
              vertendo</hi>, (cioè dai <hi rend="i">cangiamenti</hi> operati dalle stagioni sui
            prodotti della terra) dimostra l’origine italica e romana di questo Dio. Le sue feste si
            celebravano nell’ottobre quasi in ringraziamento della già compiuta maturità dei più
            utili frutti dell’anno. Opportunamente gli era data per moglie la Dea <hi rend="i"
              >Pomona</hi> protettrice dei pomi, ossia dei frutti degli alberi.</p>
          <p>Anche i fiori avevano la loro Dea, e questa chiamavasi <hi rend="i">Flora</hi> ad
            indicarne col nome stesso l’ufficio. Era la stessa che la Dea <hi rend="i">Clori</hi>
            dei Greci, il qual vocabolo fu tradotto con alterazione di pronunzia in quello latino di
              <hi rend="i">Flora</hi> come asserisce Ovidio<note place="bottom"><quote><l> « <hi
                    rend="i">Chloris</hi> eram quae <hi rend="i">Flora</hi> vocor : corrupta
                  Latino</l><l>« Nominis est nostri litera graeca sono. »</l></quote><bibl>(<hi
                  rend="sc">Ovid</hi>., <title>Fast.</title>, v, 195.)</bibl></note>. Sposò il vento
              <hi rend="i">Zeffiro</hi> e ottenne da esso l’impero sui fiori. Le feste <hi rend="i"
              >Florali</hi> cominciavano in Roma il 28 di aprile e duravano sino a tutto il dì 1° di
            maggio, nei quali giorni v’era un gran lusso di fiori, di cui tutti facevano a gara a
            cingersi la testa e ornarne le mense e perfino le porte delle case. L’immagine della Dea
              <hi rend="i">Flora</hi> è simile a quella della Primavera : ha mazzi di fiori in mano,
            una corona di fiori in testa, e fiori spuntano sul terreno ov’ella posa le piante.</p>
          <p>Di mezzo alle più graziose fantasie poetiche degli antichi Mitologi ne spunta di tratto
            in tratto qualcuna non egualmente felice, ed inoltre poco dignitosa per una divinità,
            qual fu l’invenzione del Dio <hi rend="i">Priapo</hi>. I Greci lo dissero figlio di
            Venere e di Bacco e gli attribuirono l’ufficio di guardian degli orti, e perciò di
            spaventare i ladri e gli uccelli. Ma gli aneddoti sconci ed abietti che raccontano di
            lui servono tutti a ispirar dispregio anzi che venerazione per esso. Aveva <pb n="276"
              xml:id="p276"/>culto pubblico soltanto in Lampsaco, città dell’Asia Minore presso
            l’Ellesponto, e perciò i poeti lo appellano <hi rend="i">Lampsaceno</hi> e <hi rend="i"
              >Nume Ellespontiaco</hi> ; ed eragli immolato l’asino, vittima che si credeva a lui
            gradita, in soddisfazione di uno sfregio che egli ricevè dall’asino di Sileno,
            quantunque la pena ricadesse sugli altri asini innocenti<note place="bottom"><quote><l>
                  « Caeditur et rigido <hi rend="i">Custodi</hi> ruris asellus :</l><l>« Causa
                  pudenda quidem, huic tamen apta Deo.</l><l>« …………. hinc est</l><l>« <hi rend="i"
                    >Hellespontiaco</hi> victima grata <hi rend="i"
                  >Deo</hi>. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc">Ovid</hi>., <title>Fast.</title>,
                  <num>i</num>.)</bibl></note>. I Romani ponevano la statua di Priapo nei loro orti
            o giardini, ma per far soltanto da spauracchio agli uccelli ; e a tal fine ed effetto
            nell’alto della testa gli piantarono una canna con stracci in balìa del vento. Molti
            poeti latini, tra i quali Orazio e Marziale, si sbizzarrirono a dileggiar talmente
            questo Dio, che peggio non avrebbero fatto nè detto contro il più vil dei mortali<note
              place="bottom"><p><hi rend="sc">Orazio</hi>, in tutta la <hi rend="i">Satira</hi> 8ª
                del <num>i</num> libro fa raccontare alla statua stessa di Priapo, fatta di fico,
                l’origine sua e le sconce prodezze con cui spaventò le streghe Canidia e Sagana
                mentre facevano un incantesimo negli Orti esquilini, posti sotto la sua guardia e
                custodia. La famosa satira comincia così :</p><quote><l>« Olim truncus eram
                  ficulnus, inutile lignum,</l><l>« Quum faber incertus scamnum faceretne
                  Priapum,</l><l>« Maluit esse Deum. <hi rend="i">Deus</hi> inde <hi rend="i">ego,
                    furum aviumque</hi></l><l>« <hi rend="i">Maxima formido</hi> ; nam fures dextra
                  coercet,</l><l>« Ast importunas volucres in vertice arundo</l><l>« Terret fixa,
                  vetatque novis considere in hortis. »</l></quote><p>La bizzarria dell’ invenzione
                e l’eleganza dello stile hanno fatto trovar posto a questa Satira in tutte le
                edizioni anche <hi rend="i">ad usum Delphini</hi>.</p></note>.</p>
          <p>Un Nume di origine romana, e simbolo vero e proprio della romana costanza, fu il Dio
              <hi rend="i">Termine</hi>. Non era altro che un masso, o uno stipite di pietra
            rozzamente squadrata, un <pb n="277" xml:id="p277"/>parallelepipedo rettangolo, come
            direbbesi in geometria, il quale ponevasi per confine del territorio dello Stato e dei
            campi dei cittadini. Se ne attribuisce l’invenzione a Numa Pompilio, che volle così
            santificare con una idea religiosa il diritto di proprietà e renderlo inviolabile
            coll’attribuire la rappresentanza di una Divinità tutelare di tal diritto a un segno
            materiale dei legittimi confini di esso. Gravissime pene eran minacciate anche dalle
            Leggi civili a chi rimuovesse il Dio <hi rend="i">Termine</hi> dal suo posto per
            estendere i proprii possessi a danno di quelli dei vicini. Oltre l’esecrazione
            religiosa, corrispondente alla scomunica maggiore, v’era la pena della deportazione in
            un’isola e la confisca del bestiame e di una terza parte dei beni del condannato.</p>
          <p>Il Dio <hi rend="i">Termine</hi> aveva in Roma una cappella a lui sacra nel tempio di
            Giove Capitolino, il quale era situato, come affermano gli archeologi, ove ora esiste la
            chiesa di <hi rend="i">Ara Coeli</hi>. Le <hi rend="i">Feste Terminali</hi> eran
            celebrate agli ultimi di febbraio, che fu per lungo tempo l’estremo mese dell’anno,
            poiché quando Numa vi aggiunse i mesi di gennaio e di febbraio, fece precedere il
            gennaio e seguire il febbraio ai dieci mesi dell’anno di Romolo. Con tali feste
            terminavano anticamente il loro anno i Romani ; e queste coincidevano in appresso con
            quelle della cacciata dei re<note place="bottom"><p><hi rend="sc">Orazio</hi> accenna
                che nelle <hi rend="i">Feste Terminali</hi> sacrificavasi una
                  agnella :</p><quote><l>« Vel agna festis caesa
                  Terminalibus. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc">Epod</hi>.,
                  <title>Od.</title> <num>ii</num>, v. 59.)</bibl><p><hi rend="sc">Ovidio</hi>
                descrive a lungo le stesse Feste nel libro 2° dei <hi rend="i">Fasti</hi>. Ne
                riporto alcuni distici dei più notabili per chi studia il latino, o come grata
                reminiscenza per chi l’ha studiato :</p><quote><l>« Nox ubi transierit, solito
                  celebretur honore</l><l>« Separat indicio qui Deus arva suo.</l><l>« Termine, sive
                  lapis sive es defossus in agro</l><l>« Stipes ab antiquis, sic quoque numen
                  habes.</l><l>« Te duo diversa domini pro parte coronant,</l><l>« Binaque serta
                  tibi, binaque liba ferunt.</l><l>« ……………</l><l>« ……………..</l><l>« Spargitur et <hi
                    rend="i">caesa</hi> communis Terminus <hi rend="i">agna</hi>,</l><l>« Nec
                  queritur, lactens quum sibi porca datur.</l><l>« Conveniunt celebrantque dapes
                  vicinia simplex,</l><l>« Et cantant laudes, Termine sancte, tuas.</l><l>« Tu
                  populos urbesque et regna ingentia finis ;</l><l>« Omnis erit sine te litigiosus
                  ager.</l><l>« Nulla tibi ambitio est, nullo corrumperis auro ;</l><l>« Legitima
                  servas credita rura fide. »</l></quote></note>. Così solennizzavano
            contemporaneamente i più preziosi diritti del cittadino, la proprietà e la libertà.</p>
          <pb n="278" xml:id="p278"/>
        </div2>
        <div2 type="chapter">
          <head type="sur">XXXVI</head>
          <head type="main">Le Ninfe</head>
          <p>Nel parlar delle Divinità marine notammo che v’erano seimila Ninfe <hi rend="i"
              >Oceanitidi</hi> e alcune centinaia di <hi rend="i">Nereidi</hi> e di <hi rend="i"
              >Doridi</hi>, oltre all’aver detto anche prima, che Giunone aveva per suo corteo
            quattordici Ninfe, Diana cinquanta e Cerere e Proserpina non si quante. Parrebbe dunque
            che l’argomento delle Ninfe dovesse essere esaurito. Ma non è così, perchè v’è ancora da
            parlare delle Ninfe dei monti, delle valli, delle fonti, dei boschi e perfino degli
            alberi. Perciò il loro numero non potrebbero dirlo nemmeno i più valenti Geografi, in
            quanto che non sono stati a contar sul globo tutte le fonti, e tanto meno tutti i boschi
            e boschetti, a cui pur presiedevano almeno altrettante Ninfe.</p>
          <p><hi rend="i">Ninfa</hi> è parola di origine greca, che fu adottata dai Latini e
            conservata dagli Italiani nello stesso duplice <pb n="279" xml:id="p279"/>significato
            primitivo, cioè di <hi rend="i">Dea inferiore</hi> e di <hi rend="i">giovane donna</hi>,
            perchè credevasi che le Ninfe non invecchiassero mai. Perciò si trovan sempre
            rappresentate come giovinette ingenue, semplicemente vestite, e tutt’al più ornate di
            fiorellini campestri come le pastorelle.</p>
          <p>Ammettevano per altro i Mitologi un grande assurdo, che cioè queste Divinità potessero
            morire ; il che è una contradizione in termini teologici. Erano meno assurdi i
            romanzieri del Medio Evo, che avendo inventato le <hi rend="i">Fate</hi> con potenza
            soprannaturale benchè limitata, credevano che non morissero mai :</p>
          <quote>
            <l>« Morir non puote alcuna fata mai, »</l>
          </quote>
          <p>disse l’Ariosto, che di <hi rend="i">Fate</hi> se ne intendeva.</p>
          <p>Gli appellativi di <hi rend="i">Oreadi, Napee, Naiadi</hi> e <hi rend="i">Driadi</hi>,
            che si diedero alle Ninfe, indicano col loro significato a quali cose queste Dee
            presiedevano ; poichè derivano da greci nomi significanti <hi rend="i">monti, valli,
              acque, quercie</hi>, e per <hi rend="i">catacresi</hi>, ossia abusivamente o
            estensivamente, <hi rend="i">alberi. Amadriadi</hi> poi è un greco vocabolo composto,
            che significa <hi rend="i">insiem colla quercia</hi>, o come si è detto di sopra,
              coll’<hi rend="i">albero</hi> ; e davasi questo titolo a quelle Ninfe la cui esistenza
            era legata alla vita vegetativa di una data pianta ; inaridendosi la quale, oppure
            essendo recisa o arsa, periva ad un tempo la Ninfa <hi rend="i">Amadriade</hi>. — Questi
            termini essendo significativi degli attributi speciali di quelle Ninfe a cui erano
            assegnati, conviene che li tengano a memoria anche coloro che non studiano le lingue
            dotte, perchè li adoprano non solo i poeti greci e i latini, ma altresì, benchè più di
            rado, gl’ italiani.</p>
          <p>Molte di quelle Ninfe a cui fu dato un nome proprio dai Mitologi e dai poeti furono da
            noi rammentate sinora : qui torna in acconcio di far parola di qualche altra che non
            troverebbe luogo più opportuno altrove. Tra le quali son da rammentarsi pel loro proprio
            nome le Ninfe che ebbero <pb n="280" xml:id="p280"/>cura dell’infanzia di Giove, cioè
              <hi rend="i">Amaltea</hi> e <hi rend="i">Melissa</hi>. Queste nutrirono l’infante Nume
            col latte di una capra detta comunemente <hi rend="i">Amaltea</hi> dal nome di una di
            queste due Ninfe a cui apparteneva. La qual capra fu poi da Giove trasportata in Cielo e
            cangiata nella costellazione del Capricorno, segno dello Zodiaco, corrispondente al
            solstizio invernale, e che rifulge di sessantaquattro stelle. Alcuni Mitologi dicono che
            anche la Ninfa Amaltea fosse cangiata insieme con la sua capra in quella
              costellazione<note place="bottom">Questa costellazione, invece di esser chiamata la
                <hi rend="i">Capra</hi>, è detta il <hi rend="i">Capricorno</hi> ; la qual parola
              composta starebbe a significare il <hi rend="i">corno della capra</hi>, o la <hi
                rend="i">capra con un corno</hi>, per alludere alla favola, che alla capra nutrice
              di Giove essendosi rotto un corno, Giove ne fece un regalo alle Ninfe che ebbero cura
              della sua infanzia, attribuendo al medesimo il mirabil prodigio di versar dalla sua
              cavità qualunque oggetto desiderato dalla persona che lo possedeva. Questo corno fu
              detto in latino <hi rend="i">cornucopia</hi>, e in italiano più comunemente il <hi
                rend="i">corno dell’abbondanza</hi>, come significa la parola latina. — A Giove
              stesso fu dato dai Greci l’appellativo di <hi rend="i">Egioco</hi>, che alcuni
              interpretano <hi rend="i">nutrito dalla Capra</hi> ; il qual termine per altro non fu
              adottato dai Latini, e l’usò soltanto qualche moderno poeta italiano.</note>. Della
            Ninfa <hi rend="i">Melissa</hi> poi raccontano che fosse stata la prima a scuoprire il
              <hi rend="i">miele</hi> in un alveare dentro un albero incavato o corroso dalla
            vecchiezza ; e che essa poi fosse cangiata in ape.</p>
          <p>La favola della Ninfa <hi rend="i">Eco</hi> cangiata in voce è raccontata anche in un
            modo diverso da quello che accennammo nel Cap. XXXIV ; ed è collegata colla favola di
              <hi rend="i">Narciso</hi>. E poichè Dante allude ad ambedue queste favole nella <hi
              rend="i">Divina Commedia</hi>, è necessario il farne qualche cenno.</p>
          <p>La <hi rend="i">Ninfa Eco</hi> figlia dell’ <hi rend="i">Aere</hi> e della <hi rend="i"
              >Terra</hi> si era invaghita del giovane <hi rend="i">Narciso</hi> figlio della Ninfa
              <hi rend="i">Liriope</hi> e del fiume <hi rend="i">Cefiso</hi> ; il qual Narciso era
            così vano della propria bellezza che non amava che sè stesso e disprezzava superbamente
            ogni persona. La Ninfa <hi rend="i">Eco</hi> se ne afflisse tanto, e si consumò talmente
            dal dolore, che di essa vi rimase la <pb n="281" xml:id="p281"/>voce sola che ripeteva
            appena le ultime parole altrui. A questa favola allude <hi rend="sc">Dante</hi> nel
            Canto <num>xii</num> del <hi rend="i">Paradiso</hi> coi seguenti versi :</p>
          <quote>
            <l>« A guisa del parlar di quella vaga <hi rend="i">(la Ninfa Eco)</hi></l>
            <l>« Ch’amor consunse come Sol vapori ; »</l>
          </quote>
          <p>e fa questa similitudine per dar la spiegazione che quando compariscono nel Cielo due
              <hi rend="i">Iridi</hi>, o come dice Dante :</p>
          <quote>
            <l>« Due archi paralleli e concolori</l>
            <l>« Nascendo di quel d’entro quel di fuori, »</l>
          </quote>
          <p>ciò avviene per riflessione dei raggi della luce, come il parlar dell’ <hi rend="i"
              >Eco</hi> per riflessione del suon della voce.</p>
          <p>Quanto poi all’orgoglioso amor proprio di <hi rend="i">Narciso</hi>, la Mitologia
            inventò molto a proposito che egli ne fu punito coll’essersi innamorato della propria
            immagine, veduta nello specchio delle acque di una fonte, e che credendola una Ninfa
            stette tanto a guardarla che ivi morì di estenuazione e fu cangiato nel fiore che porta
            il suo nome. <hi rend="sc">Dante</hi> allude più d’una volta a questa favola, come, per
            esempio, nel Canto <num>xxx</num> dell’<hi rend="i">Inferno</hi>, ove un dannato dice ad
            un altro :</p>
          <quote>
            <l>« Che s’io ho sete, e umor mi rinfarcia,</l>
            <l>« Tu hai l’arsura e ‘l capo che ti duole,</l>
            <l>« E per leccar <hi rend="i">lo specchio di Narcisso</hi> (cioè l’acqua)</l>
            <l>« Non vorresti a invitar molte parole. »</l>
          </quote>
          <p>E nel Canto III del <hi rend="i">Paradiso</hi>, descrivendo le anime beate che egli
            vide nel globo lunare, dice che gli eran sembrate immagini riflesse dall’<hi rend="i">
              acque nitide e tranquille</hi>, anzi che esseri di per sè esistenti, conchiudendo con
            la seguente osservazione tratta dalla favola di <hi rend="i">Narciso</hi> :</p>
          <quote>
            <l>« Perch’io dentro l’error contrario corsi</l>
            <l>« A quel che accese amor tra l’<hi rend="i">uomo</hi> e ‘l <hi rend="i"
              >fonte</hi> ; »</l>
          </quote>
          <p>cioè tra Narciso e l’immagine sua reflessa dall’acqua.</p>
          <p><pb n="282" xml:id="p282"/>Anche la Ninfa <hi rend="i">Galatea</hi> è molto rammentata,
            specialmente dai poeti latini, come una delle più belle Ninfe ; e dicono che se ne fosse
            invaghito quel mostruoso gigante <hi rend="i">Polifemo</hi> che fu re dei Ciclopi ; ma
            vedendosi preferito il pastorello <hi rend="i">Aci</hi>, lo uccise gittandogli sopra
            dall’ alto di un monte un macigno. Gli Dei cangiarono <hi rend="i">Aci</hi> in fiume che
            scorre nella Sicilia. I pittori hanno gareggiato a rappresentar <hi rend="i"
              >Galatea</hi> di bellissime forme, ed una delle più belle è quella che vedesi nella
            Galleria degli Uffizi in Firenze.</p>
          <p>Le Ninfe oltre ad esser giovani e belle, erano anche generalmente buone e cortesi ; e
            perciò tanto nelle lingue antiche quanto nelle moderne, e specialmente nella nostra,
            questo termine di <hi rend="i">Ninfa</hi>, anche nel senso traslato, cioè non
            mitologico, ha sempre un significato favorevole. Tant’è vero che Dante l’assegnò perfino
            alle <hi rend="i">Virtù Cardinali</hi>, che sotto forma ed abito femminile
            accompagnavano Beatrice ; e fa dire alle medesime nel canto <num>xxxi</num> del <hi
              rend="i">Purgatorio</hi> :</p>
          <quote>
            <l>« Noi sem qui <hi rend="i">Ninfe</hi> e nel Ciel semo stelle :</l>
            <l>« Pria che Beatrice discendesse al mondo.</l>
            <l>« Fummo ordinate a lei per sue ancelle. »</l>
          </quote>
          <p>E nel rammentar questo passo il can. Bianchi, che fu segretario dell’Accademia della
              <hi rend="i">Crusca</hi>, così lo spiegò : Le virtù morali sono <hi rend="i"
              >ninfe</hi> nella vita mortale, che abbellano e felicitano, operando, l’umanità ; sono
            stelle nel Cielo, da cui derivano e dove Dio le premia. » La quale spiegazione dimostra
            che ad un teologo, e al tempo stesso elegante scrittore, parve opportunamente adoprata
            in verso e in prosa la parola <hi rend="i">Ninfe</hi> anche in argomento religioso.
            Tanto più dunque, concluderemo, in soggetti profani.</p>
          <p>Infatti, anche gli Scienziati trovarono da far nuove applicazioni del significato di
            questo nome e da formarne vocaboli derivati e composti. Gli Zoologi nello studiarsi
            d’indicare con nomi diversi le successive metamorfosi di certe <pb n="283" xml:id="p283"
            />specie di animali, e principalmente degli insetti, presero dalla Mitologia il vocabolo
            di <hi rend="i">ninfa</hi> per significare l’insetto nello stato intermedio fra quello
            di <hi rend="i">larva</hi> e lo stato estremo o perfetto ; e dimostrarono così di aver
            bene inteso che le <hi rend="i">Ninfe</hi> mitologiche non eran perfette divinità, ma in
            una condizione media fra quella degli uomini e quella degli Dei supremi. Stabilita la
            base, e lieti della prima applicazione bene appropriata, presero coraggio a metterne
            fuori anche altre, e diedero il nome di <hi rend="i">Ninfale</hi> a un genere di <hi
              rend="i">Lepidotteri</hi> diurni della tribù dei <hi rend="i">Papilionidi</hi> ; e poi
            al <hi rend="i">Ninfale</hi> del pioppo <hi rend="i">(N. populea)</hi> assegnarono anche
            un altro nome più familiare e comune, tratto parimente dalla Mitologia, vale a dire <hi
              rend="i">Gran Silvano</hi>.</p>
          <p>I Botanici anch’essi nel determinare la nomenclatura delle piante aquatiche si
            ricordarono di aver trovato nella Mitologia, o in qualche classico, certe Ninfe
            dell’acqua, o che stavano nell’acqua, (il nome preciso di <hi rend="i">Naiadi</hi> non
            pare che lì per lì lo avessero ben presente) e si affrettarono a chiamar <hi rend="i"
              >Ninfèa</hi> una pianta aquatica (detta altrimenti <hi rend="i">Nenufar</hi> e
            volgarmente <hi rend="i">giglio degli stagni</hi>), e ne fecero il tipo della famiglia
            delle <hi rend="i">Ninfacee</hi>, ossia delle piante erbacee aquatiche congeneri alla
              <hi rend="i">Ninfèa</hi>.</p>
          <p>In Architettura poi sin dal tempo dei Classici greci e latini chiama vasi <hi rend="i"
              >Ninfèo</hi> non solo il tempio sacro alle Ninfe, ma altresì una particolar
            costruzione architettonica, o fabbrica <hi rend="i">sui generis</hi>, destinata il più
            spesso ad uso di bagni, annessa ai palazzi e alle ville dei più doviziosi cittadini,
            ove, oltre le acque scorrenti in ruscelli e zampillanti in fontane (e necessariamente le
            vasche e i bacini), aggiungevansi per ornamento e statue e vasi e talvolta ancora un
            tempietto dedicato alle Ninfe.</p>
          <pb n="284" xml:id="p284"/>
        </div2>
        <div2 type="chapter">
          <head type="sur">XXXVII</head>
          <head type="main">Gli Dei Dei Fiumi</head>
          <p>Se i Mitologi ed i poeti inventarono le Divinità delle fonti, tanto più è presumibile
            che non avranno mancato d’immaginare gli Dei dei Fiumi. E quanto ai nomi li presero
            dalla Geografia, vale a dire adottarono quegli stessi nomi che avevano i diversi fiumi
            nei diversi paesi. Supposero che questi Dei abitassero negli antri donde usciva la
            sorgente del fiume, la quale chiamavasi poeticamente il <hi rend="i">capo</hi>. Tibullo
            si maravigliava che il <hi rend="i">Padre Nilo</hi> nascondesse <hi rend="i">il suo
              capo</hi> in ignote terre<note place="bottom"><p>Tibullo ne dimanda al Nilo
                stesso :</p><quote><l>« <hi rend="i">Nile pater</hi>, quanam possum te dicere
                  causa,</l><l>« Aut quibus in terris occuluisse
                  caput ? »</l></quote><bibl>(<title>Eleg.</title>, I, 7ª, v. 23.)</bibl></note> ; e
            per quanto i Geografi e i più arditi viaggiatori si sieno affaticati a cercarlo, non son
            riusciti ancora ben bene, dopo circa 2000 anni, a levarsi questa curiosità : sembra che
            il <hi rend="i">Padre Nilo</hi> si diverta a <hi rend="i">far capolino</hi> tra i monti
            dell’Abissinia e si ritiri sempre un poco più in là. Il <hi rend="i">Padre Tebro</hi>
            poi, ossia il fiume <hi rend="i">Tevere</hi>, era un personaggio molto serio, ed in
            certi casi anche un poco profeta. Nell’<hi rend="i">Eneide</hi> parla divinamente nel
            suo linguaggio originale, come lo fa parlare Virgilio<note place="bottom"><p>Parlata del
                Tevere ad Enea, quando gli comparve in sogno :</p><quote><l>« O sate gente Deûm,
                  trojanam ex hostibus urbem</l><l>« Qui revehis nobis, æternaque Pergama
                  servas,</l><l>« Expectate solo Laurenti, arvisque latinis ;</l><l>« Hic tibi certa
                  domus, certi (ne absiste) Penates.</l><l>« Neu belli terrere miris : tumor omnis
                  et iræ</l><l>« Concessere Deûm.</l><l>« Iamque tibi, ne vana putes hæc fingere
                  somnum,</l><l>« Litoreis ingens inventa sub ilicibus sus,</l><l>« Triginta capitum
                  fetus enixa, jacebit ;</l><l>« Alba, solo recubans, albi circum ubera
                  nati.</l><l>« Hic locus urbis erit, requies ea certa laborum ;</l><l>« Ex quo ter
                  denis urbem redeuntibus annis</l><l>« Ascanius clari condet cognominis
                  Albam.</l><l>« Haud incerta cano. Nunc qua ratione quod instat</l><l>« Expedias
                  victor, paucis, adverte, docebo.</l><l>« Arcades his oris, genus a Pallante
                  profectum,</l><l>« Qui regem Evandrum comites, qui signa secuti,</l><l>« Delegere
                  locum, et posuere in montibus urbem,</l><l>« Pallantis proavi de nomine,
                  Pallanteum.</l><l>« Hi bellum assidue ducunt cum gente latina :</l><l>« Hos
                  castris adhibe socios, et fœdera junge.</l><l>« Ipse ego te ripis et recto flumine
                  ducam,</l><l>« Adversum remis superes subvectus ut amnem.</l><l>« Surge age, nate
                  Dea ; primisque cadentibus astris,</l><l>« Junoni fer rite preces, iramque
                  minasque</l><l>« Supplicibus supera votis : mihi victor honorem</l><l>« Persolves.
                    <hi rend="i">Ego sum</hi>, pleno quem flumine cernis</l><l>« Stringentem ripas,
                  et pinguia culta secantem,</l><l>« <hi rend="i">Cœruleus Tibris</hi>, cœla
                  gratissimus amnis.</l><l>« Hic mihi magna domus, celsis caput urbibus
                exit. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc">Virg</hi>., <title>Æneid.</title>,
                  <num>viii</num>, v. 36…)</bibl></note>.</p>
          <p><pb n="285" xml:id="p285"/><hi rend="sc">Virgilio</hi> inoltre si dà premura di
            presentarci ancora il ritratto del Dio Tevere,</p>
          <quote>
            <l>« ….. che già vecchio al volto</l>
            <l>« Sembrava. Avea di pioppo ombra d’intorno ;</l>
            <l>« Di sottil velo e trasparente in dosso</l>
            <l>« Ceruleo ammanto, e i crini e ‘l fronte avvolto</l>
            <l>« D’ombrosa canna<note place="bottom"><p>Ecco l’originale
                    latino :</p><quote><l>« Populeas inter senior se attollere
                    frondes</l><l>« Visus. Eum tenuis glauco velabat amictu,</l><l>« Carbasus et
                    crines umbrosa tegebat arundo. »</l></quote><bibl>(<title>Æneid.</title>,
                    <num>viii</num>, v. 32 …)</bibl></note>. »</l>
          </quote>
          <p><pb n="286" xml:id="p286"/>Per altro in pittura e in scultura si aggiungono altri
            distintivi ai diversi fiumi. Si rappresentano generalmente seduti in un terreno alquanto
            declive e colle gambe stese per indicare il corso del fiume e la pendenza dell’ alveo :
            ha ciascuno di essi presso di sè un’urna da cui esce l’acqua per significar la
            sorgente ; e se il fiume è navigabile, si pone in mano alla figura del Dio un remo : se
            poi il suo corso si dirama in due o più alvei, si aggiungono sulla fronte del Nume due
            corna. Inoltre la corona o ghirlanda del fiume è composta di canne, come del Tevere ha
            detto Virgilio, o ancora delle fronde di quegli alberi che più facilmente vegetano sulle
            sue rive, o che sono particolari alla regione nella quale scorre quel fiume.
            Modernamente, per indicar meglio qual Fiume sia rappresentato, gli si pone appresso, o
            nella sinistra, uno scudetto coll’arme o stemma di quel popolo pel territorio del quale
            scorrono le sue acque.</p>
          <p>Tra i Fiumi della Grecia ve n’erano alcuni molto bizzarri. Il fiume <hi rend="i"
              >Alfeo</hi>, per esempio, essendosi invaghito della Ninfa <hi rend="i"
              >Aretusa</hi><note place="bottom"><p><hi rend="sc">Virgilio</hi> che nelle sue <hi
                  rend="i">Egloghe</hi> imitò Teocrito’ Siracusano, (e lo dice egli stesso al
                principio dell’ Egloga 6ª in questi due versi :</p><quote><l>« Prima <hi rend="i"
                    >Syracosio</hi> dignata est ludere <hi rend="i">versu</hi></l><l>« Nostra, nec
                  erubuit silvas habitare, Thalia), »</l></quote><p>invoca nel 1° verso della
                famosissima Egloga 4ª le Muse Siciliane :</p><quote><l>« <hi rend="i">Sicelides
                    Musœ</hi>, paulo majora canamus ; »</l></quote><p>e nell’ultima Egloga la Ninfa
                  <hi rend="i">Aretusa</hi>, perchè Dea siciliana :</p><quote><l>« Extremum hunc <hi
                    rend="i">Arethusa</hi>, mihi concede laborem. »</l></quote></note> (cangiata in
            fonte che scorrevà sotto terra nella Sicilia presso Siracusa), per andarla a trovare si
            scavò un canale sottomarino e la raggiunse tra i ciechi labirinti delle <pb n="287"
              xml:id="p287"/>inferne regioni<note place="bottom">Non solo Ovidio ed altri poeti
              raccontano questo fatto mitologico, ma pur anco Strabone il geografo e Pausania lo
              storico lo registrano, e come fisicamente possibile, e come realmente vero. Trovansi
              infatti anche altrove dei fiumi, le acque dei quali nel loro corso spariscono sotto
              terra, e a gran distanza ricompariscono sulla superficie di essa. Esempio ne sia nella
              Spagna la <hi rend="i">Guadiana</hi>, che dopo 50 chilometri di corso dalla sua
              origine sparisce in un canneto presso <hi rend="i">Tomelioso</hi>, e alla distanza di
              24 chilometri esce nuovamente dalla terra gorgogliando ; e quelle aperture del terreno
              son chiamate <hi rend="i">gli occhi della Guadiana</hi>.</note>. Il fiume <hi rend="i"
              >Acheloo</hi> fu battagliero quanto Rodomonte, e osò venir tre volte a singolar
            tenzone con Ercole per ottenere a preferenza di lui Deianira in isposa. E di questa
            pugna dovremo parlare altrove più a lungo.</p>
          <p>I fiumi poi della Troade eran piccini, ma furiosi. Omero ci racconta che il fiume <hi
              rend="i">Xanto</hi> (chiamato altrimenti lo <hi rend="i">Scamandro</hi><note
              place="bottom">E da notarsi che in Omero si trovano spesso due nomi dati all’istesso
              oggetto o alla medesima persona. Il nome più antico è attribuito dal poeta al
              linguaggio degli Dei, e il più moderno a quello degli uomini. Nel caso di cui si parla
              nel testo il <hi rend="i">Xanto</hi> è il nome più antico, e lo <hi rend="i"
                >Scamandro</hi> il più moderno. Tale è l’opinione di Vibio, di Plutarco e di altri ;
              ma Plinio il naturalista afferma che lo <hi rend="i">Scamandro</hi> era un fiume
              navigabile diverso dal <hi rend="i">Xanto</hi>. I moderni Geografi, non che i
              Letterati e gli Archeologi, per quanto abbiano visitato e studiato diligentemente la
              Troade, non si trovano d’accordo nel riconoscere e determinare i celebri fiumi di
              quella classica terra. Nè ciò deve recar maraviglia. I fiumi abbandonati a sè stessi
              per tanti secoli spesso mutano direzione e si aprono un nuovo corso, o perchè restò
              colmato il loro antico alveo dalle piene, o per fenomeni geologici che abbiano
              alterato la superficie e la pendenza del terreno.</note>, nel tempo della guerra di
            Troia vedendo le stragi che Achille faceva dei Troiani, congiurò col <hi rend="i"
              >Simoenta</hi>, suo fratello, di annegar quell’Eroe nelle loro acque ; ed avrebbe
            ottenuto l’intento, se non accorreva Vulcano con una gran fiamma a vaporizzarle. E
            poichè è un’alta gloria di <pb n="288" xml:id="p288"/>quel piccolo fiume l’aver fatto
            paura egli solo al <hi rend="i">tremendissimo Achille</hi>, che non aveva paura di
            alcuno, non sarà discaro il sentire con quale impetuosa eloquenza il <hi rend="i"
              >Xanto</hi> incoraggiava il fratello <hi rend="i">Simoenta</hi> ; e poi quanto fu
            grande lo sgomento di Achille che disperatamente si lamentava, e pietosamente si
            raccomandava agli Dei che lo salvassero.</p>
          <p>Nel libro <num>xxi</num> dell’ <hi rend="i">Iliade</hi> (trad. del Monti) così parla il
              <hi rend="i">Xanto</hi> al <hi rend="i">Simoenta</hi> :</p>
          <quote>
            <l>« Caro germano, ad affrenar vien meco</l>
            <l>« La costui furia, o le dardanie torri</l>
            <l>« Vedrai tosto atterrate, e tolto ai Teucri</l>
            <l>« Di resister la speme. Or tu deh ! corri</l>
            <l>« Veloce in mio soccorso, apri le fonti,</l>
            <l>« Tutti gonfia i tuoi rivi, e con superbe</l>
            <l>« Onde t’innalza, e tronchi aduna e sassi,</l>
            <l>« E con fracasso ruotali nel petto</l>
            <l>« Di questo immane guastator, che tenta</l>
            <l>« Uguagliarsi agli Dei. Ben io t’affermo</l>
            <l>« Che nè bellezza gli varrà nè forza</l>
            <l>« Nè quel divin suo scudo, che di limo</l>
            <l>« Giacerà ricoperto in qualche gorgo</l>
            <l>« Voraginoso. Ed io di negra sabbia</l>
            <l>« Involverò lui stesso, e tale un monte</l>
            <l>« Di ghiaia immenso e di pattume intorno</l>
            <l>« Gli verserò, gli ammasserò, che l’ossa</l>
            <l>« Gli Achei raccorne non potran : cotanta</l>
            <l>« La belletta sarà che lo nasconda.</l>
            <l>« Fia questo il suo sepolcro, onde non v’abbia</l>
            <l>« Mestier di fossa nell’esequie sue.</l>
            <l>« Disse, ed alto insorgendo, e d’atre spume</l>
            <l>« Ribollendo e di sangue e corpi estinti,</l>
            <l>« Con tempesta piombò sopra il <hi rend="i">Pelide</hi>.</l>
            <l>« …………………</l>
            <l><pb n="289" xml:id="p289"/>« Levò lo sguardo al Cielo il generoso</l>
            <l>« Ed urlò : Giove padre, adunque nullo</l>
            <l>« De’numi aita l’infelice Achille</l>
            <l>« Contro quest’onda ! Ah ! ch’io la fugga, e poi</l>
            <l>« Contento patirò qual sia sventura.</l>
            <l>« Ma nullo ha colpa de’Celesti meco</l>
            <l>« Quanto la madre mia che di menzogne</l>
            <l>« Mi lattò, profetando che di Troia</l>
            <l>« Sotto le mura perirei trafitto</l>
            <l>« Dagli strali d’Apollo ! Oh foss’io morto</l>
            <l>« Sotto i colpi d’Ettorre, il più gagliardo</l>
            <l>« Che qui si crebbe ! Avria rapito un forte</l>
            <l>« D’un altro forte almen l’armi e la vita.</l>
            <l>« Or vuole il Fato che sommerso io pera</l>
            <l>« D’oscura morte, ohimè ! come fanciullo</l>
            <l>« Di mandre guardïan cui ne’piovosi</l>
            <l>« Tempi il torrente, nel guadarlo, affoga. »</l>
          </quote>
          <p>Avremo da parlar tanto delle prodezze di Achille (invidiato dallo stesso Alessandro il
            Grande per la singolar fortuna di averne per banditore Omero), che non vi sarà spazio a
            raccontar questa sua unica paura, che trova qui posto più opportuno, parlandosi delle
            prodezze e dei vanti dei fiumi della Troade.</p>
        </div2>
        <div2 type="chapter">
          <head type="sur">XXXVIII</head>
          <head type="main">Gli Dei Penati e gli Dei Lari</head>
          <p>Se dovessimo prendere ad esaminare le diverse opinioni degli eruditi intorno a questi
            Dei, faremmo un lavoro arduo e poco piacevole, e poi senza alcun frutto, perchè non è
            possibile conciliarle tra loro, nè scuoprire chi meglio <pb n="290" xml:id="p290"/>abbia
            colto nel segno. Perciò converrà contentarsi di conoscere quel che ne accennano i
            Classici e principalmente Virgilio e Cicerone, e starcene a quel che essi ne credevano e
            ce ne lasciarono scritto ; e tutt’al più deducendone quelle illazioni che ne derivano
            razionalmente. — Per chi non è idolatra o politeista sembra che possa bastare.</p>
          <p><hi rend="sc">Virgilio</hi> che nell’<hi rend="i">Eneide</hi> ha eternato co’suoi
            impareggiabili versi le origini mitologiche del popolo romano secondo le più comuni
            credenze antiche, fa derivare da Troia gli Dei <hi rend="i">Penati</hi> ; e da quel che
            egli ne scrive s’intende chiaramente che questi erano speciali Dei protettori della
            città, poichè fa dire ad Enea dall’ombra di Ettore, che <hi rend="i">Troia affida ad
              esso i suoi Penati</hi> ; e inoltre gli comanda che <hi rend="i">cerchi loro altre
              terre, erga altre mura</hi><note place="bottom"><quote><l> « Sacra <hi rend="i"
                    >suosque</hi> tibi commendat <hi rend="i">Troia Penates</hi> :</l><l>« Hos cape
                  fatorum comites ; <hi rend="i">his mœnia quære</hi>,</l><l>« Magna pererrato
                  statues quæ denique
                ponto. »</l></quote><bibl>(<title>Æneid.</title>,<num>ii</num>,
            293….)</bibl></note>. E quando Enea li consegna a suo padre Anchise, li chiama <hi
              rend="i">patrii Penati</hi><note place="bottom"><quote><l> « Tu, genitor, cape sacra
                  manu, <hi rend="i">patriosque
                  Penates</hi>. »</l></quote><bibl>(<title>Æneid.</title>, <num>ii</num>,
                717….)</bibl></note>. E per viaggio, allorchè questi Dei gli compariscono in sogno,
            li appella <hi rend="i">Frigii Penati</hi><note place="bottom"><quote><l> « Effigies
                  sacræ Divûm, <hi rend="i">phrygiique Penates</hi>,</l><l>« Quæ mecum a Troia
                  mediisque ex ignibus urbis</l><l>« Extuleram, visi ante ocules adstare
                  jacentis</l><l>« In somnis, multo manifesti lumine, qua se</l><l>« Plena per
                  insertas fundebat Luna fenestras. »</l></quote><bibl>(<title>Æneid.</title>,
                  <num>iii</num>, 148….)</bibl></note>. Ecco tre esempi che dimostrano il concetto
            generale di Virgilio, che cioè i Penati fossero gli Dei protettori di Troia e della
            Troade. Vero è che lo stesso poeta aggiunge che i Penati avevano special culto anche
            nella reggia di Priamo :</p>
          <quote>
            <l><pb n="291" xml:id="p291"/>« Era nel mezzo del palagio all’aura</l>
            <l>« Scoperto un grande altare, a cui vicino</l>
            <l>« Sorgea di molti e di molt’anni un lauro</l>
            <l>« Che co’rami all’altar facea tribuna,</l>
            <l>« E coll’ombra a’<hi rend="i">Penati</hi> opaco velo<note place="bottom"><quote><l>
                      « <hi rend="i">Ædibus in mediis</hi> nudoque sub ætheris axe</l><l>« Ingens
                    ara fuit, juxtaque veterrima laurus</l><l>« Incumbens aræ, atque umbra complexa
                    Penates. »</l></quote><bibl>(<title>Æneid.</title>, <num>ii</num>,
                512….)</bibl></note>. »</l>
          </quote>
          <p>Ma se il capo dello Stato onorava di un culto speciale gli Dei protettori della sua
            città e del suo regno, questo fatto non toglie agli Dei <hi rend="i">Penati</hi> il loro
            carattere generale e il loro principale ufficio, che essi non avrebber perduto ancorchè
            in ogni famiglia avessero ricevuto un simil culto. Infatti non è proibito nemmeno nella
            religion cristiana l’eriger private cappelle in onore del santo patrono della città o
            dello Stato. Con tal distinzione sparisce ogni dubbio sul vero e proprio ufficio
            attribuito dai Pagani agli Dei Penati. Anzi ne deriva al tempo stesso la spiegazione
            come avvenga che talvolta in qualche Classico latino si annoverano tra gli Dei Penati
            taluni degli Dei superiori o maggiori, come Giove, Marte, Nettuno ecc. Vedemmo altrove
            che lo stesso Dante rammenta Marte come il primo <hi rend="i">patrono</hi> di Firenze,
            che poi i cittadini divenuti cristiani cangiarono <hi rend="i">nel Battista</hi><note
              place="bottom"><quote><l> « Io fui della città che <hi rend="i">nel
                  Battista</hi></l><l>« Cangiò ’l <hi rend="i">primo padrone</hi> ; ond’ ei per
                  questo</l><l>« Sempre coll’arte sua la farà
                  trista. »</l></quote><bibl>(<title>Inf.</title>, <num>xiii</num>,
              143….)</bibl></note>. Infatti, la voce <hi rend="i">Penati</hi> è soltanto un
            attributo o aggettivo che corrisponde, non già per l’etimologia, ma pel significato e
            per l’effetto creduto, alla parola <hi rend="i">protettori</hi>, o <hi rend="i"
              >patroni</hi> : quindi per tale ufficio poteva scegliersi qualunque Nume dei più noti
            e celebri.</p>
          <p><pb n="292" xml:id="p292"/>Riguardo poi all’ etimologia del titolo di questi Dei, che
            furon portati in Italia</p>
          <quote>
            <l>« ……. da quel giusto</l>
            <l>« Figliuol d’Anchise che venne da Troia, »</l>
          </quote>
          <p>lasceremo decidere ai solenni filologi di professione se il vocabolo stesso <hi
              rend="i">Penati</hi> discenda in linea retta o collaterale dal troiano linguaggio,
            come i Romani dai Troiani. E poichè Cicerone, a cui parrebbe che questa squisitezza
            filologica avesse dovuto importare più che a noi, non vi pensa nè punto nè poco, e ci
            dice soltanto che la voce <hi rend="i">Penati</hi> deriva da due vocaboli latini
            usitatissimi (<hi rend="i">penus</hi> e <hi rend="i">penitus</hi>), senza aggiungere che
            questi fossero d’origine troiana, bisognerà per ora starsene a quel che egli ne scrisse,
            e credere sulla sua parola che l’etimologia di quel termine fosse latina, e alludesse al
            vital nutrimento degli uomini dai Penati protetti, ovvero alla parte più interna dei
            tempii e delle case ove questi Dei erano adorati<note place="bottom"><p>Ecco le precise
                parole di <hi rend="sc">Cicerone</hi>, <hi rend="i">De Nat. Deorum</hi>,
                  lib. <num>ii</num>, cap. 27 :</p><p><quote>« Nec longe absunt ab hac vi dii <hi
                    rend="i">Penates</hi>, sive a <hi rend="i">penu</hi> ducto nomine (est enim omne
                  quo vescuntur homines <hi rend="i">penus</hi>), sive ab eo quod <hi rend="i"
                    >penitus</hi> insident : ex quo etiam <hi rend="i">penetrales</hi> a poetis
                  vocantur. »</quote></p></note>. Sappiamo infatti anche dagli storici essere stata
            comune opinione che quegli stessi idoli degli Dei Penati venuti da Troia fossero
            custoditi dalle Vestali in luogo nascosto ai profani insieme col <hi rend="i"
              >Palladio</hi>, sacre reliquie troiane, che nessun vide giammai, ma nella cui
            esistenza tutti credevano ; — e quando si tratta di credere, non v’è bisogno di
            dimostrazione ; <hi rend="i">sola fides sufficit</hi>. Quindi l’espressione rituale dei
            politeisti <hi rend="i">i sacri penetrali</hi> corrisponde al <hi rend="i">sancta
              sanctorum</hi> dei monoteisti ; quindi il comun verbo <hi rend="i">penetrare</hi>
            significa lo spingersi addentro nei più riposti recessi dei luoghi o dei pensieri.</p>
          <p><pb n="293" xml:id="p293"/>In quanto ai <hi rend="i">Lari</hi>, che questi fossero Dei
            familiari o domestici non può insorger questione, poichè li consideran tali tutti i
            Mitologi ed i poeti latini e pur anco gl’ Italiani : lo stesso <hi rend="sc">Ugo
              Foscolo</hi>, peritissimo nelle lingue dotte e per conseguenza anche nella Mitologia,
            li chiama nel suo Carme <hi rend="i">I Sepolcri</hi>, come abbiamo veduto altrove, i <hi
              rend="i">domestici Lari</hi>. Sappiamo poi che nelle case dei più ricchi politeisti
            romani v’era il <hi rend="i">Larario</hi>, ossia la cappella dei Lari ; e nelle altre,
            almeno un tabernacolo colle statue o immagini di questi Dei, le quali spesso ponevansi
            ancora dentro certe nicchie nei <hi rend="i">focolari</hi>, parola questa che alcuni
            etimologisti notano come composta colla voce <hi rend="i">Lari</hi><note place="bottom"
                ><p>Chi non è affatto ignaro della lingua latina sa bene quanto differiscano fra
                loro le due parole <hi rend="i">ignis</hi> e <hi rend="i">focus. Ignis</hi> è la
                materia combustibile in ignizione, il <hi rend="i">fuoco : focus</hi> è il luogo
                dove il fuoco si accende, il <hi rend="i">focolare</hi>. Questa differenza si trova
                chiaramente esemplificata in questo pentametro di <hi rend="sc">Tibullo</hi>
                  (lib. <num>i</num>, <hi rend="i">Eleg</hi>.,<num>i</num>) :</p><quote><l>« Dum
                  meus exiguo luceat igne focus. »</l></quote><p>Nella corruzione della lingua
                latina <hi rend="i">focus</hi> cominciò ad essere usato invece di <hi rend="i"
                  >ignis</hi>, e <hi rend="i">foculare</hi> invece di <hi rend="i">focus</hi>.
                Infatti nel dizionario delle parole barbare troviamo spiegata la voce <hi rend="i"
                  >foculare</hi> : <quote>« locus ubi focus accenditur. »</quote> Questa parola <hi
                  rend="i">foculare</hi>, che era ed è barbara in latino, è divenuta la pura e
                schietta parola italiana <hi rend="i">focolare</hi>.</p></note>.</p>
          <p>La questione per altro verte intorno all’etimologia del nome ed alla origine di questi
            Dei, poichè v’è chi li crede così chiamati, perchè figli della Ninfa <hi rend="i"
              >Lara</hi> o <hi rend="i">Larunda</hi>, ed altri ne derivano il nome da <hi rend="i"
              >Lar</hi> antica parola etrusca che significa <hi rend="i">capo</hi> o <hi rend="i"
              >principe</hi>. Chi non la pretende a filologo è indifferente per l’una o per l’altra
            etimologia ; ma quanto all’origine e alla particolar natura di questi Dei nessuno potrà
            convenire di dover confondere i <hi rend="i">Penati</hi> coi <hi rend="i">Lari</hi>,
            come fanno alcuni Eruditi. Oltre la diversa origine, <hi rend="i">troiana</hi> dei
            primi, <hi rend="i">etrusca</hi> o <hi rend="i">italica</hi> dei secondi, e le
            caratteristiche bene accertate degli Dei Penati, come abbiamo veduto di sopra, si
            potrebbero <pb n="294" xml:id="p294"/>citare molte autorità di classici, da cui
            chiaramente apparisce il differente ufficio dei <hi rend="i">Penati</hi> e dei <hi
              rend="i">Lari</hi>. Vero è che potrebbe citarsi ancora qualche esempio in contrario ;
            ma qualche rara eccezione non distrugge mai la regola generale ; e a sostegno di questa
            terminerò coll’ esaminare una filosofica osservazione di <hi rend="sc">Cicerone</hi>,
            nel lib. <num>v</num> della <hi rend="i">Repubblica</hi>, ov’egli parla, per dirlo colla
            frase del Romagnosi, dei <hi rend="i">fattori dell’ Incivilimento</hi>. Tra questi egli
            annovera il culto degli Dei <hi rend="i">Penati e dei Lari familiari</hi> ; e aggiunge
            che nella pratica applicazione questi Dei rappresentano <hi rend="i">i comuni ed i
              privati vantaggi</hi> della social convivenza. Perciò, oltre al distinguer gli Dei <hi
              rend="i">Penati</hi> dagli Dei <hi rend="i">Lari</hi>, e decider così la question
            mitologica sulla diversa loro personalità, viene ancora a significare che i primi eran
            protettori dei diritti del cittadino, ed i secondi di quelli del padre di famiglia ;
            senza dei quali, come egli sapientemente dichiara, <hi rend="i">non può esser buona una
              repubblica, nè ben viversi in essa</hi><note place="bottom">« Ad vitam autem usumque
              vivendi ea descripta ratio est justis nuptiis, legitimis liberis, <hi rend="i">sanctis
                Penatium deorum Larumque familiarium sedibus, ut omnes et communibus commodis et
                suis uterentur</hi>, nec bene vivi sine bona republica posset, nec esse quicquam
              civitate bene constituta beatius. » — (<hi rend="i">De Repub</hi>., lib. v,
              cap. 5).</note>.</p>
        </div2>
        <div2 type="chapter">
          <head type="sur">XXXIX</head>
          <head type="main">Eolo e i Venti</head>
          <p>Non bastò ai Greci ed ai Romani politeisti, dopo aver considerata l’<hi rend="i"
              >Aria</hi> come uno dei 4 elementi del Caos, il farne anche una Dea, che, sposato il
              <hi rend="i">Giorno</hi> (sinonimo di <hi rend="i">luce</hi>), produsse <hi rend="i"
              >Urano</hi>, ossia il Cielo ; in quanto che osservando in appresso che nell’aria
            esiste</p>
          <quote>
            <l>« Quell’<hi rend="i">umido vapor</hi> che in acqua riede, »</l>
          </quote>
          <p><pb n="295" xml:id="p295"/>ne fecero un Dio sotto il nome di <hi rend="i">Giove
              Pluvio</hi> ; ed inoltre, poichè l’aria, movendosi,</p>
          <quote>
            <l>« ….. or vien quinci ed or vien quindi,</l>
            <l>« E muta nome perchè muta lato, »</l>
          </quote>
          <p>e produce il fenomeno dei <hi rend="i">Venti</hi>, vollero deificare anche questi.
            Riconobbero però facilmente che la maggior parte di questi Dei eran molto turbolenti,
            producendo in mare orribili tempeste, e sulla terra bufere e devastazioni ; e che perciò
            v’era bisogno che fossero sottoposti a qualche altra più potente divinità che li
            raffrenasse ; diversamente, come dice <hi rend="sc">Virgilio</hi>,</p>
          <quote>
            <l>« ….. Il mar, la terra, e ‘l cielo</l>
            <l>« Lacerati da lor, confusi e sparsi</l>
            <l>« Con essi andrian per lo gran vano a volo.</l>
            <l>« Ma la possa maggior del padre eterno</l>
            <l>« Provvide a tanto mal ; serragli e tenebre</l>
            <l>« D’abissi e di caverne e moli e monti</l>
            <l>« Lor sopra impose ; ed a re tale il freno</l>
            <l>« Ne diè, ch’ei ne potesse or questi or quegli</l>
            <l>« Con certa legge o rattenere o spingere.<note place="bottom"><quote><l> « Ni faciat,
                    maria ac terras cœlumque pr ofundum</l><l>« Quippe ferant rapidi secum,
                    verrantque per auras.</l><l>« Sed Pater omnipotens speluncis abdidit
                    atris,</l><l>« Hoc metuens ; molemque et montes insuper altos</l><l>« Imposuit ;
                    regemque dedit, qui fœdere certo</l><l>« Et premere, et laxas sciret dare jussus
                    habenas. »</l></quote><bibl>(<title>Æneid.</title>, I, v.
              58).</bibl></note> »</l>
          </quote>
          <p>Questa regione o carcere dei <hi rend="i">Venti</hi>, secondo lo stesso poeta,</p>
          <quote>
            <l>« È nell’<hi rend="i">Eolia</hi>, di procelle e d’austri</l>
            <l>« E delle furie lor patria feconda.</l>
            <l>« Eolo è suo re, ch’ivi in un antro immenso</l>
            <l>« Le sonore tempeste e i tempestosi</l>
            <l><pb n="296" xml:id="p296"/>« Venti, siccome è d’uopo, affrena e regge.</l>
            <l>« Eglino impetuosi e ribellanti</l>
            <l>« Tal fra lor fanno e per quei chiostri un fremito,</l>
            <l>« Che ne trema la terra e n’urla il monte.</l>
            <l>« Ed ei lor sopra realmente adorno</l>
            <l>« Di corona e di scettro, in alto assiso</l>
            <l>« L’ira e gl’impeti lor mitiga e molce.<note place="bottom"><quote><l> « Nimborum in
                    patriam, loca feta furentibus Austris,</l><l>« <hi rend="i">Æoliam</hi> venit.
                    Hic vasto rex <hi rend="i">Æolus</hi> antro</l><l>« Luctantes ventos
                    tempestatesque sonoras</l><l>« Imperio premit, ac vinclis et carcere
                    frœnat.</l><l>« Illi indignantes magno cum murmure montis</l><l>« Circum
                    claustra fremunt. Celsa sedet Æolus arce</l><l>« Sceptra tenens, mollitque
                    animos, et temperat iras. »</l></quote><bibl>(<title>Æneid.</title>, I, v.
                  51).</bibl></note> »</l>
          </quote>
          <p>Questa regione dell’<hi rend="i">Eolia</hi> non è già quella dell’Asia Minore situata
            fra la Troade e l’Ionia, e detta più anticamente la <hi rend="i">Misia</hi>, ma
            corrisponde al gruppo delle isole chiamate ancora oggidì <hi rend="i">Eolie</hi>, o di
            Lipari, nel mar Tirreno fra la Sicilia e l’Italia. Il nome stesso di <hi rend="i"
              >Eolo</hi>, che deriva da un greco vocabolo significante <hi rend="i">vario</hi> o <hi
              rend="i">mutabile</hi>, allude alle successive mutazioni dei venti che predominano in
            quelle isole.</p>
          <p>Anche <hi rend="sc">Omero</hi>, nel libro X dell’<hi rend="i">Odissea</hi>, dice che
            Eolo</p>
          <quote>
            <l>« …. de’venti dispensier supremo</l>
            <l>« Fu da Giove nomato ; ed a sua voglia</l>
            <l>« Stringer lor puote o rallentare il freno. »</l>
          </quote>
          <p>Ma gli attribuisce un genere di vita più patriarcale, e gli assegna un soggiorno più
            poetico ed ameno, quantunque nella stessa regione insulare. Non è tempo perduto, <hi
              rend="i">nè fia senza diletto</hi> leggerne o rileggerne l’omerica descrizione :</p>
          <quote>
            <p><pb n="297" xml:id="p297"/>« Giungemmo nell’<hi rend="i">Eolia</hi>, ove il
              diletto</p>
            <p>« Agl’immortali Dei d’<hi rend="i">Ippota</hi> figlio,<note place="bottom"><p>Perciò
                  i poeti latini usano il patronimico <hi rend="i">Hippotades</hi>, invece del nome
                  di <hi rend="i">Eolo</hi>, come per es. <hi rend="sc">Ovidio</hi> nel
                    lib. <num>iv</num> delle <hi rend="i"
                    >Metamorfosi</hi> :</p><quote><l>« Clauserat <hi rend="i">Hippotades</hi> æterno
                    carcere ventos. »</l></quote><p>Orazio chiama <hi rend="sc">Eolo</hi>
                  <hi rend="i">ventorum pater</hi>, volendo colla parola <hi rend="i">pater</hi>
                  significare <hi rend="i">Deus</hi>, secondo che abbiamo detto altra volta
                  spiegando il titolo di <hi rend="i">padre</hi> dato ad Apollo anche da Dante ; e
                  per la stessa ragione Virgilio appella Giove <hi rend="i">pater
                  omnipotens</hi>.</p></note></p>
            <l>« Eolo, abitava in isola natante,<note place="bottom">Abbiamo parlato altra volta
                delle isole <hi rend="i">natanti</hi> o <hi rend="i">galleggianti</hi>, e
                precisamente nel N° XVI, a proposito dell’isola di <hi rend="i">Delo</hi>, che
                Pindaro fu il primo a chiamar <hi rend="i">natante</hi>. Ora vediamo che anche Omero
                4 secoli e mezzo prima di Pindaro aveva notizia delle isole <hi rend="i"
                  >natanti</hi>, e credeva tale una delle 7 isole <hi rend="i"
              >Eolie</hi>.</note></l>
            <l>« Cui tutta un muro d’infrangibil rame,</l>
            <l>« E una liscia circonda eccelsa rupe.</l>
            <l>« Dodici, sei d’un sesso e sei dell’altro,</l>
            <l>« Gli nacquer figli in casa ; ed ei congiunse</l>
            <l>« Per nodo marital suore e fratelli,</l>
            <l>« Che avean degli anni il più bel fior sul volto.</l>
            <l>« Costoro ciascun dì siedon tra il padre</l>
            <l>« Caro e l’augusta madre, ad una mensa</l>
            <l>« Di varie carca delicate dapi.</l>
            <l>« Tutto il palagio, finchè il giorno splende,</l>
            <l>« Spira fragranze, e d’armonie risuona ;</l>
            <l>« Poi, caduta sull’isola la notte,</l>
            <l>« Chiudono al sonno le bramose ciglia</l>
            <l>« In traforati e attappezzati letti</l>
            <l>« Con le donne pudiche i fidi sposi. »</l>
          </quote>
          <p>Alcuni Mitologi dissero che Eolo era figlio di Giove e di Segesta figlia d’<hi rend="i"
              >Ippota</hi> troiano ; e che i <hi rend="i">Venti</hi> fossero figli di <hi rend="i"
              >Astreo</hi>, uno dei Titani, e dell’<hi rend="i">Aurora</hi> ; e quelle loro <pb
              n="298" xml:id="p298"/>genealogie furono accolte dai più. Si eran provati pur anco ad
            inventare che i <hi rend="i">Venti</hi> avessero mosso guerra a Giove ; ma i poeti
            trovaron poco spiritosa questa invenzione e la trascurarono affatto. E pochi altri fatti
            mitologici ne raccontano, perchè hanno trovato difficile di attribuire ai Venti distinte
            personalità e porle in azione. Soltanto del più impetuoso e del più mite fra loro, cioè
            di <hi rend="i">Borea</hi> e di <hi rend="i">Zeffiro</hi>, narrano brevemente qualche
            fatto. Di <hi rend="i">Borea</hi> dicono che rapì la Ninfa <hi rend="i">Orizia</hi>
            figlia di <hi rend="i">Eretteo</hi> re di Atene, e n’ebbe 2 figli chiamati <hi rend="i"
              >Calai</hi> e <hi rend="i">Zete</hi>, di cui dovremo parlare nella spedizione degli
            Argonauti. La spiegazione più semplice e più naturale del ratto di <hi rend="i"
              >Orizia</hi> è, secondo Platone, che questa infelice principessa rimanesse vittima di
            una tempesta o di un <hi rend="i">uragano</hi>. Di <hi rend="i">Zeffiro</hi> abbiamo già
            detto altrove che egli sposò la Dea <hi rend="i">Flora</hi> e le diede potestà sui
            fiori ; e questa favola significa soltanto che il tepido vento chiamato <hi rend="i"
              >Zeffiro</hi> o <hi rend="i">Favonio</hi> favorisce la vegetazione delle piante <hi
              rend="i">fanerogame</hi>, cioè che producono fiori.</p>
          <p>Poichè tutti i poeti epici han per costume di descrivere qualche tempesta in cui
            inevitabilmente incappano sempre i loro <hi rend="i">protagonisti</hi> o altri dei più
            famosi eroi, perciò <hi rend="i">Eolo</hi> ed i <hi rend="i">Venti</hi> figurano molto
            in tali descrizioni dei poeti pagani, e principalmente in Omero e in Virgilio. E siccome
            i nomi che diedero i Greci e i Latini ai <hi rend="i">Venti</hi> sono per lo più
            adottati anche dai poeti italiani, e inoltre ne derivaron o molte denominazioni
            geografiche, non sarà inutile il farne brevemente la rassegna.</p>
          <p>I 4 Venti principali, rammentati anche da Omero, sono <hi rend="i">Borea, Noto,
              Euro</hi> e <hi rend="i">Zeffiro</hi>, nomi adottati dai Latini e conservati nella
            poesia italiana ed in alcune denominazioni scientifiche. Corrispondono ai <hi rend="i"
              >Venti</hi> di <hi rend="i">tramontana, ostro, levante</hi> e <hi rend="i"
              >ponente</hi> che spirano dai 4 punti cardinali <hi rend="i">nord, sud, est,
              ovest</hi>. Il nome greco è significativo delle qualità distintive di ciascuno di
            essi : <hi rend="sc">Borea</hi> significa <hi rend="i">fremente</hi> ; <hi rend="sc"
              >Noto</hi>, <hi rend="i">umido ;</hi>
            <pb n="299" xml:id="p299"/><hi rend="sc">Euro</hi>, <hi rend="i">abbronzante</hi> ; <hi
              rend="sc">Zeffiro</hi>, <hi rend="i">oscuro</hi>.<note place="bottom"><p><hi rend="sc"
                  >Ovidio</hi> ne determina egregiamente la direzione secondo i 4 punti cardinali
                nei 2 seguenti distici :</p><quote><l>« Nam modo purpureo vires capit <hi rend="i"
                    >Eurus ab ortu</hi>,</l><l>« Nunc <hi rend="i">Zephyrus sero vespere</hi> missus
                  adest.</l><l>« Nunc gelidus Scythica <hi rend="i">Boreas</hi> bacchatur <hi
                    rend="i">ab Arcto</hi>,</l><l>« Nunc <hi rend="i">Notus adversa</hi> prœlia <hi
                    rend="i">fronte</hi> gerit. »</l></quote><bibl>(<title>Trist.</title>,
                  Lib. <num>i</num>, El. 2ª v. 27).</bibl></note> In Esiodo si trova rammentato il
            vento <hi rend="i">Argeste</hi> (che vuol dir <hi rend="i">sereno</hi>, e secondo altri
            grecisti <hi rend="i">veloce</hi>) ; e siccome in quel poeta non si trova nominato il
            vento <hi rend="i">Euro</hi>, alcuni Eruditi hanno detto che è sinonimo di questo., Ma
            Plinio il Naturalista afferma che l’<hi rend="i">Argeste</hi> greco corrispondeva al <hi
              rend="i">Cauro</hi> o <hi rend="i">Coro</hi> dei Latini, ossia al <hi rend="i"
              >ponente-maestro (nord-ovest)</hi>.</p>
          <p>Gli Antichi non conoscevano i 32 <hi rend="i">Venti</hi> notati e distinti dai Geografi
            e dai Navigatori moderni, ma soltanto 12 bene accertati, ristrettissima essendo e timida
            la loro navigazione, perchè andavano per lo più costeggiando, e poco si azzardavano in
            alto mare. Non immaginavano neppure l’esistenza del Grande Oceano ; non avevan mai
            passata la linea nell’Oceano Atlantico ; e il <hi rend="i">non plus ultra</hi> delle
            colonne d’Ercole li tratteneva ancora dal passar lo stretto di Gades (ora di Gibilterra)
            e dall’andar navigando lungo le spiaggie occidentali dell’Affrica.</p>
          <p>I Geografi moderni non si accordano nell’assegnare il corrispondente nome latino o
            greco ai diversi <hi rend="i">Venti</hi> ora conosciuti e contrassegnati nella così
            detta <hi rend="i">Rosa dei Venti</hi> ; e la ragione è questa, che gli Antichi stessi
            furono incerti nel determinare da qual punto preciso quei Venti da loro notati e
            denominati spirassero ; e poi perchè invece di fare in principio la bisezione
            dell’angolo retto fra i <hi rend="i">punti cardinali</hi> e quindi suddividerlo, ne
            fecero la trisezione, ossia lo divisero in 3 : quindi è matematicamente impossibile il
            far corrispondere i loro <hi rend="i">punti intermedii</hi> a quelli determinati dai <pb
              n="300" xml:id="p300"/>moderni. Ma su ciò vedano i Geografi <hi rend="i">ne quid
              Respublica detrimenti capiat</hi> ! A noi basterà di conoscere in qual <hi rend="i"
              >quadrante</hi>, (come dicono in oggi nelle <hi rend="i">tavole meteorologiche</hi>),
            ossia dentro quale degli angoli retti formato dai punti cardinali spirassero quei loro
              <hi rend="i">Venti intermedii</hi>.</p>
          <p>Fra <hi rend="sc">Borea</hi> ed <hi rend="sc">Euro</hi> spiravano <hi rend="i"
              >Aquilone</hi> e <hi rend="i">Volturno</hi> ; fra <hi rend="sc">Euro</hi> e <hi
              rend="sc">Noto</hi>, <hi rend="i">Subsolanus</hi> e <hi rend="i">Austro</hi> ; fra <hi
              rend="sc">Noto</hi> o <hi rend="sc">Zeffiro</hi>, <hi rend="i">Affrico</hi> o <hi
              rend="i">Libico</hi> e <hi rend="i">Favonio</hi> ; fra <hi rend="sc">Zeffiro</hi> e
              <hi rend="sc">Borea</hi>, <hi rend="i">Cirico</hi> o <hi rend="i">Iapige</hi> e <hi
              rend="i">Cauro</hi> o <hi rend="i">Coro</hi>. È da notarsi però che talvolta gli
            Autori e specialmente i poeti, nominano l’un per l’altro quei <hi rend="i">Venti</hi>
            che spirano tra lor più vicini, ossia usano i loro diversi nomi come sinonimi di uno
            stesso Vento. Così fanno sinonimi <hi rend="i">Borea</hi> ed <hi rend="i">Aquilone ;
              Austro</hi> e <hi rend="i">Noto</hi> ; <hi rend="i">Zeffiro</hi> e <hi rend="i"
              >Favonio</hi>, ecc. Più esatto di tutti è Dante, perchè più scienziato, e inoltre
            impareggiabile anche in astronomia. Egli infatti colle indicazioni astronomiche ci fa
            conoscere non solo i giorni del suo viaggio allegorico, ma pur anco le ore diverse di
            quei giorni. Quand’egli dice nel Canto <num>xi</num> dell’<hi rend="i">Inferno</hi>,</p>
          <quote>
            <l>« Che i <hi rend="i">Pesci</hi> guizzan su per l’orizzonta</l>
            <l>« E’l <hi rend="i">Carro</hi> tutto sovra’l <hi rend="i">Coro</hi> giace, »</l>
          </quote>
          <p>accenna con precisione astronomica che eran due ore prima dello spuntar del Sole in
            quel giorno del mese di marzo che aveva prima indicato, poichè appunto in quell’ora che
            egli voleva significare appariva la costellazione dei <hi rend="i">Pesci</hi>
            sulorizzonte, e inoltre la costellazione del <hi rend="i">Carro</hi>, ossia dell’<hi
              rend="i">Orsa maggiore</hi> giaceva tutta <hi rend="i">sovra’l Coro</hi>, cioè fra
            settentrione ed occidente, ossia presso a poco a ponente-maestro o <hi rend="i"
              >nord-ovest</hi>, come ora direbbesi. E quando nel Canto <num>xxxii</num> del <hi
              rend="i">Purgatorio</hi> vuole affermare che i 7 celesti candelabri ardenti non li
            spengerebbero i più opposti e gagliardi venti, egli dice</p>
          <quote>
            <l>« Che son sicuri d’<hi rend="i">Aquilone</hi> e d<hi rend="i">’Austro</hi>, »</l>
          </quote>
          <p><pb n="301" xml:id="p301"/>nominando i venti più opposti e più procellosi. E finalmente
            terminerò col rammentare che Dante non ha dimenticato d’introdurre nella <hi rend="i"
              >Divina Commedia</hi> anche un cenno della favola di Eolo re dei Venti, secondo ciò
            che ne scrive il suo maestro Virgilio nei versi da noi citati in principio di questo
            Numero, poichè invece di dire prosaicamente che soffia o spira il vento di Scirocco,
            orna ed abbellisce il suo concetto con questa perifrasi mitologica :</p>
          <quote>
            <l>« Quand’<hi rend="i">Eolo</hi> Scirocco fuor discioglie. »</l>
          </quote>
          <pb n="n.p.n.p."/>
        </div2>
      </div1>
      <div1 type="section">
        <head type="sur">Parte III</head>
        <head type="main">Semidei, indigeti ed eroi</head>
        <div2 type="chapter">
          <head type="sur">XL</head>
          <head type="main">Osservazioni generali</head>
          <p>Questi tre termini di <hi rend="i">Semidei, Indigeti</hi> ed <hi rend="i">Eroi</hi> si
            trovano usati talvolta indistintamente l’uno per l’altro, benchè differiscano tra loro
            non solo etimologicamente, ma pur anco per certe speciali condizioni, che converrà prima
            di tutto accennare.</p>
          <p><hi rend="i">Semidei</hi>, parola latina conservata senza alterazione ortografica nella
            lingua italiana, è traduzione del greco vocabolo <hi rend="i">Emitei</hi> ; e in tutte e
            tre le lingue significa evidentemente <hi rend="i">mezzi Dei</hi>, e vi si sottintende
              <hi rend="i">e mezzi uomini</hi>, non già mezze bestie, come si rappresentavano alcune
            delle Inferiori Divinità. Erano figli o d’un Dio e di una donna mortale, quali furono
            Perseo ed Ercole ; oppure di una Dea e di un uomo mortale, come credevasi di Achille e
            di Enea.</p>
          <p><hi rend="i">Indigeti</hi> è parola di etimologia tutta latina, sia che debbasi
            interpretare <hi rend="i">inde geniti</hi>, o <hi rend="i">in diis agentes</hi>, cioè
            generati sulla Terra, o ascritti fra gli Dei. E per quanto possa questo vocabolo
            sembrare a primo aspetto sinonimo di quello di <hi rend="i">Semidei</hi>, non v’è
            compresa per altro come necessaria la condizione che uno dei genitori debba essere una
            Divinità. Quindi anche un semplice mortale poteva divenire un <hi rend="i">Indigete</hi>
            Dio.</p>
          <p><pb n="304" xml:id="p304"/>La voce <hi rend="i">Eroi</hi>, divenuta tanto comune in
            verso e in prosa non solo nelle lingue dotte, ma pur anco nella italiana e nelle altre
            lingue affini, è di origine greca ; ed i filologi antichi, incominciando da Servio
            commentator di Virgilio, ne danno tre diverse etimologie,<note place="bottom"><p>Servio
                nel commento all’egloga 4ª di Virgilio deduce il nome di <hi rend="i">Heros</hi> da
                  <hi rend="i">Hera</hi> significante, secondo esso, la Terra : quindi <hi rend="i"
                  >Eroe</hi>, secondo Servio, corrisponderebbe a <hi rend="i">Indigete</hi>, che
                abbiamo detto di sopra significare <hi rend="i">indes genitus</hi> cioè è <hi
                  rend="i">terra genitus</hi>.</p><p>Altri lo derivano da <hi rend="i">Aer</hi>, e
                fanno così corrisponder gli Eroi ai <hi rend="i">Genii</hi> dell’aria, che nel Medio
                Evo furon chiamati <hi rend="i">spiriti folletti</hi>. (Anche <hi rend="sc"
                  >Dante</hi> usò la parola <hi rend="i">folletto</hi> per anima dannata nel
                  C. <num>xxx</num> dell’<hi rend="i">Inferno</hi> :</p><quote><l>« …..Quel <hi
                    rend="i">folletto</hi> è Gianni Schicchi,</l><l>« E va rabbioso altrui cosi
                  conciando). »</l></quote><p>Finalmente alcuni dicono formato il nome <hi rend="i"
                  >Heros</hi> da <hi rend="i">Eros</hi> significante <hi rend="i">Cupido</hi> ossia
                l’amore, alludendo ai connubi delle Divinità cogli esseri umani ; e secondo questa
                etimologia verrebbero ad esser sinonimi <hi rend="i">Eroi</hi> e <hi rend="i"
                  >Semidei</hi>.</p></note>deducendole da tre diverse accezioni in cui trovasi usata
            quella voce, cioè di <hi rend="i">Semidei</hi>, di <hi rend="i">Dei Indigeti</hi>, e di
              <hi rend="i">uomini divenuti illustri</hi> o per dignità o per imprese di sovrumano
            valore. Lo stesso <hi rend="sc">Omero</hi> l’usa assai spesso in quest’ultimo
            significato tanto nell’<hi rend="i">Iliade</hi> quanto nell’<hi rend="i">Odissea</hi> ;
            e del pari si adopra comunemente nella lingua italiana tanto in verso quanto in prosa ;
            e si applica pur anco agli uomini illustri della storia antica e della moderna, come
            pure ai più straordinarii personaggi d’invenzione della fantasia dei poeti. I due
            vocaboli <hi rend="i">Semidei</hi> e <hi rend="i">Indigeti</hi> son termini appartenenti
            esclusivamente alla Mitologia classica : il vocabolo <hi rend="i">Eroi</hi>, oltre a
            poter esser comprensivo degli altri due sopraddetti, si estende dai più antichi e famosi
            personaggi ai più moderni e ridicoli <hi rend="i">Eroi da poltrona</hi> proverbiati dal
              Giusti<note place="bottom">Vedasi l’epigramma del Giusti, che ha per titolo : <hi
                rend="i">Il Poeta e gli Eroi da poltrona</hi>.</note>.</p>
          <p><pb n="305" xml:id="p305"/>Varcati questi sterpi filologici, avanziamoci in più aperta
            e vasta campagna <hi rend="i">e in più spirabil aere</hi>, e diamo uno sguardo fugace
            alla remota <hi rend="i">Età eroica</hi>, che spunta fra le caligini mitologiche e si
            estende sino alle serene regioni della Storia. I tempi eroici anche più dei mitologici
            formarono il soggetto delle meditazioni dei più grandi filosofi e pubblicisti (e basti
            rammentar fra questi il Vico e Mario Pagano), perchè vi si trovano le origini storiche
            dei più celebri popoli antichi, frammiste a racconti favolosi, dai quali bisogna
            distinguerle e sceverarle. A quest’epoca si riferiscono le più straordinarie imprese
            condotte a termine colla forza e col senno degli uomini, assistiti e protetti dalle
            Divinità. Principalmente si rammenta e si celebra il liberar la Terra dai mostri e dai
            tiranni, e sgombrar così la via dai più grandi ostacoli all’incivilimento dei popoli. E
            quanto alla sapienza di quell’epoca ottennero lode sopra gli altri i fondatori delle
            religioni e delle città. Se grandi erano le virtù, non meno grandi furono i vizii
            consistenti principalmente nell’abuso della forza, o come dicono i poeti, nel viver di
            rapina : era per lo più questa la causa delle antiche guerre.</p>
          <p>Nel Medio Evo dopo la caduta del romano Impero e le irruzioni dei Barbari, se non si
            rinnovò precisamente un <hi rend="i">circolo similare</hi> di tutte le antiche fasi
            sociali, come suppone il Vico, poichè vi restò un <hi rend="i">addentellato</hi> della
            greca e della romana civiltà, come dice il Romagnosi (e si può aggiungere anche di
            quella del Cristianesimo), che aiutarono e sollecitarono il <hi rend="i"
              >risorgimento</hi>, ritornò per altro colla dissoluzione di tutti gli ordini sociali
            il predominio della forza in tutto il suo furibondo vigore e il così detto <hi rend="i"
              >diritto della privata violenza</hi>. Ne abbiamo una conferma anche nei racconti delle
            leggende, riferibili a quell’epoca dolorosissima ; e da quei fatti leggendarii
            s’informarono i poemi romanzeschi che ammettono prodigii non meno strani di quelli
              dell’<hi rend="i">Odissea</hi>.</p>
          <p>Spiacemi che il mio umile assunto e lo scopo principale <pb n="306" xml:id="p306"/>a
            cui è diretto questo lavoro m’impediscano di estendermi in osservazioni generali, e mi
            obblighino invece di aggiunger soltanto spiegazioni al racconto dei molteplici fatti
            particolari che più ne abbisognano ; ma ho voluto premetter questi brevi cenni per far
            conoscer la necessità di studiare i <hi rend="i">tempi eroici</hi>, che sono come il <hi
              rend="i">Medio Evo</hi> fra la Mitologia e la Storia, e che perciò hanno la stessa
            importanza per le origini storiche dei popoli antichi che il Medio Evo per le origini
            della moderna civil società.</p>
          <p>Scendendo ora a parlare dei principali <hi rend="i">Eroi</hi>, e <hi rend="i"
              >Semidei</hi> e <hi rend="i">Indigeti</hi> di quest’epoca, convien prima di tutto
            determinare l’estensione, o vogliam dire la durata dell’<hi rend="i">età eroica</hi> ;
            ed io l’accennerò prima di tutto colle parole stesse del nostro <hi rend="sc">Giovan
              Battista Vico</hi> : <quote>« Tutti gli<hi rend="i">Storici</hi>, egli dice, danno il
              principio al <hi rend="sc">Secolo eroico</hi> coi <hi rend="i">corseggi di
                Minosse</hi> e con la <hi rend="i">spedizione navale che fece Giasone in Ponto</hi>,
              il proseguimento con la <hi rend="i">guerra Troiana</hi> e il fine con gli <hi
                rend="i">error degli Eroi</hi>, che vanno a terminare nel <hi rend="i">ritorno di
                Ulisse in Itaca</hi>. »</quote> Volendo poi determinare cronologicamente
            quest’epoca, non abbiamo dati certi neppure dell’anno preciso della distruzione di
            Troia, poichè si trova in taluni Autori la differenza di più di un secolo ; ma seguendo
            la <hi rend="i">Cronologia greca</hi> più accreditata colle modificazioni di <hi
              rend="i">Petit-Radel</hi> nel suo <hi rend="i">Examen critique</hi>, troveremo almeno
            in qual ordine di tempo vissero gli eroi più antichi di quelli che presero parte attiva
            nella guerra di Troia. E a far questo ci aiuteranno diverse celebri imprese a cui
            intervennero quasi tutti gli Eroi contemporanei, che i Mitologi ed i Poeti si son dati
            cura di rammentare : tali sono la caccia del cinghiale di Caledonia, la spedizione degli
            Argonauti, la guerra di Tebe o dei 7 Prodi, e finalmente la guerra di Troia. Ora in
            queste diverse imprese trovansi rammentati quasi tutti gli Eroi di cui si ha notizia, e
            talvolta in una son nominati i padri e nell’altra i figli ; e di qualche eroe che
            intervenne a più d’una è detto in quale <pb n="307" xml:id="p307"/>di esse egli era più
            giovane, in quale più vecchio : dal che deducesi senza tema di errare l’ordine
            cronologico di quelle imprese. Inoltre di quegli Eroi che non son rammentati o compresi
            in nessuna di quelle spedizioni, e che pure compierono memorabili gesta, separatamente
            narrate dai Mitologi, dobbiamo ragionevolmente indurne che fossero anche più antichi del
            tempo in cui avvennero quelle, e già divenuti <hi rend="i">Indigeti</hi> Dei, oppure
            discesi nel regno delle Ombre. Questo può asseverarsi principalmente di Perseo, di
            Bellerofonte e di Cadmo, anche secondo la precitata Cronologia greca ; perciò dalle
            gesta di questi dovrà cominciare la narrazione dei tempi eroici. Degli altri dirò a mano
            a mano che toccherà la lor volta per ordine cronologico ; e di quelli che si trovarono
            insieme in una data spedizione prima accennerò brevemente le particolari qualità di
            ciascuno di essi, e poi li metterò in azione tutti insieme ; parlando più a lungo del
            capo o protagonista di quella impresa nel narrare l’impresa stessa.</p>
          <p>Prima di por termine a questo Capitolo convien fare un’altra osservazione generale ; ed
            è questa : che attribuendosi oltre che una forza straordinaria, anche una lunghissima
            vita a tutti gli Eroi, non devesi calcolare la loro media e la loro probabile esistenza
            secondo le moderne tavole di <hi rend="i">Statistica</hi> ; e basta soltanto il sapere
            quel che dice <hi rend="sc">Omero</hi> del <hi rend="i">Pilio Nestore</hi>, il più
            vecchio dei Duci che andarono alla guerra di Troia, che cioè</p>
          <quote>
            <l>« Di parlanti con lui nati e cresciuti.</l>
            <l>« Nell’alma <hi rend="i">Pilo</hi> ei già trascorse avea</l>
            <l>« Due vite, e nella terza allor regnava. »</l>
          </quote>
          <bibl>(<title>Iliad.</title>, lib. <num>i</num>).</bibl>
          <pb n="308" xml:id="p308"/>
        </div2>
        <div2 type="chapter">
          <head type="sur">XLI</head>
          <head type="main">Perseo</head>
          <p>Questo antichissimo Eroe apparteneva al novero dei <hi rend="i">Semidei</hi>, poichè fu
            creduto figlio di <hi rend="i">Giove</hi> e di <hi rend="i">Danae</hi>, la quale era
            figlia di <hi rend="i">Acrisio</hi> re degli Argiesi. Se gli storici pongono Argo fra le
            più antiche città della Grecia, trovano la conferma della loro asserzione nelle
            tradizioni preistoriche della Mitologia, poichè abbiamo già veduto nel N. XI, che di <hi
              rend="i">Inaco</hi> re d’Argo era figlia la Ninfa <hi rend="i">Io</hi> trasformata in
            vacca, e poi in Dea, sotto il nome di <hi rend="i">Iside</hi> ; e parimente d’Argo era
            re <hi rend="i">Danao</hi> padre delle <hi rend="i">Danaidi</hi>, di cui parlammo nel
            N. XXXI ; ed ora troviamo <hi rend="i">Perseo</hi> di regia stirpe Argiva. In appresso
            incontreremo Agamennone re d’Argo e Micene, generalissimo della Grecia congiurata ai
            danni di Troia ; e finalmente Oreste figlio di lui, col quale termina l’età eroica e
            comincia l’epoca storica<note place="bottom"><p>Ho dato questo cenno in conferma di
                quanto osservai nel precedente capitolo, che cioè bisogna cercar le origini storiche
                dei popoli antichi nella Mitologia. Infatti la <hi rend="i">Cronologia greca</hi>
                più comunemente seguita, ed anche adottata dallo stesso <hi rend="sc">Cantù</hi>
                (Ved. i Documenti alla sua <hi rend="i">Storia Universale</hi>), pone <hi rend="i"
                  >Inaco</hi> per primo re d’Argo, e come vissuto più di 1900 anni avanti l’<hi
                  rend="i">era volgare</hi> ; e perciò almeno tre secoli più antico di Mosè. <hi
                  rend="i">Perseo</hi> poi è considerato come contemporaneo dei primi <hi rend="i"
                  >Giudici</hi> d’Israello.</p><p>Collegata la Mitologia allo studio delle origini
                storiche, forma la necessaria introduzione al Corso della Storia Antica ; e quanto
                poi alla Letteratura classica ed alla Archeologia è fondamento
                  indispensabile ;</p><quote><l>« E non è impresa da pigliare a gabbo,</l><l>« Nè da
                  lingua che chiami mamma e babbo. »</l></quote></note>. — Ma torniamo alle
            favole.</p>
          <p><pb n="309" xml:id="p309"/><hi rend="i">Acrisio</hi> avea saputo dall’Oracolo che se
            nascesse un figlio da Danae ucciderebbe l’avo. Il solo modo di render bugiardo l’Oracolo
            era troppo crudele, cioè di uccider subito la figlia ; e Acrisio non fu così snaturato
            come furono in appresso Aristodemo ed Agamennone, i quali non esitarono ad uccider le
            loro figlie, non già per salvarsi la vita, ma per ambizione di regno. <hi rend="i"
              >Acrisio</hi> credè invece che bastasse rinchiuder la sua in una torre di bronzo per
            impedire che prendesse marito. Ma fu inutile questa precauzione, poichè Giove stesso
            trasformatosi in <hi rend="i">pioggia d’oro</hi> discese in quella torre e sposò Danae
            che fu poi madre di <hi rend="i">Perseo</hi>. S’intende facilmente che l’oro col quale
            furon comprate le guardie da un ricco principe aprì le porte della torre di bronzo, per
            la stessa ragione che fece dire a Filippo padre di Alessandro Magno non esservi fortezza
            inespugnabile alla quale potesse accostarsi un asinello con una soma d’oro<note
              place="bottom"><p>Vedasi la bellissima Ode 16ª del lib. <num>iii</num> di <hi
                  rend="sc">Orazio</hi> ; della quale qui cito soltanto quella parte che si
                riferisce a quanto ho detto di sopra nel testo :</p><quote><l>« Inclusam Danaën
                  turris aënea</l><l>« Robustaeque fores et vigilum canum</l><l>« Tristes excubiæ
                  munierant satis</l><l>« Nocturnis ab adulteris,</l><l>« Si non Acrisium virginis
                  abditæ</l><l>« Custodem pavidum Juppiter et Venus</l><l>« Risissent : fore enim
                  tutum iter et patens</l><l>« Converso in pretium Deo.</l><l>« Aurum per medios ire
                  satellites</l><l>« Et perrumpere amat saxa potentius</l><l>« Ictu fulmineo :
                  concidit auguris</l><l>« Argivi domus ob lucrum</l><l>« Demersa exitio, diffidit
                  urbium</l><l>« Portas vir Macedo et subruit æmulos</l><l>« Reges muneribus ;
                  munera navium</l><l>« Sævos illaqueant duces. »</l></quote><p>Di <hi rend="i"
                  >Danae</hi> e della <hi rend="i">pioggia d’ oro</hi> parlano ancora e <hi
                  rend="sc">Pindaro</hi> nella 12ª delle <hi rend="i">Odi Pitie</hi> e <hi rend="sc"
                  >Ovidio</hi> nelle <hi rend="i">Elegie</hi> e nelle <hi rend="i">Metamorfosi</hi>,
                e inoltre più e diversi poeti italiani. Vi si aggiungono altresì i prosatori antichi
                Apollodoro e Pausania, i quali però invece della torre di bronzo rammentano una
                camera sotterranea di bronzo come luogo della reclusione di Danae. Ma ai poeti parve
                più bella e più poetica la torre.</p></note>. Acrisio <pb n="310" xml:id="p310"
            />prese allora un’altra mezza misura : fece chiuder la madre e il figlio in una cassa di
            legno e gettarli nel mare ; ma e figlio e madre illesi, dopo varii pericoli che poco
            importa il descrivere, furon trasportati con tutta la cassa nell’isola di <hi rend="i"
              >Serifo</hi> (una delle Cicladi nel mare Egeo), e ospitalmente accolti dal re <hi
              rend="i">Polidette</hi>.</p>
          <p>Cresceva Perseo e si dimostrava degno figlio di Giove per valore e per senno, talchè
            Polidette cominciò a temere che potesse detronizzarlo : quindi per dargli occupazione e
            allontanarlo dalla sua reggia lo eccitò, coll’allettamento della gloria che ne
            acquisterebbe, ad una impresa stranissima e pericolosissima da eseguirsi nelle isole<hi
              rend="i">Gorgadi</hi>, situate nell’Oceano Atlantico presso il promontorio che tuttora
            dicesi <hi rend="i">Capo verde</hi> ; le quali perciò sembra che debbano corrispondere
            alle isole dette ora di <hi rend="i">Capo verde</hi>. Doveva <hi rend="i">Perseo</hi>
            tagliare a <hi rend="i">Medusa</hi> la testa cinta di orribili serpenti, che facea
            divenir di pietra chi la guardava. I poeti antichi dicono che <hi rend="i">Medusa</hi>
            aveva due sorelle chiamate <hi rend="i">Stenio</hi> ed <hi rend="i">Euriale</hi>, e che
            da prima eran tutte bellissime, e poi divennero mostruose in punizione della lor vanità,
            e furon chiamate le <hi rend="i">Gorgoni</hi> dalla voce <hi rend="i">gorgon</hi> che
            era il nome di un orribile mostro affricano. Le credevano figlie di <hi rend="i"
              >Forco</hi> divinità marina, e perciò le chiamavano ancora le <hi rend="i"
              >Fòrcidi</hi>. Più terribile era <hi rend="i">Medusa</hi> per la fatal proprietà di
            cangiar gli uomini in pietra. L’impresa di ucciderla sarebbe stata impossibile senza
            l’aiuto degli Dei ; i quali per favorire il figlio di Giove gl’imprestarono le loro armi
            divine, Marte <pb n="311" xml:id="p311"/>la spada o scimitarra, Nettuno l’elmo, Minerva
            lo scudo e Mercurio i talari e il petaso. Così Perseo volando e coperto di armi divine
            si accostò non visto a Medusa e le tagliò la testa, che dipoi portò sempre seco e se ne
            servì utilmente per far diventar di sasso chi più gli piacque, come vedremo.</p>
          <p>Intanto sarà bene notare che poeti e artisti antichi e moderni fecero a gara a
            descrivere, dipingere e scolpire la testa di Medusa. <hi rend="sc">Dante</hi> asserisce
            che a tempo suo la Gorgone era già all’Inferno da lunga pezza ; e ci racconta che egli
            ebbe una gran paura, quando nel far laggiù quel suo celebre viaggio, le tre Furie
            infernali vedendolo da lontano dall’alto di una torre :</p>
          <quote>
            <l>« Venga Medusa, sì ‘l farem di smalto,</l>
            <l>« Gridaron tutte riguardando in giuso ;</l>
            <l>« Mal non vengiammo in Teseo l’assalto. »</l>
          </quote>
          <p>E non era un timor panico il suo, perchè Virgilio stesso gli disse tosto :</p>
          <quote>
            <l>« Volgiti indietro, e tien lo viso chiuso,</l>
            <l>« Chè se ‘l <hi rend="i">Gorgon</hi> si mostra e tu ‘l vedessi,</l>
            <l>« Nulla sarebbe del tornar mai suso. »</l>
          </quote>
          <p>Quanto poi alle belle arti sappiamo che gli antichi rappresentavano la testa di Medusa
              nell’<hi rend="i">Egida</hi>, e talvolta nell’usbergo della Dea Minerva ; e Cicerone
            rimprovera a Verre, tra gli altri delitti e sacrilegii, di avere involato una bellissima
            testa <hi rend="i">anguicrinita</hi> di Medusa, distaccandola dalle porte del tempio di
            Minerva in Siracusa<note place="bottom"><p><quote>« <hi rend="i">Gorgonis os
                    pulcherrimum, cinctum anguibus</hi>, revellit atque abstulit : et tamen
                  indicavit se non solum artificio, sed etiam pretio quæstuque
                  duci. »</quote></p><bibl>(<hi rend="sc">Cic</hi>. <title>in C. Verrem</title>,
                  <num>iv</num>, 56.)</bibl></note>. Tra i lavori <pb n="312" xml:id="p312"/>moderni
            poi è da rammentarsi la testa di Medusa dipinta da Leonardo da Vinci, che si ammira
            nella Galleria degli Uffizi in Firenze, e la statua di <hi rend="i">Perseo</hi> colla
            testa di Medusa in mano, opera egregia in bronzo fuso, di Benvenuto Cellini, che è posta
            sotto le loggie dell’ Orgagna in Piazza della Signoria.</p>
          <p>Anche i Naturalisti si son ricordati di questo mostro mitologico nel dare il nome di
              <hi rend="i">Meduse</hi> a un gruppo di <hi rend="i">Zoofiti</hi> che formano la 1ª
            divisione degli <hi rend="i">Acalefi</hi>. Non v’è però da spaventarsi a veder queste
              <hi rend="i">Meduse</hi>, perchè son piccoli animali marini gelatinosi, e
            fosforescenti durante la notte, nè producono altro maligno effetto, non già a vederli,
            ma a toccarli, che quello stesso dell’ortica, e perciò si chiamano ancora volgarmente
              <hi rend="i">Ortiche di mare</hi>.</p>
          <p>Proseguendo ora il racconto mitologico delle gesta di Perseo, è da dirsi prima di tutto
            che dal sangue sgorgato dal teschio di Medusa nacquero molti orribili serpenti, e dal
            tronco o busto di essa uscì l’alato caval <hi rend="i">Pegaso</hi>, che servì poi sempre
            di cavalcatura a Perseo. Inoltre questo cavallo dando un calcio al terreno presso il
            monte Elicona nella Beozia, fece sgorgare una fonte che fu poi sacra alle Muse e fu
            chiamata <hi rend="i">Ippocrene</hi>, che vuol dir <hi rend="i">fonte del cavallo</hi>.
            La produzione dei serpenti dal sangue della testa <hi rend="i">anguicrinita</hi> di
            Medusa è meno difficile a spiegarsi che quella del caval <hi rend="i">Pegaso</hi> nato
            dal corpo di essa. E Pindaro, a cui forse piaceva poco questa strana invenzione di
            Esiodo, non l’adottò, e disse invece che il caval Pegaso fu mandato dagli Dei a Perseo
            mentre egli si disponeva ad uccider la Gorgone. Con questi due potentissimi aiuti, il
            Pegaso e il teschio di Medusa, divenne Perseo il più formidabile eroe dell’antichità,
            perchè egli solo più di qualunque esercito fornito di qualsivoglia arme più micidiale e
            diabolica valeva per velocità e potenza di mezzi di distruzione delle umane esistenze.
            Ma per non perdere il vanto del valor personale <pb n="313" xml:id="p313"/>e per non
            nuocere agl’innocenti, teneva nascosto in una borsa di pelle il teschio di Medusa, e se
            ne valeva soltanto nei casi di maggior bisogno ed estremi.</p>
          <p>Su questi dati mitologici i romanzieri del Medio Evo e i poeti romanzeschi
            fantasticarono l’<hi rend="i">ippogrifo</hi> e l’abbagliante e stupefaciente scudo del
            mago Atlante<note place="bottom"><p>Il viaggio aereo del mago Atlante sull’Ippogrifo, è
                così splendidamente narrato dall’<hi rend="sc">Ariosto</hi> :</p><quote><l>« Ecco
                  all’orecchie un gran romor lor viene.</l><l>« Disse la donna : o glorïosa
                  Madre,</l><l>« O re del Ciel, che cosa sarà questa ?</l><l>« E dove era il rumor
                  si trovò presta.</l><l>« E vede l’oste e tutta la famiglia,</l><l>« E chi a
                  finestre e chi fuor nella via,</l><l>« Tener levati al ciel gli occhi e le
                  ciglia,</l><l>« Come l’ecclisse o la cometa sia.</l><l>« Vede la donna un’altra
                  maraviglia</l><l>« Che di leggier creduta non saria ;</l><l>« Vede passare un gran
                  destriero alato</l><l>« Che porta in aria un cavaliero armato.</l><l>« Grandi eran
                  l’ale e di color diverso,</l><l>« E vi sedea nel mezzo un cavaliero,</l><l>« Di
                  ferro armato luminoso e terso,</l><l>« E ver ponente avea dritto il
                  sentiero.</l><l>« Calossi, e fu tra le montagne immerso :</l><l>« E come dicea
                  l’oste (e dicea il vero),</l><l>« Quell’era un negromante, e facea
                  spesso</l><l>« Quel varco, or più da lungi, or più da presso.</l><l>« Volando
                  talor s’alza nelle stelle</l><l>« E poi quasi talor la terra rade ;</l><l>« E ne
                  porta con lui tutte le belle</l><l>« Donne che trova per quelle
                  contrade :</l><l>« Talmente che le misere donzelle</l><l>« Ch’abbino o aver si
                  credano beltade,</l><l>« (Come affatto costui tutte le invole),</l><l>« Non escon
                  fuor sì che le veggia il Sole.</l><l>« Non è finto il destrier, ma
                  naturale,</l><l>« Ch’una giumenta generò d’un Grifo :</l><l>« Simile al padre avea
                  la piuma e l’ale,</l><l>« Li piedi anterïori, il capo e ’l grifo ;</l><l>« In
                  tutte l’altre membra parea quale</l><l>« Era la madre, e chiamasi <hi rend="i"
                    >Ippogrifo</hi>,</l><l>« Che nei monti Rifei vengon, ma rari,</l><l>« Molto di
                  là dagli agghiacciati mari. »</l></quote></note>.</p>
          <p><pb n="314" xml:id="p314"/>Tra le diverse imprese di Perseo occupa un posto
            importantissimo la liberazione di <hi rend="i">Andromeda</hi> dall’ Orca. Era Andromeda
            figlia di <hi rend="i">Cefeo</hi> re di Etiopia e della ninfa <hi rend="i"
              >Cassiopea</hi> ; e fu esposta ad esser divorata da un mostro marino, perchè o essa o
            sua madre erasi vantata di esser più bella delle Nereidi. Nel tempo che l’Orca
            avanzavasi per ingoiarla, passò per aria Perseo sul caval Pegaso, e accortosi del
            pericolo di Andromeda volò tosto in soccorso di lei ; ma non potendo pervenire ad
            uccidere il mostro colla spada, perchè era più duro d’uno scoglio, lo pietrificò col
            teschio di Medusa. I genitori che eran presenti diedero in premio al liberatore la
            figlia in isposa, e il regno per dote.</p>
          <p>Questa mirabile liberazione di Andromeda fu espressa da Benvenuto Cellini nel
            bassorilievo di bronzo fuso che vedesi nella base del <hi rend="i">Perseo</hi> ; ma
            l’eroe vi è rappresentato volante col petaso e i <hi rend="i">talari</hi> di Mercurio e
            non sul caval Pegaso ; con la scimitarra nella destra, e senza la testa di Medusa
            nell’altra mano. Nel giardino di <hi rend="i">Boboli</hi> vedesi nella gran vasca detta
              dell’<hi rend="i">isolotto</hi> la statua di Perseo sul caval Pegaso e di Andromeda
            legata allo scoglio ; ma l’Orca è di così piccole dimensioni da render risibile la paura
            di Arianna di poter essere divorata da quel piccolo mostro poco più grosso di un
            granchio. Si crede opera degli scolari di Giovan Bologna, del quale è di certo la statua
            colossale del Grande Oceano, che ivi si ammira.</p>
          <p>Le feste per le nozze di Perseo con Andromeda furono disturbate negli ultimi giorni da
            una improvvisa invasione delle truppe del re <hi rend="i">Fineo</hi>, a cui Andromeda
            era stata <pb n="315" xml:id="p315"/>promessa in isposa, ma che però non si era mosso
            per liberarla dal mostro marino, e quindi avea perduto qualunque titolo ad ottenerla.
            Perseo, dopo aver fatto prodigi di valore colla spada, vedendo che si perdeva troppo
            tempo ad uccidere i nemici uno alla volta, perchè pochi compagni aveva per aiutarlo,
            mise fuori la testa di Medusa e pietrificò nell’istante quanti la guardavano ; ed anche
            Fineo ebbe la stessa sorte.</p>
          <p>Dipoi volle Perseo tornar colla sposa a riveder sua madre Danae ; e nel passare dalla
            Mauritania gli fu negata l’ospitalità dal re <hi rend="i">Atlante</hi> ; il quale avea
            saputo dall’Oracolo, che per quanto egli fosse di statura e di forza gigantesca, dovea
            tutto temere da un figlio di Giove. Ma la sua stessa precauzione fu causa del suo male,
            poichè Perseo, irritato di tale scortesia, lo raggiunse volando sul caval Pegaso mentre
            Atlante andava alla caccia, e mostrandogli la testa di Medusa lo trasformò in quel monte
            della Mauritania che tuttora chiamasi <hi rend="i">Atlante</hi>, del quale gli antichi
            favoleggiavano che sostenesse il Cielo, e il cui nome hanno dato i moderni, con evidente
            allusione mitologica, alla collezione delle carte geografiche e uranografiche.</p>
          <p>Giunse Perseo senz’altri incidenti all’isola di <hi rend="i">Serifo</hi>, e trovò che
            Polidette voleva costringer Danae a sposarlo ; ed egli per toglier d’impaccio la madre,
            lo cangiò in una statua. All’avo <hi rend="i">Acrisio</hi>, che ancor viveva, perdonò,
            ed anzi lo rimise nel regno, uccidendo l’usurpatore <hi rend="i">Preto</hi>. Ma poichè
            finalmente doveva avverarsi la predizione dell’Oracolo, inventarono i Mitologi che il
            nipote, per caso, nel fare esercizi guerreschi uccidesse l’avo.</p>
          <p>Compiute Perseo le sue imprese fe’ dono della testa di Medusa a Minerva. Il caval
            Pegaso gli sopravvisse e passò in potere di un altro eroe, come vedremo. Si attribuisce
            a Perseo la fondazione del regno di Micene ; e si narra che ivi Perseo fu ucciso a
            tradimento da <hi rend="i">Megapente</hi>, figlio di Preto, per vendicare la morte di
            suo padre.</p>
          <p><pb n="316" xml:id="p316"/>La storia di Perseo fu registrata dagli Antichi a caratteri
            di stelle nel Cielo, poichè asserirono trasformati in costellazioni, oltre <hi rend="i"
              >Perseo</hi>, la sua moglie <hi rend="i">Andromeda</hi>, i suoi suoceri <hi rend="i"
              >Cefeo</hi> e <hi rend="i">Cassiopea</hi>, e finalmente qualche tempo dopo il caval
              <hi rend="i">Pegaso</hi>. Questi nomi dati dagli Antichi a cinque delle costellazioni
            boreali si conservano tuttora dai moderni Astronomi, i quali ci dicono pur anco di
            quante stelle è formata ciascuna di queste costellazioni, cioè <hi rend="i">Perseo</hi>
            di 65<note place="bottom">Una di queste stelle di color cangiante è chiamata la <hi
                rend="i">Testa di Medusa</hi>.</note> ; <hi rend="i">Andromeda</hi> di 27 ; <hi
              rend="i">Cefeo</hi> di 58 ; <hi rend="i">Cassiopea</hi> di 60, e il <hi rend="i"
              >Pegaso</hi> di 91. Aggiungono inoltre che una gran quantità di <hi rend="i">stelle
              cadenti</hi>, di cui hanno luogo fiammeggianti pioggie ordinarie circa la metà dell’
            agosto e del novembre tutti gli anni, si osserva partirsi di verso la costellazione di
              <hi rend="i">Perseo</hi> ; e perciò quelle tali stelle cadenti son distinte col nome
            di <hi rend="i">Perseidi</hi>.</p>
        </div2>
        <div2 type="chapter">
          <head type="sur">XLII</head>
          <head type="main">Bellerofonte</head>
          <p>Quest’Eroe fu pronipote di Eolo, nipote di Sisifo e figlio di Glauco, della dinastia
            dei re di <hi rend="i">Efira</hi>, cioè di <hi rend="i">Corinto</hi>. Il suo vero nome
            primitivo era <hi rend="i">Ipponoo</hi> ; ed è soltanto un soprannome quello di <hi
              rend="i">Bellerofonte</hi>, che gli fu dato dopo che egli per caso uccise <hi rend="i"
              >Beller</hi> suo fratello ; di che rimase poi sempre dolente e mesto<note
              place="bottom">Quindi è che i Latini chiamavano con perifrasi mitologica <hi rend="i"
                >Bellorophonteus morbus</hi> l’ipocondria, che altrimenti direbbesi <hi rend="i"
                >ægritudo</hi>.</note>. Dicono i Mitologi che egli pure fosse re di Corinto ; ma il
            suo nome non trovasi nella <hi rend="i">greca cronologia</hi> di questi re ; e forse
            perciò aggiungono che fu subito dopo detronizzato da <hi rend="i">Preto</hi> e costretto
            a restar come <pb n="317" xml:id="p317"/>ostaggio alla corte di lui. Quivi fu calunniato
            malignamente dalla regina <hi rend="i">Stenobea</hi> ; e Preto per le accuse della
            perfida moglie (volendo per altro schivare l’odiosità di farlo morire egli stesso senza
            apparente motivo), lo mandò da suo suocero <hi rend="i">Iobate</hi> re di <hi rend="i"
              >Licia</hi>, con una lettera chiusa, che consegnò a Bellerofonte stesso, dicendogli
            che era una commendatizia, mentre invece conteneva la commissione di far morire il
            latore di quella. D’allora in poi <hi rend="i">lettere di Bellerofonte</hi> furono dette
            per antonomasia dai Pagani simili lettere proditorie<note place="bottom">Troviamo anche
              nella Bibbia un fatto simile, dove si parla delle lettere che il re David consegnò ad
              Uria marito di Betsabea pel suo generale Gioabbo ; nelle quali la supposta promozione
              di questo bravo ufficiale consisteva nel doverlo esporre sulle prime file contro i
              nemici, perchè vi perisse, come avvenne di fatto. Perciò in stile biblico <hi rend="i"
                >lettere di Uria</hi> sono precisamente equivalenti a <hi rend="i">lettere di
                Bellerofonte</hi> in linguaggio mitologico.</note>. Quindi in appresso invalse l’uso
            di consegnare aperte le lettere commendatizie.</p>
          <p>Iobate non volle macchiarsi le mani nel sangue di un ospite, e impegnò Bellerofonte in
            imprese pericolosissime, immaginando che vi sarebbe perito, se egli era reo, oppure
            darebbe una prova della sua innocenza se riuscisse vittorioso<note place="bottom">Su
              queste stesse idee di <hi rend="i">Iobate</hi> eran fondati nei secoli barbari del
              Medio Evo i così detti <hi rend="i">Giudizi di Dio</hi>, pretendendosi che la Divinità
              dovesse sempre intervenire a dar la vittoria all’innocente e a far perdere il reo.
              Quest’ uso barbaro ed empio si estese anche ad altre prove, come a quella del <hi
                rend="i">fuoco</hi>, la cui sola proposta fanaticamente fattane dagli avversari del
              Savonarola ed imprudentemente accettata dai suoi fautori, riuscì funesta al Savonarola
              stesso. Il duello che usa tuttora è un avanzo dei secoli barbari, e fa una gran tara
              alla tanto vantata civiltà moderna.</note>. La più celebre e memorabile di queste
            imprese fu quella della <hi rend="i">Chimera</hi>, mostro che avea la testa di leone, il
            corpo di capra e la coda di serpente, ed inoltre gettava fiamme dalla bocca e dalle
            narici. Gli Dei protettori <pb n="318" xml:id="p318"/>dell’innocenza perseguitata
            favorirono quell’Eroe, sottoponendo ai suoi servigi il caval <hi rend="i">Pegaso</hi>
            posseduto prima da <hi rend="i">Perseo</hi> ; e con tale efficacissimo aiuto egli potè
            velocemente schermirsi da qualunque pericolo e vincere ed uccidere la Chimera. Allora sì
            parve a Iobate manifesta l’innocenza di Bellerofonte, e cangiato il sospetto in
            ammirazione e benevolenza, gli diede in isposa l’altra sua figlia, che era sorella di
            Stenobea. Questa, quando lo seppe, agitata dall’invidia, dalla vergogna e dai rimorsi,
            perdè la ragione e si diede la morte.</p>
          <p><hi rend="i">Bellerofonte</hi>, dopo tante ardue prove della sorte avversa, giunto
            finalmente a superarle tutte e ad uno stato felicissimo, fu men forte a tollerare la
            prosperità che prima l’avversità. Credendo che nulla gli fosse impossibile, montato sul
            caval Pegaso, lo spinse verso il Cielo, presumendo che gli Dei dovessero accoglierlo nel
            loro consesso ed alla loro mensa. Ma Giove, per punirlo della sua folle superbia, mandò
            un tafano a molestare il caval Pegaso, che scosse dalla sua groppa il cavaliere e lo
            precipitò dall’alto sulla terra ; e così miseramente finì Bellerofonte i suoi giorni. Il
              <hi rend="i">Pegaso</hi> continuò il volo sino al Firmamento, ove fu cangiato nella
            costellazione che porta il suo nome, come dicemmo.</p>
          <p>La spiegazione più plausibile che suol darsi della <hi rend="i">Chimera</hi> è questa :
            che invece di essere un mostro fosse un monte ignivomo della Licia, nella parte più alta
            del quale soggiornassero i leoni, a mezza costa le capre selvagge e alle falde i
            serpenti. E per quanto a taluni non soddisfi pienamente questa spiegazione, nessuno ha
            saputo sinora trovarne una migliore.</p>
          <p>I Naturalisti hanno dato il nome di <hi rend="i">Chimera</hi> a un genere di pesci,
            notabili per la forma mostruosa della loro testa, e che son classati come appartenenti
            alla famiglia degli <hi rend="i">Storioni</hi>. La <hi rend="i">Chimera artica</hi> vive
            in mezzo all’ oceano boreale, e si nutrisce principalmente di granchi e di molluschi. È
              <pb n="319" xml:id="p319"/>lunga circa un metro e di color giallastro con macchie
            nere. Le fu dato ancora volgarmente dai pescatori settentrionali il nome di <hi rend="i"
              >Regalec</hi>, ossia di <hi rend="i">re delle Aringhe</hi>, perchè la trovano sempre
            in mezzo alle innumerevoli legioni delle aringhe.</p>
          <p>Pochi altri termini mitologici son tanto famigerati e comuni nelle lingue moderne, e
            specialmente nella italiana, quanto quello di <hi rend="i">Chimera</hi>, nel significato
            però di cosa insussistente, inverisimile, impossibile ; e così dicasi dell’aggettivo <hi
              rend="i">chimerico</hi> che ne deriva<note place="bottom"><p>Anche i poeti latini,
                quando volevano significare che una cosa era impossibile o incredibile, o almeno che
                essi la stimavano tale, dicevano : <quote>« Crederò prima che esista la
                  Chimera. »</quote> Cosi, per esempio, <hi rend="sc">Ovidio</hi> nelle <hi rend="i"
                  >Elegie</hi> :</p><quote><l>« ….. Credam prius esse <hi rend="i"
                  >Chimœram</hi>,</l><l>« A truce quæ flammis separat angue
              leam. »</l></quote></note>. Anzi sulla base o radicale di questa parola si son formati
            in italiano vocaboli di cui non esistono gli equivalenti neppure in latino, cioè il
            verbo <hi rend="i">chimerizzare</hi> e i nomi <hi rend="i">chimerizzatore</hi> e <hi
              rend="i">chimerizzatrice</hi>, i quali sebbene sieno poco usati parlando, pur si
            trovano registrati nei nostri Vocabolari. Questo stesso significato che suol darsi
            comunemente alla parola <hi rend="i">chimera</hi> dimostra che di tutte le cose favolose
            ond’ è piena la Mitologia, questa è stimata la più favolosa di tutte, appunto per lo
            stranissimo accozzo animalesco ond’ è composto questo mostro<note place="bottom"><p>Non
                ci vuol molto a immaginare i più strani mostri formati di membra diverse di ogni
                genere di animali ; ma ne deriva, invece dell’ ammirazione e del diletto, il
                disgusto e il ridicolo, come dice <hi rend="sc">Orazio</hi> al principio dell’<hi
                  rend="i">Arte Poetica</hi> :</p><quote><l>« Humano capiti cervicem pictor
                  equinam</l><l>« Jungere si velit, et varias inducere plumas</l><l>« Undique
                  collatis membris, ut turpiter atrum</l><l>« Desinat in piscem mulier formosa
                  superne,</l><l>« Spectatum admissi risum teneatis, amici ? »</l></quote></note>.
            Quindi è che anco nelle Belle Arti è raro il trovar dipinta o sculta la figura della
            Chimera. Ne esiste una di bronzo fuso nella <pb n="320" xml:id="p320"/>Galleria degli
            Uffizi ; ma è dichiarata opera etrusca e dall’avere incisi sulla zampa destra etruschi
            caratteri, e perchè fu trovata presso Arezzo. Potrà bene aver pregio per gli Antiquarii
            e per la Storia dell’ Arte, ma non reca di certo una gradita sensazione all’occhio dei
            profani, qual fu immaginata ed eseguita dagli antichi Etruschi.</p>
        </div2>
        <div2 type="chapter">
          <head type="sur">XLIII</head>
          <head type="main">Cadmo</head>
          <p>Non appartiene <hi rend="i">Cadmo</hi> al novero dei <hi rend="i">Semidei</hi>, e
            neppur divenne un <hi rend="i">Indigete</hi> Dio ; ma è considerato un <hi rend="i"
              >Eroe</hi> e per l’epoca in cui visse e per quanto oprò. Il racconto della sua vita è
            un misto di favole e di fatti storici. Perciò diremo da prima quanto ne riferisce la
            Mitologia, e aggiungeremo in ultimo alcune osservazioni riferibili alla Storia.</p>
          <p><hi rend="i">Cadmo</hi> era figlio di <hi rend="i">Agenore</hi> re di Fenicia e
            fratello di <hi rend="i">Europa</hi>. Fu questa una bellissima giovinetta, che Giove
            rapì trasformatosi in un bianchissimo e placidissimo toro. Europa vedendolo così
            mansueto vi era salita in groppa per giovanile trastullo ; ma il toro giunto sulla riva
            del mare, si gettò in mezzo alle onde, e nuotando trasportò all’isola di Creta la
            giovinetta, ed ivi, riprese le forme divine, la fece sua sposa, e n’ebbe due figli <hi
              rend="i">Minos</hi> e <hi rend="i">Radamanto</hi><note place="bottom"><p><hi rend="sc"
                  >Dante</hi> rammenta questa favola del ratto di Europa nel Canto <num>xxvii</num>
                del <hi rend="i">Paradiso</hi>, dicendo :</p><quote><l>« Si ch’ io vedea di là da
                  Gade il varco</l><l>« Folle di Ulisse, e di qua presso il lito</l><l>« Nel qual
                    <hi rend="i">si fece Europa dolce carco</hi>. »</l></quote></note>. Il padre di
            lei non sapendo che ne fosse avvenuto, mandò il figlio <hi rend="i">Cadmo</hi> a
            cercarla, con ordine di non tornare a casa finchè non avesse trovato la sorella. Cadmo,
            dopo averla cercata invano per <pb n="321" xml:id="p321"/>un anno, trovandosi vicino a
            Delfo, consultò quel celebre Oracolo per sapere se fosse possibile trovarla, e dove ; ma
            l’Oracolo non rispose alla sua domanda, e invece gli disse di fabbricare una città ove
            incontrasse una giovenca smarrita dalla mandra. Dove ei la incontrò, ivi la uccise,
            offrendola in sacrifizio ai Numi per implorarli favorevoli alla nuova città che dovea
            fabbricare. Per gli usi del sacrifizio avea mandato alcuni dei suoi compagni a prender
            dell’acqua alla fonte che trovassero più vicina, e poi gli altri a sollecitare quei
            primi ; ma non vedendo tornare nè questi nè quelli, vi andò egli stesso, e vide un
            orribile drago, custode di quella fonte, che finiva di divorarsi l’ ultimo di essi.
            Allora per vendicare la morte dei compagni rischiò la propria vita combattendo con quel
            drago che era sacro a Marte, e con sforzi prodigiosi lo uccise. Intanto una voce uscita
            dalla caverna donde sgorgava la sorgente, gli presagì il castigo dell’empio suo fatto ;
            ma apparsagli Minerva lo confortò, e gli suggerì di prendere i denti di quel serpente da
            lui ucciso e seminarne alquanti nel terreno. Da quella strana sementa vide Cadmo con sua
            gran maraviglia uscir poco dopo una quantità di uomini armati che si misero subito a
            combattere fra loro, finchè i più rimasero estinti, e i soli cinque sopravvissuti lo
            aiutarono a fabbricare la città. Questa fu da prima chiamata <hi rend="i">Cadmea</hi>
            dal nome di <hi rend="i">Cadmo</hi>, e poi <hi rend="i">Tebe</hi>, conservandosi però
            sempre il nome di <hi rend="i">Cadmea</hi> alla fortezza che fu primamente il nucleo
            della città. Il territorio poi fu detto <hi rend="i">Beozia</hi> dal greco nome
            dell’animale ivi trovato e sacrificato da Cadmo.</p>
          <p>Fondata la città, prese Cadmo per moglie <hi rend="i">Ermione</hi>, o, secondo altri
            Mitologi, <hi rend="i">Armonia</hi>, figlia di Venere e di Marte, e dalla medesima ebbe
            quattro figlie : <hi rend="i">Autonoe, Ino, Semele</hi> ed <hi rend="i">Agave</hi>, e
            inoltre un figlio chiamato <hi rend="i">Polidoro</hi>. Abbiamo già detto altrove che Ino
            fu cangiata nella Dea marina Leucotoe, e che Semele fu madre di Bacco. Ma per quanto <pb
              n="322" xml:id="p322"/>avesse Cadmo strettissima parentela coi principali Dei, poichè
            Giove era suo genero, Venere e Marte suoi suoceri e Bacco suo nipote, oltre il proprio
            merito di fondatore di una illustre città, non ostante non fu felice, e neppure i suoi
            discendenti. Di lui ci dicono i Mitologi che si ritirò insieme colla moglie in una
            solitudine, e che ivi furono ambedue cangiati in serpenti, e posti da Plutone a guardia
            degli Elisii. La qual metamorfosi sta a significare che egli si ritirò insieme colla
            moglie dalla vita pubblica e finì oscuramente i suoi giorni. Dei suoi posteri, non i
            Mitologi e i poeti soltanto, ma anche gli storici narrano molte triste vicende ; di
            alcune delle quali avremo occasione di parlare a lungo in appresso.</p>
          <p>In quanto poi ai guerrieri nati dai denti del serpente ucciso da Cadmo, gli Antichi ci
            hanno trasmesso anche il nome di quei cinque che sopravvissero ed aiutarono Cadmo a
            fabbricare e popolare la città di Tebe ; e i loro nomi son questi : <hi rend="i"
              >Echione, Udeo, Ctonio, Peloro</hi> e <hi rend="i">Iperènore</hi>. Anzi i nobili
            Tebani dei secoli successivi credevano tanto (o fingevano di credere) in così strana
            favola, che derivavano la loro <hi rend="i">nobiltà di sangue</hi> dall’esser
            discendenti, com’essi vantavansi, di questi prodi guerrieri sì miracolosamente nati ; la
            quale illustre prosapia era detta degli <hi rend="i">Sparti</hi>, che significava <hi
              rend="i">seminati</hi>, alludendosi appunto alla sementa dei denti del serpente ucciso
            da Cadmo<note place="bottom"><p>Anche gli altri nobili greci pretendevano di esser
                discesi da qualche eroe mitologico, e la maggior parte da Perseo. Una origine
                miracolosa e divina si attribuivano pur anco le diverse <hi rend="i">caste</hi>
                degli Indiani. Ma poichè in oggi non si ammettono più le origini mitologiche e
                miracolose, quindi il <hi rend="sc">Giusti</hi>, molto satiricamente, defini la <hi
                  rend="i">Nobiltà</hi> :</p><quote><l>« Gente che incoccia
                  maledettamente</l><l>« D’esser di carne come tutti siamo,</l><l>« E vorrebbe per
                  padre un altro Adamo. »</l></quote><signed>(La Vestizione.)</signed></note>.</p>
          <p><pb n="323" xml:id="p323"/>Anche la trasformazione di Cadmo in serpente era tanto
            famigerata presso gli antichi Pagani che talvolta fu rappresentata perfino sulla scena :
            il che non dovrà recar maraviglia, ripensando che anche ai tempi nostri si è veduto
            rappresentare in qualche spettacolo Nabuccodonosor trasmutato in bestia <hi rend="i"
              >coram populo</hi>. Ma Orazio nella poetica avverte che non si debbono dare tali
            spettacoli, che riescono sconvenevoli nel teatro, perchè, sottoposti all’occhio fedele,
            divengono risibili<note place="bottom"><quote><l> « Nec pueros coram populo Medea
                  trucidet,</l><l>« Aut humana palam coquat exta nefarius Atreus,</l><l>« Aut in
                  avem Progne vertatur, <hi rend="i">Cadmus in anguem</hi>. »</l></quote><bibl>(<hi
                  rend="sc">Hor</hi>., <title>De Art. Poet.</title>, v. 185.)</bibl></note> ;
            mentre, come osserva il Tasso, convenevolmente son narrati dai poeti antichi e moderni,
            e son letti volentieri e con maraviglia nell’<hi rend="i">epopea</hi>. La trasformazione
            di Cadmo in serpente fu narrata così egregiamente da Ovidio, che sembrò mirabile, nonchè
            al Tasso, anche a Dante. Anzi <hi rend="sc">Dante</hi>, convinto che tali trasformazioni
            poeticamente ed ingegnosamente narrate fanno grandissimo effetto sulla immaginazione dei
            lettori, volle gareggiare anche in questo cogli antichi poeti, come fece nel Canto
              <num>xxv</num> dell’ <hi rend="i">Inferno</hi>, detto appunto <hi rend="i">delle
              trasformazioni</hi> ; e fu tanto contento e sicuro egli stesso dell’opra sua, che non
            potè nasconderlo ai suoi lettori, ed asserì di aver superato Lucano ed anche Ovidio, il
            famoso autore delle <hi rend="i">Metamorfosi</hi> :</p>
          <quote>
            <l>« Taccia Lucano omai, là dove tocca</l>
            <l>« Del misero Sabello e di Nassidio,</l>
            <l>« Ed attenda ad udir quel ch’or si scocca.</l>
            <l>« Taccia di <hi rend="i">Cadmo</hi> e d’<hi rend="i">Aretusa</hi> Ovidio,</l>
            <l>« Che se quello <hi rend="i">in serpente</hi> e questa <hi rend="i">in fonte</hi></l>
            <l>« Converte poetando, io non l’invidio ;</l>
            <l>« Chè due nature mai a fronte a fronte</l>
            <l>« Non trasmutò, sì ch’ambedue le forme</l>
            <l>« A cambiar lor nature fosser pronte. »</l>
          </quote>
          <p><pb n="324" xml:id="p324"/>Considerando poi storicamente Cadmo, ne troviamo determinata
            l’epoca nella <hi rend="i">Cronologia Greca</hi> verso il 1580 avanti l’èra cristiana. E
            quanto alla sua sorella <hi rend="i">Europa</hi>, della quale dicono i Mitologi che ebbe
            da Giove il privilegio di dare il nome alla terza parte dell’antico continente che noi
            abitiamo, gli storici non sanno dire nulla di più nè di diverso. Che il nome di <hi
              rend="i">Cadmea</hi> fosse dato alla fortezza di Tebe e conservato pur anco a tempo
            della conquista dei Romani è notizia storica confermata anche da Cornelio Nipote nelle
            sue <hi rend="i">Vite degli eccellenti capitani greci</hi>. Quanto poi al nome di <hi
              rend="i">Tebe</hi>, non si contrasta che Cadmo avesse in mira di fare una città simile
            alla famosa Tebe di Egitto, e che perciò le desse lo stesso nome ; ma se ne adducono due
            motivi diversi : il primo che la stirpe fenicia di Cadmo derivasse dall’ Egitto, come
            asseriscono molti ; il secondo che Cadmo stesso non fosse Fenicio, ma Egiziano, come
            afferma Pausania.</p>
          <p>A questa questione si collega l’altra sull’ origine dell’ <hi rend="i">Alfabeto</hi> in
            Europa, del quale si attribuisce a Cadmo che portasse in Grecia le prime sedici
              lettere<note place="bottom"><p>Nel 1821 fu pubblicato dal <hi rend="sc">Bagnoli</hi>
                il suo poema epico in venti Canti, intitolato : <hi rend="i">Il Cadmo</hi>, nel
                quale l’autore (come è detto anche nella sua prefazione) considera quest’ Eroe
                Fenicio non solo come guerriero, ma altresì come <quote>« il primo che introdusse
                  l’alfabeto in Europa, le pratiche religiose e molte di quelle arti che procurarono
                  l’universale coltura. »</quote> Ma il poema non ebbe credito, perchè vi predomina
                la fiacchezza d’ idee e di stile. Al Bagnoli mancava quel che <hi rend="sc"
                  >Orazio</hi> richiede principalmente in un poeta :</p><quote><l>« …..Neque enim
                  concludere versum</l><l>« Dixeris esse satis ; neque, si quis scribat, uti
                  nos</l><l>« Sermoni propriora, putes hunc esse poetam.</l><l>« <hi rend="i"
                    >Ingenium</hi> cui sit, cui <hi rend="i">mens divinior</hi> atque <hi rend="i"
                    >os</hi></l><l>« <hi rend="i">Magna sonaturum</hi>, des nominis hujus
                  honorem. »</l></quote><bibl>(<title>Sat.</title> <num>i</num>, 4ª,
              v. 39.)</bibl></note>. Sino al presente secolo non se ne dubitava, ed oltre al dirsi
            precisamente quali erano le sedici lettere importate da Cadmo, si notavano <pb n="325"
              xml:id="p325"/>ancora le quattro inventate da Palamede al tempo dell’assedio di Troia,
            e le altre quattro aggiuntevi da Simonide cinque secoli dopo ; che in tutte vengono a
            formar l’alfabeto greco di ventiquattro lettere<note place="bottom"><p>È noto che la
                parola <hi rend="i">alfabeto</hi> è composta dal nome delle due prime lettere (<hi
                  rend="i">alfa</hi> e <hi rend="i">beta</hi> dell’alfabeto greco ; e che in
                italiano trovasi anche chiamato l’<hi rend="i">abbiccì</hi> dal nome delle prime tre
                lettere del nostro alfabeto. Ma che diremo di quegli eruditi che volevano abolir
                questi nomi per sostituirvi quello di <hi rend="i">grammaticario</hi> ? Diremo per
                lo meno che qui è davvero applicabile la massima attribuita da Fedro a
                  Giove :</p><quote><l>« Nisi utile est quod facimus, <hi rend="i">stulta</hi> est
                    <hi rend="i">gloria</hi>. »</l></quote><p>Non è per verità molto utile neppure
                il conoscere quali furono le lettere inventate da Palamede, e quelle aggiunte da
                Simonide, mentre le altre furono attribuite a Cadmo ; tutt’ al più può essere una
                curiosità letteraria il sapere questa opinione degli Antichi : ma fu una vera
                pedanteria e ridicolezza il pretendere di distruggere il vocabolo <hi rend="i"
                  >alfabeto</hi> adottato nella lingua latina e in tutte le più colte lingue
                moderne, con tutti i suoi derivati e composti (<hi rend="i">alfabetico, alfabetare,
                  analfabeta</hi> ecc.) per sostituirvene un altro di nuova formazione o
                etimologia.</p></note>. Modernamente però mentre Brettmann e Creuzer hanno ammessa
              l’<hi rend="i">influenza</hi> Fenicia in Europa, C. O. Muller l’ha rigettata,
            considerando Cadmo come una Divinità pelasgica. Ed ecco come dalla Mitologia si passa
            nel campo della critica storica ; nei quali confini deve arrestarsi il Mitologo. È però
            fuori di controversia che la civiltà non meno che la popolazione sia venuta dall’Asia in
            Europa, o vogliam dire dall’Oriente in Occidente.</p>
        </div2>
        <div2 type="chapter">
          <head type="sur">XLIV</head>
          <head type="main">La caccia del cinghiale di Calidonia</head>
          <p>È questa la prima impresa dei tempi eroici in cui si trovino riuniti molti celebri
            eroi, e che serve perciò, in mancanza di altri dati cronologici, a stabilire almeno che
            quegli <pb n="326" xml:id="p326"/>eroi erano contemporanei. Sebbene i Mitologi la
            considerino un’impresa secondaria (ed è tale se riguardisi soltanto lo scopo di uccidere
            una belva feroce), e perciò ne parlino soltanto incidentalmente, è per altro di somma
            importanza per la cronologia degli Eroi, dimostrando essa che furon <hi rend="i"
              >contemporanei</hi> coloro che vi presero parte.</p>
          <p><hi rend="i">Calidone</hi> o <hi rend="i">Calidonia</hi> era la capitale dell’<hi
              rend="i">Etolia</hi> a tempo del re <hi rend="i">Oeneo</hi>, circa un secolo prima
            della guerra di Troia. Questo re nel fare un sacrifizio agli Dei in ringraziamento per
            le buone raccolte ottenute, erasi dimenticato di Diana ; ed essa lo punì mandando un
            mostruoso cinghiale a devastare lo stato di lui. Non molto lungi dalla città v’era la
            folta selva Calidonia, da cui usciva il cinghiale per devastare ed uccidere, ed ivi
            tornava ad imboscarsi ; ed era impresa pericolosissima l’andare ad assaltarlo là dentro.
            Perciò il re invitò tutti i più coraggiosi e prodi giovani della Grecia a prender parte
            a questa caccia, e ne fe’capo il suo figlio <hi rend="i">Meleagro</hi>. Accorsero
            all’invito i più distinti eroi che vivessero in quel tempo : alcuni dei quali divennero
            anche più celebri in appresso per altre più importanti e mirabili imprese, come <hi
              rend="i">Giasone</hi> che fu poi duce degli Argonauti, <hi rend="i">Teseo</hi>
            vincitore del Minotauro, <hi rend="i">Piritoo</hi> suo fidissimo amico, <hi rend="i"
              >Castore</hi> e <hi rend="i">Polluce</hi> gemelli affettuosissimi, che poi divennero
            la costellazione dei <hi rend="i">Gemini</hi>, l’indovino <hi rend="i">Anfiarao</hi> che
            fu uno dei sette prodi alla guerra di Tebe, <hi rend="i">Nestore</hi> ancora nella sua
            prima gioventù, <hi rend="i">Peleo</hi> che fu poi padre di Achille, <hi rend="i"
              >Telamone</hi> padre di Aiace e <hi rend="i">Laerte</hi> di Ulisse ; dei quali tutti
            dovremo parlare anche in appresso. Degli altri eroi intervenuti a questa caccia, dei
            quali non si conoscono fatti più celebri di questo, ne diremo qui brevemente quanto è
            necessario a sapersi.</p>
          <p>I più notabili erano : <hi rend="i">Meleagro</hi> figlio del re Oeneo e duce di quella
            eletta schiera, i suoi zii <hi rend="i">Plessippo</hi> e <hi rend="i">Tosseo</hi>,
            fratelli di <hi rend="i">Altea</hi> sua madre, e la sua fidanzata <hi rend="i"
              >Atalanta</hi>
            <pb n="327" xml:id="p327"/>valentissima cacciatrice. Infatti fu dessa la prima a ferire,
            benchè leggermente, il cinghiale, dopo che questa fiera aveva già fatto strage di tre o
            quattro cacciatori e di molti cani. I cacciatori che vi rimasero uccisi dalla fiera non
            hanno altra celebrità che quella acquistata con questa trista fine ; ma, come dice un
            moderno poeta :</p>
          <quote>
            <l>« Trar l’immortalità dalla sua morte</l>
            <l>« È una sorte meschina, o non è sorte. »</l>
          </quote>
          <p>Dopo altre vicende che poco importa narrare, finalmente ebbe Meleagro la gloria di
            atterrare quell’immane belva ; e il diritto che egli avea di prender per sè il teschio e
            la pelle del cinghiale lo cedè ad Atalanta. Ciò dispiacque ai suoi zii, mal tollerando
            che una donna con tal distintivo di onore potesse vantarsi di essere stata più valente
            degli uomini ; e volevano toglierle quell’insigne trofeo<note place="bottom">I posteri
              conservarono per molti secoli come una preziosa reliquia il teschio e la pelle del
              cinghiale di Calidonia.</note>. Di che Meleagro irritato, e dalle parole venendo ai
            fatti, li uccise ambedue. Fin qui il racconto potrebbe parer vera storia, toltane
            l’esagerazione della prodigiosa forza e ferocia del mostruoso cinghiale. Ma la scena
            termina con una favola di nuovo genere, invenzione che <hi rend="sc">Dante</hi> stesso
            rammenta nella <hi rend="i">Divina Commedia</hi>. La favola si riferisce al destino
            della vita di Meleagro.</p>
          <p>Raccontano i Mitologi ed i poeti, e più estesamente di tutti <hi rend="sc">Ovidio</hi>
            nelle <hi rend="i">Metamorfosi</hi>, che quando nacque Meleagro, le Parche comparvero
            nella stanza ove Altea partorì, e, gettato nel fuoco un ramo d’albero, dissero :
              <quote>« tanto vivrai, o neonato, quanto durerà questo legno ; »</quote> e subito dopo
              disparvero<note place="bottom"><quote><l> « Tempora, dixerunt, eadem lignoque
                  tibique,</l><l>« O modo nate, damus. »</l></quote><bibl>(<title>Metam.</title>,
                  <num>viii</num>, v. 454.)</bibl></note>. La madre, che non si sa per qual
            privilegio o <pb n="328" xml:id="p328"/>grazia speciale potè vederle e udirle, corse a
            levar dal fuoco quel tizzo che già ardeva dall’ un de’ capi, lo spense e lo chiuse fra
            le cose più care e più preziose. Ma quando seppe che Meleagro aveva ucciso gli zii,
            all’amor materno cominciò a prevalere la pietà dei fratelli uccisi e l’orrore per la
            scelleraggine del figlio ; e dopo molti e strazianti contrasti vinse finalmente l’ira, e
            preso il fatal ramo lo gettò tra le fiamme. Meleagro assente cominciò subito a sentirsi
            consumar le viscere da un fuoco interno inestinguibile. Se la madre avesse potuto veder
            quegli spasimi atroci, ne sarebbe rimasta impietosita e avrebbe cercato di porvi
            rimedio ; chè ella sola il poteva. Quelli che gli apprestavano i suoi affettuosi
            compagni furono affatto inutili, e la vita del misero Meleagro si estinse allo spengersi
            dell’ ultima scintilla del tizzo fatale. Quando lo seppe la madre, agitata dal rimorso e
            divenuta folle per disperato dolore si diede la morte ; il padre ne rimase affranto e
            istupidito e poco sopravvisse ; e le sorelle (tranne <hi rend="i">Deianira</hi> che era
            già moglie di Ercole), furon cangiate in uccelli detti <hi rend="i">Meleàgridi</hi>,
            nome che da alcuni Ornitologi si dà tuttora alle galline affricane (<hi rend="i">Numida
              Meleagris</hi>).</p>
          <p>Ho detto di sopra che <hi rend="sc">Dante</hi>rammenta nella <hi rend="i">Divina
              Commedia</hi> la trista fine di Meleagro ; ed eccomi ad accennare in quale occasione.
            Dopo aver narrato che i golosi son puniti nel <hi rend="i">Purgatorio</hi> con una fame
            canina resa più acuta dal vedersi dinanzi agli occhi, come Tantalo nell’ Inferno pagano,
            i pomi e l’acqua senza poterne gustare ; il qual tormento rendeva talmente magre e
            scarne quelle anime, che</p>
          <quote>
            <l>« Negli occhi era ciascuna oscura e cava,</l>
            <l>« Pallida nella faccia e tanto scema</l>
            <l>« Che dall’ossa la pelle s’informava,</l>
          </quote>
          <p>cominciò a pensare</p>
          <quote>
            <l><pb n="329" xml:id="p329"/>« Alla cagione ancor non manifesta</l>
            <l>« Di lor magrezza e di lor trista squama ; »</l>
          </quote>
          <p>e non potendo trovarla da sè, finalmente, fattosi coraggio, domandò a Virgilio :</p>
          <quote>
            <l>« ……Come si può far magro</l>
            <l>« Là dove l’uopo di nutrir non tocca ? »</l>
          </quote>
          <p>E Virgilio a lui :</p>
          <quote>
            <l>« Se t’ammentassi come <hi rend="i">Meleagro</hi></l>
            <l>« Si consumò al consumar d’un tizzo</l>
            <l>« Non fora, disse, questo a te sì agro. »</l>
          </quote>
          <p>Ma accorgendosi Virgilio che con questo esempio pretendeva di spiegare un mistero con
            un altro mistero, citò ancora un fenomeno fisico :</p>
          <quote>
            <l>« E se pensassi come al vostro guizzo</l>
            <l>« Guizza dentro allo specchio vostra image,</l>
            <l>« Ciò che par duro ti parrebbe vizzo. »</l>
          </quote>
          <p>E per quanto anche il poeta Stazio, a richiesta di Virgilio, gli desse bellissime
            spiegazioni scientifiche sulla generazione dell’uomo, sull’unione dell’anima col corpo e
            lo stato di essa dopo la morte, nulladimeno non sembra che Dante rimanesse tanto
            convinto quanto altra volta che Virgilio gli disse :</p>
          <quote>
            <l>« A sofferir tormenti e caldi e geli</l>
            <l>« Simili corpi la <hi rend="sc">Virtù</hi> dispone</l>
            <l>« <hi rend="i">Che come sia non vuol che a noi si sveli</hi>. »</l>
          </quote>
          <p>E così con esempii mitologici, cattolici e scientifici viene a far conoscere che spesso
            s’incontrano nelle umane cognizioni misteri inesplicabili.</p>
          <pb n="330" xml:id="p330"/>
        </div2>
        <div2 type="chapter">
          <head type="sur">XLV</head>
          <head type="main">La spedizione degli Argonauti alla conquista del Vello d’oro</head>
          <p>Su questo argomento furon composti due poemi, uno in greco e l’altro in latino<note
              place="bottom"><hi rend="i">Apollonio Rodio</hi> compose il poema degli Argonauti in
              greco, e <hi rend="i">Valerio Flacco</hi> in latino. Anche <hi rend="i">Pindaro</hi>
              fece una lunga narrazione di questa impresa nell’Ode <num>iv</num> delle <hi rend="i"
                >Pitiche</hi>.</note> ; e sul duce o principal personaggio più e diverse tragedie
            antiche e moderne ; ed inoltre quasi tutti i poeti, incluso Dante, ne parlano o vi
            alludono. Cinquanta furono gli Eroi che vi presero parte, alcuni dei quali eran prima
            intervenuti alla caccia del cinghiale di Calidonia ; e tra questi <hi rend="i"
              >Giasone</hi> che fu il duce e il protagonista degli Argonauti, e acquistò maggior
            fama di tutti in questa impresa, come Achille nella guerra di Troia. Lo scopo della
            spedizione era la conquista del <hi rend="i">Vello d’oro</hi> ; e perciò di questo
            convien prima di tutto parlare.</p>
          <p>Chiamasi il <hi rend="i">Vello d’oro</hi> la pelle di un montone che invece di lana era
            coperta di fili d’oro. S’intende subito che questo montone è favoloso, e perciò convien
            cercarne l’origine nei precedenti tempi mitologici.</p>
          <p><hi rend="i">Atamante</hi> re di Tebe, che sposò in seconde nozze <hi rend="i">Ino</hi>
            divenuta poi la Dea <hi rend="i">Leucotoe</hi>, aveva della sua prima moglie <hi
              rend="i">Nèfele</hi> un figlio e una figlia di nome <hi rend="i">Frisso</hi> ed <hi
              rend="i">Elle</hi> ; che non contenti della matrigna fuggirono dalla casa paterna
            portando via un grosso montone col vello d’oro, donato già dagli Dei ad Atamante ; e
            montati a cavallo su quell’animale, lo spinsero in mare per farsi trasportar da esso fra
            le onde sino alla Colchide. Ma nel passar lo stretto che ora dicesi dei Dardanelli la
            giovinetta <hi rend="i">Elle</hi> cadde nel mare e vi <pb n="331" xml:id="p331"
            />annegò ; e per questo fatto mitologico gli Antichi diedero a quello stretto il nome di
              <hi rend="i">Ellesponto</hi> che significa <hi rend="i">mare di Elle</hi>. Al desolato
            fratello convenne continuar solo il viaggio marittimo che ebbe termine nella <hi
              rend="i">Colchide</hi> ov’era diretto. Questa regione, situata fra il <hi rend="i"
              >Ponto Eusino</hi> o Mar Nero, il Caucaso e l’Armenia, appartiene ora alla Russia e
            corrisponde alle provincie di <hi rend="i">Imerezia, Mingrelia</hi> e <hi rend="i"
              >Grusia</hi>. Fu un prodigioso viaggio quello di Frisso di traversar sull’ <hi
              rend="i">aureo montone</hi> nuotante l’Arcipelago, lo stretto dei Dardanelli, il Mar
            di Marmara, lo stretto di Costantinopoli e tutta la maggior lunghezza del Mar Nero, e
            giunger salvo a Colco. Frisso fu benissimo accolto con quel raro e prezioso animale da
              <hi rend="i">Eeta</hi> re di quella regione : e volendo mostrarsi grato agli Dei
            dell’esser giunto a salvamento ove desiderava, offrì loro in sacrifizio quel bravo
            montone che lo aveva sì ben servito, per appenderne come voto l’aureo vello
            maraviglioso. Ma gli Dei ricompensarono essi quel povero animale, trasformandolo nella
            celeste costellazione dell’<hi rend="i">Ariete</hi> ; e invece dell’aureo vello
            l’adornarono di quarantadue fulgidissime stelle, e il Sole l’onorò coll’ incominciar dal
            1° grado di esso l’annuo suo corso tra i segni del <hi rend="i">Zodiaco</hi>. Quindi i
            poeti alludendo a tal fatto mitologico chiamano questa costellazione <hi rend="i"
              >l’animal di Frisso</hi> ; e Dante l’appella più volte antonomasticamente il <hi
              rend="i">Montone</hi>, siccome il più buono, il più paziente, il più illustre di
            quanti montoni sieno esistiti giammai ; e volendo egli esprimer poeticamente lo spazio
            di <hi rend="i">sette anni</hi>, usa questa perifrasi mitologica ad un tempo ed
            astronomica :</p>
          <quote>
            <l>« … Or va, che il Sol non si ricorca</l>
            <l>« Sette volte nel letto che il <hi rend="i">Montone</hi></l>
            <l>« <hi rend="i">Con tutti e quattro i piè</hi> copre ed inforca,</l>
            <l>« Che cotesta cortese opinïone</l>
            <l>« Ti fia chiovata in mezzo della testa</l>
            <l>« Con maggior chiovi che d’altrui sermone. »</l>
          </quote>
          <p><pb n="332" xml:id="p332"/>Il <hi rend="i">vello d’oro</hi> rimasto nella Colchide fu
            consacrato, secondo alcuni, a Giove, e, secondo altri, a Marte, e custodito
            religiosamente, e assicurato con molte cautele e magiche invenzioni, di cui parleremo in
            appresso.</p>
          <p>Alla pericolosa conquista di quest’<hi rend="i">aureo vello</hi> fu diretta la
            spedizione degli Argonauti ; e non la considerarono essi una impresa di rapina, ma come
            l’esercizio di un diritto imprescrittibile, di riacquistar ciò che è suo, essendo che
            l’aureo montone appartenesse originariamente alla Grecia e precisamente alla real
            famiglia di Tebe, come abbiam detto di sopra. Ma gli Eroi di questa impresa per far lo
            stesso viaggio marittimo che fece <hi rend="i">Frisso</hi> sulla groppa del suo
            impareggiabile montone, furon costretti a costruire ed armare una nave che fu creduta la
            prima inventata dagli uomini, e celebrata perciò con lodi interminabili da tutti gli
            antichi. La nave fu chiamata <hi rend="i">Argo</hi>, e quindi <hi rend="i"
              >Argonauti</hi> gli Eroi che navigarono in quella. Se le fosse dato questo nome da
            quello dell’architetto che la costruì, o dall’esser fabbricata in <hi rend="i"
            >Argo</hi>, oppure da un greco vocabolo, che secondo alcuni etimologisti significa <hi
              rend="i">veloce</hi>, o da altro ortograficamente poco dissimile, ma che significa
            l’opposto, lascerò deciderlo ai solenni <hi rend="i">filologi</hi> : con tante idee
            poetiche e storiche che desta questa spedizione, non mi sento disposto ad arrestarmi a
            quisquilie filologiche.</p>
          <p>All’invito di Giasone accorsero gli Eroi da tutte le parti della Grecia, alcuni dei
            quali eran già stati con lui alla caccia del cinghiale di Calidonia, cioè <hi rend="i"
              >Teseo, Piritoo, Castore, Polluce</hi> e <hi rend="i">Telamone</hi> ; ed altri di cui
            non si è ancora parlato, cioè <hi rend="i">Calai</hi> e <hi rend="i">Zete</hi> figli di
            Borea, <hi rend="i">Ercole, Orfeo, Linceo, Tifi, Tideo</hi>, ecc. È ben facile che alla
            primitiva tradizione, di cui fa cenno anche Omero, non che Esiodo, siano stati aggiunti
            in appresso nuovi eroi dei diversi Stati della Grecia per accomunar la gloria di questa
            impresa a tutta la Nazione, poichè si fanno ascendere, come abbiam detto, almeno a <pb
              n="333" xml:id="p333"/>cinquanta, uno per remo, essendo <hi rend="i">Argo</hi> una
            nave di cinquanta remi. In questa comune e nazionale impresa per altro il solo <hi
              rend="i">Giasone</hi> è quello di cui si raccontano fatti straordinarii e
            maravigliosi, degni di poema ; gli altri Eroi vi rappresentan soltanto una parte molto
            secondaria ; ma appunto per questo vi è maggiore unità e si rende più facile e più breve
            la narrazione.</p>
          <p><hi rend="i">Giasone</hi> era figlio di <hi rend="i">Esone</hi> re di Tessaglia<note
              place="bottom">Perciò dai Latini è spesso indicato col patronimico <hi rend="i"
                >Æsonides</hi>, cioè figlio di <hi rend="i">Esone</hi>, e coll’aggettivo <hi
                rend="i">Pagasaeus</hi> da <hi rend="i">Pagasa</hi> (ora <hi rend="i">Armiro</hi>,)
              città marittima della Tessaglia, rammentata anche da Plinio il naturalista, ed ove
              Valerio Fiacco dice che fu costruita la nave <hi rend="i">Argo</hi>. Quindi anche la
              nave è chiamata <hi rend="i">Pagasœa puppis</hi>, e Medea <hi rend="i">Pagasœa
                conjux</hi>.</note>, a cui fu usurpato il regno dal fratello <hi rend="i"
            >Pelia</hi> ; perciò essendo egli ancor fanciullo, per salvarlo dalle in sidie dello
            zio, fu mandato ad educare altrove, e dicono presso il Centauro Chirone. Ma divenuto
            adulto e prode ritornò arditamente in Tessaglia per ridomandare allo zio il regno
            paterno. Pelia non osando di dargli un aperto rifiuto, lo seppe talmente allucinare
            colle idee della gloria e dell’onor nazionale, che lo impegnò a riconquistare il <hi
              rend="i">vello d’oro</hi> che ap parteneva alla Grecia, e gli promise di restituirgli
            il regno al suo ritorno, ma sperando in cuor suo che sarebbe perito in quella
            impresa.</p>
          <p>Fu costruita la nave per questa spedizione coi pini del monte Pelio e colle quercie
            della selva di Dodona sacra a Giove, e, aggiungono i poeti, sul disegno dato da Minerva
            stessa, per significarne la perfetta costruzione. Riuniti a Giasone i cinquanta eroi, la
            nave salpò per la <hi rend="i">Colchide</hi>, che allora chiamavasi la terra di <hi
              rend="i">Eea</hi>, vocabolo d’incerta e vaga significazione, indicante soltanto una
            terra lontana, come l’<hi rend="i">Oga Magoga</hi> della Bibbia e il paese di <hi
              rend="i">Cuccagna</hi> e di <hi rend="i">Bengodi</hi> dei nostri novellieri. Gli
            Argonauti sapevano soltanto che quel paese era fra settentrione ed oriente, e in quella
              <pb n="334" xml:id="p334"/>direzione volsero la prora. Il capitan della nave era <hi
              rend="i">Giasone</hi>, il pilota <hi rend="i">Tifi</hi>, ed a prua stava <hi rend="i"
              >Linceo</hi> di vista acutissima, (come significa il suo nome derivato da <hi rend="i"
              >lince</hi>, per osservare se v’eran sott’ acqua scogli e sirti, ove corresse rischio
            di frangersi o arrenare la nave. <hi rend="i">Orfeo</hi> interrompeva la monotonia del
            viaggio rallegrando i compagni col canto e col suon della cetra : tutti gli altri Eroi
            costituivano la ciurma che eroicamente remava. Convenne far diverse fermate per prender,
            come suol dirsi, paese, ossia per avere a mano a mano opportune notizie riferibili al
            luogo e allo scopo del loro viaggio, ed anche per rinnovare le loro provvisioni da
            bocca, perchè Ercole, oltre ad essere il più forte e robusto eroe, era anche il più gran
            divoratore, e mangiava per cinquanta, bevendo ancora in proporzione ; e perciò gli
            avevan messo il soprannome di <hi rend="i">Panfago</hi>, che vuol dir <hi rend="i"
              >mangia-tutto</hi>.</p>
          <p>La prima fermata fu nell’<hi rend="i">isola di Lenno</hi>,</p>
          <quote>
            <l>« Poi che le ardite femmine spietate</l>
            <l>« Tutti li maschi loro a morte dienno, »</l>
          </quote>
          <p>come dice <hi rend="sc">Dante</hi> ; e vi giunsero appunto dopo l’atroce fatto che le
            donne di quell’isola, malcontente delle leggi e dei trattamenti degli uomini, li
            uccisero tutti per costituirsi in repubblica femminile. La sola <hi rend="i"
              >Issipile</hi>, figlia del re <hi rend="i">Toante</hi>, con pietosa frode salvò la
            vita a suo padre ; e meritava perciò una miglior sorte di quella che si racconta di
            essa, poichè giunto in quell’isola insieme cogli altri Argonauti <hi rend="i"
              >Giasone</hi>,</p>
          <quote>
            <l>« Ivi con segni e con parole ornate</l>
            <l>« <hi rend="i">Issifile</hi> ingannò la giovinetta,</l>
            <l>« Che prima tutte l’altre avea ingannate ; »</l>
          </quote>
          <p>e poi traditane la buona fede la lasciò alle persecuzioni delle sue crudeli compagne,
            che scoperta la sua pietà filiale, le tolsero il trono e la cacciarono dal regno.
            Inoltre fu presa <pb n="335" xml:id="p335"/>dai pirati e venduta schiava a <hi rend="i"
              >Licurgo</hi> re di Tracia<note place="bottom"><p>Nella sua schiavitù ebbe <hi
                  rend="i">Issipile</hi> a custodire il piccolo figlio di <hi rend="i">Licurgo</hi>,
                chiamato <hi rend="i">Ofelte</hi>, o altrimenti <hi rend="i">Archemore</hi> ; ed
                avendolo lasciato solo in un prato per mostrare ad <hi rend="i">Adrasto</hi> e
                a’suoi compagni la fontana <hi rend="i">Langia</hi> non molto distante, al suo
                ritorno trovò il bambino morto pel morso velenoso di un serpente ; ed oltre al
                dispiacere provato avrebbe dovuto subire anche la morte, se non la di fendevano
                Adrasto e i suoi compagni. <hi rend="sc">Dante</hi> in un sol verso accenna questo
                fatto, anzi ne fa una <hi rend="i">perifrasi</hi> del nome di <hi rend="i"
                  >Issipile</hi>, o <hi rend="i">Issifile</hi>, dicendo nel Canto <num>xxii</num>
                del <hi rend="i">Purgatorio</hi> :</p><quote><l>« Vedesi quella che mostrò <hi
                    rend="i">Langia</hi>, »</l></quote><p>cioè la fontana detta <hi rend="i"
                  >Langia</hi>, ad Adrasto e a’compagni di lui.</p></note>. <hi rend="sc"
            >Dante</hi>, amico non timido amico al vero ed al retto<note place="bottom"><quote><l>
                  « E s’io al vero son timido amico,</l><l>« Temo di perder vita tra
                  coloro</l><l>« Che questo tempo chiameranno
                  antico. »</l></quote><bibl>(<title>Parad.</title>, Canto <num>xviii</num>,
                v. 118.)</bibl></note>, dopo aver narrato l’inganno di Giasone, non fa come certi
              <hi rend="i">lassisti</hi><note place="bottom">Furono chiamati <hi rend="i"
                >lassisti</hi> i moralisti o casisti poco scrupolosi, detti volgarmente <hi rend="i"
                >di maniche larghe</hi>.</note> che scusano facilmente i così detti errori
            giovanili : per lui qualunque inganno dannoso al prossimo, in qualunque età commesso, è
            non solo meritevole di punizione, ma anche di pena maggiore dell’omicidio ; e perciò
            mette <hi rend="i">Giasone</hi> nella prima bolgia dell’<hi rend="i">Inferno</hi> fra i
            dannati che eran puniti</p>
          <quote>
            <l>« <hi rend="i">Da quei</hi> Dimon cornuti con gran ferze</l>
            <l>« Che li battean crudelmente di retro ; »</l>
          </quote>
          <p>e soggiunge :</p>
          <quote>
            <l>« Tal colpa a tal martirio lui condanna,</l>
            <l>« Ed anche di Medea si fa vendetta.</l>
            <l>« Con lui sen va chi da tal parte inganna. »</l>
          </quote>
          <p>Dopo questo episodio, poco <hi rend="i">cavalleresco</hi> a dir vero, proseguirono gli
            Argonauti il loro viaggio. Troppo lungo e <pb n="336" xml:id="p336"/>monotono sarebbe il
            racconto di tutti e singoli gl’incidenti, che per lo più son comuni alla maggior parte
            dei viaggi marittimi narrati dai poeti, come, per esempio, qualche tempesta, qualche
            combattimento coi popoli delle coste marittime o delle isole, qualche pericolo di scogli
            o di sirti ; in quella vece ci arresteremo piuttosto a riferire un episodio di nuovo
            genere, imitato anche dall’Ariosto, e rammentato più d’una volta dall’Alighieri, cioè la
            liberazione del re <hi rend="i">Fineo</hi> dalle Arpie.</p>
          <p>Le <hi rend="i">Arpie</hi> eran mostri che <hi rend="sc">Dante</hi> dipinge così :</p>
          <quote>
            <l>« Ale hanno late e colli e visi umani,</l>
            <l>« Piè con artigli e pennuto il gran ventre,</l>
            <l>« Fanno lamenti in sugli alberi strani. »</l>
          </quote>
          <p>E bisogna aggiungere quel che ne dicono i poeti greci e i latini, che cioè questi
            mostri avevano l’istinto di rapire i cibi dalle mense e di contaminarle con escrementi
            che fieramente ammorbavano. Il loro stesso nome di <hi rend="i">Arpie</hi> deriva da un
            greco vocabolo (<hi rend="i">arpazo</hi>) che significa <hi rend="i">rapire</hi><note
              place="bottom"><p><hi rend="sc">Virgilio</hi> così descrive le Arpie nel
                  lib. <num>iii</num> dell’ <hi rend="i">Eneide</hi> :</p><quote><l>« Tristius haud
                  illis monstrum, nec sævior ulla</l><l>« Pestis et ira Deûm Stygiis sese extulit
                  undis.</l><l>« Virginei volucrum vultus, fœdissima ventris</l><l>« Proluvies,
                  uncæque manus, et pallida semper</l><l>« Ora fame. »</l></quote></note>. Ad essere
            infestato da tali mostri era condannato dagli Dei <hi rend="i">Fineo</hi> re di Tracia
            in punizione delle sue crudeltà verso i proprii figli, e vi fu aggiunta pur anco la
            cecità. Approdati gli Argonauti nella Tracia o bene accolti da Fineo, vollero per
            gratitudine liberarlo dalle Arpie, ed oltre a cacciarle dalla reggia colle armi, le
            fecero inseguire per aria da <hi rend="i">Calai</hi> e <hi rend="i">Zete</hi>, figli di
            Borea, che avevano le ali come il loro padre ; i quali le respinsero fino alle isole <hi
              rend="i">Strofadi</hi>, ove poi furono trovate da Enea nel venire in Italia, come a
            suo luogo <pb n="337" xml:id="p337"/>diremo. Finalmente furono confinate nell’Inferno,
            ove Dante le trovò a tormentare i dannati per suicidio.</p>
          <p>Ma poichè l’<hi rend="sc">Ariosto</hi>, coll’immaginare che il <hi rend="i">Senàpo</hi>
            imperatore dell’Etiopia avesse ricevuto una punizione simile a quella di Fineo, ha
            riunito in poche ottave tutte le classiche reminiscenze degli antichi poeti su questo
            fatto mitologico, aggiungendovi di suo altre invenzioni medioevali, riporterò prima
            l’imitazione degli Antichi, e dipoi il diverso modo di liberazione da lui
            immaginato :</p>
          <quote>
            <l>« Dentro una ricca sala immantinente</l>
            <l>« Apparecchiossi il convito solenne,</l>
            <l>« Col <hi rend="i">Senàpo</hi> s’assise solamente</l>
            <l>« Il Duca <hi rend="i">Astolfo</hi>, e la vivanda venne.</l>
            <l>« Ecco per l’aria lo stridor si sente,</l>
            <l>« Percosso intorno dall’orribil penne :</l>
            <l>« Ecco venir le <hi rend="i">Arpie</hi> brutte e nefande,</l>
            <l>« Tratte dal cielo a odor delle vivande.</l>
            <l>« Erano sette in una schiera, e tutte</l>
            <l>« Volto di donne avean pallide e smorte,</l>
            <l>« Per lunga fame attenuate e asciutte,</l>
            <l>« Orribili a veder più che la morte.</l>
            <l>« L’alacce grandi avean, deformi e brutte,</l>
            <l>« Le man rapaci e l’ugne incurve e torte,</l>
            <l>« Grande e fetido il ventre, e lunga coda</l>
            <l>« Come di serpe che s’aggira e snoda.</l>
            <l>« Si sentono venir per l’aria e quasi</l>
            <l>« Si veggon tutte a un tempo in su la mensa</l>
            <l>« Rapire i cibi e riversare i vasi ;</l>
            <l>« E molta feccia il ventre lor dispensa,</l>
            <l>« Tal che gli è forza d’otturare i nasi,</l>
            <l>« Che non si può patir la puzza immensa.</l>
            <l>« Astolfo, come l’ira lo sospinge,</l>
            <l>« Contra gl’ingordi augelli il ferro stringe.</l>
            <l><pb n="338" xml:id="p338"/>« Uno sul collo, un altro su la groppa</l>
            <l>« Percuote, e chi nel petto e chi nell’ala ;</l>
            <l>« Ma come fera in su un sacco di stoppa,</l>
            <l>« Poi langue il colpo, e senza effetto cala :</l>
            <l>« E quei non vi lasciâr piatto nè coppa</l>
            <l>« Che fosse intatta ; nè sgombrâr la sala</l>
            <l>« Prima che le rapine e il fiero pasto</l>
            <l>« Contaminato il tutto avesse e guasto. »</l>
          </quote>
          <bibl>(<title>Orl. Fur.</title>, <num>xxxiii</num>, 119.)</bibl>
          <p>A questo punto l’Ariosto lascia l’imitazione degli Antichi, e con le invenzioni del
            Medio Evo, di cui si era valso in altri luoghi del suo poema, narra la liberazione del
              <hi rend="i">Senàpo</hi> dalle <hi rend="i">Arpie</hi> in modo più maraviglioso di
            quello dei poeti classici greci e latini. I mezzi che egli adopera sono due l’ <hi
              rend="i">Ippogrifo</hi>, di cui abbiamo riportato altrove la descrizione stessa
            fattane dall’Ariosto, e l’altro non meno straordinario e mirabile, di cui riporterò
            parimente la descrizione coi versi stessi dell’Ariosto ;</p>
          <quote>
            <l>« E questo fu d’orribil suono <hi rend="i">un corno</hi></l>
            <l>« Che fa fuggire ognun che l’ode intorno.</l>
            <l>« Dico che ‘l corno è di sì orribil suono</l>
            <l>« Ch’ovunque s’oda, fa fuggir la gente.</l>
            <l>« Non può trovarsi al mondo un cor sì buono,</l>
            <l>« Che non possa fuggir come lo sente.</l>
            <l>« Rumor di vento e di tremuoto, e ‘l tuono,</l>
            <l>« Al par del suon di questo, era nïente. »</l>
          </quote>
          <bibl>(<title>Or. Fur.</title>, <num>xv</num>, 14.)</bibl>
          <p>Conosciuti i mezzi, ecco in qual modo l’Ariosto li fa porre in opera dal duca Astolfo
            per la liberazione del <hi rend="i">Senàpo</hi> dalle Arpie :</p>
          <quote>
            <l>« Avuto avea quel re ferma speranza</l>
            <l>« Nel duca, che l’ Arpie gli discacciassi ;</l>
            <l><pb n="339" xml:id="p339"/>« Ed or che nulla ove sperar gli avanza,</l>
            <l>« Sospira e geme e disperato stassi.</l>
            <l>« Viene al duca del corno rimembranza,</l>
            <l>« Che suole aitarlo ai perigliosi passi ;</l>
            <l>« E conchiude tra sè, che questa via</l>
            <l>« Per discacciare i mostri ottima sia.</l>
            <l>« E prima fa che ‘l re con suoi baroni</l>
            <l>« Di calda cera l’orecchio si serra,</l>
            <l>« Acciò che tutti, come il corno suoni,</l>
            <l>« Non abbiano a fuggir fuor della terra.</l>
            <l>« Prende la briglia e salta su gli arcioni</l>
            <l>« Dell’<hi rend="i">Ippogrifo</hi> ed il bel corno afferra ;</l>
            <l>« E con cenni allo scalco poi comanda</l>
            <l>« Che riponga la mensa e la vivanda.</l>
            <l>« E così in una loggia s’apparecchia</l>
            <l>« Con altra mensa altra vivanda nuova.</l>
            <l>« Ecco l’Arpie che fan l’usanza vecchia :</l>
            <l>« Astolfo il corno subito ritrova ;</l>
            <l>« Gli <hi rend="i">Augelli</hi> che non han chiusa l’orecchia,</l>
            <l>« Udito il suon, non puon stare alla prova ;</l>
            <l>« Ma vanno in fuga pieni di paura,</l>
            <l>« Nè di cibo nè d’altro hanno più cura.</l>
            <l>« Subito il paladin dietro lor sprona ;</l>
            <l>« Volando esce il destrier fuor della loggia,</l>
            <l>« E col castel la gran città abbandona,</l>
            <l>« E per l’aria, cacciando i mostri, poggia.</l>
            <l>« Astolfo il corno tuttavolta suona ;</l>
            <l>« Fuggon l’Arpie verso la zona roggia,</l>
            <l>« Tanto che sono all’altissimo monte,</l>
            <l>« Ove il Nilo ha, se in alcun luogo ha, fonte.</l>
            <l>« Quasi della montagna alla radice</l>
            <l>« Entra sotterra una profonda grotta,</l>
            <l>« Che certissima porta esser si dice</l>
            <l>« Di chi all’inferno vuol scender talotta.</l>
            <l><pb n="340" xml:id="p340"/>« Quivi s’è quella turba predatrice</l>
            <l>« Come in sicuro albergo ricondotta,</l>
            <l>« E già sin di Cocito in su la proda</l>
            <l>« Scesa, e più là, dove quel suon non s’oda. »</l>
          </quote>
          <p>E così l’Ariosto collega l’antico col moderno, e fingendo che Astolfo nell’800 dell’èra
            volgare avesse spinto le Arpie nell’Inferno, ove Dante, 500 anni dopo Astolfo, dice di
            averle trovate, mette d’accordo, come se fossero una storia vera, le fantasie di tutti
            gli altri poeti col racconto di sua invenzione.</p>
          <p>Da <hi rend="i">Fineo</hi> ebbero gli Argonauti notizie e consigli sul miglior modo di
            schivare i pericoli della loro navigazione ; e partiti da lui colmi di ringraziamenti e
            di doni proseguirono il loro viaggio per l’Ellesponto e la Propontide. Prima di entrar
            nel Ponto Eusino perderono la compagnia di <hi rend="i">Ercole</hi>, il quale avendo
            mandato il suo valletto <hi rend="i">Ila</hi> a prender dell’acqua sulle coste della
            Misia, e non vedendolo ritornare, scese a terra a cercarlo e non volle seguitare il
            viaggio. Per quanto cercasse, non lo trovò più ; e fu detto dai poeti che le Ninfe <hi
              rend="i">Naiadi</hi> avevano rapito il giovinetto <hi rend="i">Ila</hi> ; il che in
            prosa significherebbe che era annegato in quella fonte ov’egli andò ad attingere
            l’acqua. Gli Argonauti non furon troppo dolenti di perder la compagnia del loro
            carissimo <hi rend="i">Panfago</hi>, perchè poteron procedere più speditamente,
            alleggerita di quel grave peso la nave, e senza doversi così spesso fermare a far nuove
            provvisioni da bocca.</p>
          <p>Tutti gli altri incidenti che avvennero avanti che gli Argonauti giungessero nella
            Colchide sono di lieve importanza in confronto dei già narrati e dell’<hi rend="i"
              >azione principale</hi>, scopo del loro viaggio ; quindi ci affretteremo a parlare di
            questa. E sebbene la presenza e il braccio di tanti famosi Eroi rendesse sicura
            qualunque impresa da compiersi colla forza, trovaron per altro che questa non bastava a
            conquistare il <hi rend="i">Vello</hi>
            <pb n="341" xml:id="p341"/><hi rend="i">d’oro</hi> : bisognava ancora vincer gl’<hi
              rend="i">incanti</hi>, nelle quali arti i Greci eran novizii in confronto dei
              Colchi<note place="bottom">Anche i poeti latini del secolo di Augusto rammentano con
              maraviglia e con orrore gl’incantesimi e i veleni <hi rend="i">Colchici</hi>.</note>.
            Sarebbe dunque rimasta vana ed inutile la spedizione degli Argonauti, quanto al fine
            ultimo della medesima, se Giasone non avesse trovato una <hi rend="i">Maga</hi> che lo
            aiutasse a superare ogni ostacolo soprannaturale. Con tale aiuto potè egli solo compier
            l’impresa, rimanendo spettatori e pieni di maraviglia gli stessi Eroi suoi compagni.
            Ecco perchè d’ora in avanti anche i nostri sguardi dovranno esser principalmente rivolti
            su <hi rend="i">Giasone</hi> e la Maga <hi rend="i">Medea</hi>.</p>
        </div2>
        <div2 type="chapter">
          <head type="sur">XLVI</head>
          <head type="main">Giasone e Medea</head>
          <p>Re della Colchide al tempo che vi giunsero gli Argonauti, cioè 13 secoli avanti il
            Cristianesimo, era <hi rend="i">Eeta</hi>, il quale aveva una figlia nubile chiamata <hi
              rend="i">Medea</hi> ed un piccolo figlio chiamato <hi rend="i">Absirto</hi>. I <hi
              rend="i">Colchi</hi> eran celebri nell’antichità per l’arte magica, e Medea
            apparteneva al novero</p>
          <quote>
            <l>« <hi rend="i">Di quelle</hi> triste che lasciaron l’ago,</l>
            <l>« La spola e ‘l fuso, e fecersi indovine ;</l>
            <l>« Fecer malìe con erbe e con imago. »</l>
          </quote>
          <p>Fra tutti gli Argonauti distinguevasi <hi rend="i">Giasone</hi> per avvenenza e per
            regale aspetto ; e <hi rend="sc">Dante</hi> che lo pose nell’ <hi rend="i">Inferno</hi>
            come ingannatore di femmine, non tace però di alcune sue egregie doti, facendo dire a
            Virgilio :</p>
          <quote>
            <l>« ….. Guarda quel <hi rend="i">grande</hi> che viene</l>
            <l>« E per dolor non par lagrima spanda :</l>
            <l>« Quanto <hi rend="i">aspetto reale</hi> ancor ritiene !</l>
            <l>« Quegli è Iason che <hi rend="i">per cuore e per senno</hi></l>
            <l>« Li Colchi del monton privati fene. »</l>
          </quote>
          <p><pb n="342" xml:id="p342"/>Medea se ne invaghì ; e Giasone le promise di sposarla e di
            condurla seco ad esser regina in Grecia, se lo aiutava colle arti sue ad impadronirsi
            del <hi rend="i">vello d’oro</hi>. Le difficoltà erano straordinarie : conveniva entrare
            in uno steccato difeso da tori spiranti fiamme, aggiogarne due ad un aratro spingendoli
            quindi a fare un solco ; e, seminati i denti del serpente ucciso da Cadmo, combattere
            coi guerrieri che nascevano da quelli ; e finalmente uccidere il drago alato che
            vegliava a guardia dell’aureo vello. Medea coll’arte magica premunì talmente Giasone che
            vinse ogni prova, e, impadronitosi dell’ambito tesoro, partì subito cogli eroi compagni
            e colla sua fidanzata per imbarcarsi nuovamente sulla nave <hi rend="i">Argo</hi>
            ancorata nel fiume <hi rend="i">Fasi</hi><note place="bottom"><p>Dicono gli scrittori
                antichi che alla foce del fiume <hi rend="i">Fasi</hi> v’era una città omonima che
                apparteneva al regno della Colchide. Perciò Medea da Ovidio è chiamata ancora <hi
                  rend="i">Phasis</hi> (la donna del <hi rend="i">Fasi</hi> o <hi rend="i"
                  >Fasso</hi>). Dalle rive del <hi rend="i">Fasi</hi> furono portati dagli Argonauti
                i <hi rend="i">fagiani</hi> in Grecia, e dalla Grecia vennero col greco nome a Roma
                e furono perciò chiamati <hi rend="i">Phasiani</hi>.<hi rend="sc">Marziale</hi>, in
                un epigramma intitolato <hi rend="i">Phasianus</hi>, lo fa dire a questo
                volatile :</p><quote><l>« Argiva primum sum transportata carina :</l><l>« Ante mihi
                  notum nil, nisi Phasis, erat. »</l></quote><p>E i Naturalisti confermano quel che
                dice il <hi rend="i">fagiano</hi> di Marziale ; poichè chiamano <hi rend="i">Fagiano
                  del Fasi</hi> la specie più comune che si conserva e moltiplica nelle <hi rend="i"
                  >fagianiere</hi>.</p></note>. Non vi fu bisogno che alcuno degli altri Argonauti
            prendesse parte alle preaccennate prove, ma stettero tutti a vedere pieni di maraviglia,
            specialmente allorquando Giasone seminò i denti del serpente ucciso da Cadmo, e ne
            nacquero uomini. <hi rend="sc">Dante</hi> allude a questo fatto mitologico nel Canto
              <num>ii</num> del <hi rend="i">Paradiso</hi>, dicendo :</p>
          <quote>
            <l>« Quei glorïosi che passaro a Colco</l>
            <l>« Non s’ammiraron, come voi farete,</l>
            <l>« Quando <hi rend="i">Jason</hi> vider fatto bifolco. »</l>
          </quote>
          <p><pb n="343" xml:id="p343"/>Medea per altro avea preveduto che suo padre <hi rend="i"
              >Eeta</hi> li avrebbe fatti inseguire, e perciò condusse seco come in ostaggio per
            qualunque più tristo evento il suo piccolo fratello <hi rend="i">Absirto</hi> ; e quando
            vide che il padre stesso li inseguiva con un esercito, invece di fidare nel valore degli
            Argonauti, ove mai s’impegnasse la mischia, uccise il fratello Absirto e ne gettò le
            membra sparse sulla via per cui passar doveva suo padre, affinchè questo ferale
            spettacolo lo ritardasse, arrestandolo a rendere alla salma dell’ estinto figlio i
            funebri onori. Con questo orrendo delitto ottenne l’intento, e dimostrò a tutti, non che
            allo sposo, di qual tempra ella fosse<note place="bottom"><p><hi rend="sc">Ovidio</hi>,
                che fu relegato nell’antica città di <hi rend="i">Tomi</hi> sul Mar Nero presso
                Odessa, ci dice in una elegia (<hi rend="i">Trist</hi>. <num>iii</num>, 9ª), che
                Medea uccise e fece a pezzi il suo fratello Absirto in quella regione, e che la
                città ivi dipoi fabbricata dai Milesii fu detta appunto <hi rend="i">Tomi</hi>,
                greco vocabolo che significa <hi rend="i">dissezione</hi> (e dal quale fu composto
                pur anco il nome di <hi rend="i">Anatomia</hi>) :</p><quote><l>« Inde Tomis dictus
                  locus hic ; quia fertur in illo</l><l>« Membra soror fratris <hi rend="i"
                    >consecuisse</hi> sui. »</l></quote><p>Così termina Ovidio l’elegia ; ma prima
                ha raccontato poeticamente tutto l’atroce delitto di Medea, ed asserito con
                sicurezza che questo nome di <hi rend="i">Tomi</hi> lo aveva il territorio anche
                prima che vi fosse fabbricata la città :</p><quote><l>« Sed vetus huic nomen,
                  positaque antiquius urbe,</l><l>« <hi rend="i">Constat ab Absyrti cœde</hi> fuisse
                  loco. »</l></quote><p>I Geografi moderni credono che l’attuale città di <hi
                  rend="i">Ovidiopol</hi>, fabbricata da Caterina II verso la foce del Dniester, sia
                sul luogo stesso dell’antica <hi rend="i">Tomi</hi> dove fu relegato Ovidio, e che
                perciò fosse chiamata <hi rend="i">Ovidiopol</hi> (città d’Ovidio)</p></note>.</p>
          <p>Quanto alla strada che tennero gli Argonauti per ritornare in Grecia, vi sono tre
            opinioni diverse, che sarebbero poco divertenti a raccontarsi e a udirsi, perchè dopo
            tutto, non si può accertare qual sia la vera ; e fortunatamente poco importa il saperlo.
            Si accordano però i diversi Mitologi ad asserire che volendo gli Argonauti ritornare in
            Grecia per <pb n="344" xml:id="p344"/>altri mari, furono obbligati a portarsi sulle
            spalle la loro nave a traverso i monti per andare a trovare, chi dice il <hi rend="i"
              >Mar Rosso</hi>, e chi il <hi rend="i">Mare Adriatico</hi> ; e su questa fatica che
            ora direbbesi <hi rend="i">erculea</hi> (benchè vi mancasse, come sappiamo, l’aiuto di
              <hi rend="i">Ercole</hi> che aveva lasciati molto prima i compagni), si estendono con
            molte amplificazioni i poeti antichi, come faranno i futuri poeti <hi rend="i">che
              questo tempo chiameranno antico</hi>, narrando il passaggio del general Bonaparte e
            dell’artiglieria francese sulle nevose cime delle Alpi. Quella antica è probabilmente
            una invenzione poetica per encomiar quegli Eroi che non ebber nulla da fare nella
            conquista del vello d’oro : la narrazione del fattò vero moderno parrebbe non meno
            favolosa, se si perdessero i documenti storici.</p>
          <p>Rientrati gli Argonauti nei mari della Grecia accompagnarono Giasone e Medea in
            Tessaglia, ed ivi si divisero da loro per andare a compiere altre illustri imprese,
            delle quali parleremo fra breve in altri capitoli. In questo convien continuare il
            racconto di Giasone e Medea.</p>
          <p>Poco lieto di questo ritorno fu Pelia usurpatore del regno di Giasone, poichè aveva
            sperato di essersi tolto di mezzo per sempre il nipote ; ed ora lo vedeva tornare colmo
            di gloria col prezioso vello ed una fiera moglie di lui più tremenda. E qui ricominciano
            gli atroci fatti e le magiche frodi.</p>
          <p>È una invenzione di alcuni poeti, e specialmente di Ovidio, che Medea col sugo di certe
            erbe trasfuso nelle vene del vecchio <hi rend="i">Esone</hi> lo ringiovanisse,<note
              place="bottom">Quindi derivò nel Medio Evo la prima idea della <hi rend="i"
                >trasfusione del sangue</hi>, se non per ringiovanire, almeno per riacquistare le
              forze illanguidite dalla vecchiezza, e viver più a lungo. Disgraziatamente la Storia
              ci fa sapere che questo barbaro metodo curativo (il quale, generalmente, scorciava o
              troncava la vita ai giovani a cui toglievasi il sangue senza prolungare quella dei
              vecchi a cui s’infondeva) fu posto in pratica più volte per alcuni principi e potenti
              della Terra. Anche nel 1600 fu tentata dai medici francesi la trasfusione del sangue
              umano come mezzo curativo delle emorragie ; ma si dovè ben presto abbandonarla per
              l’incertezza dell’effetto e la responsabilità dei mezzi. Anzi nel 1668 fu proibita e
              condannata anche per legge. Non ostante si asserisce da alcuni autori che di tanto in
              tanto i medici francesi ne abbiano ritentato la prova. Peraltro la trasfusione del
              sangue di una bestia nelle vene dell’ uomo o della donna non è proibita ; ed anche in
              Italia, e precisamente in Napoli, fu eseguita nel mese di novembre 1872 con prospero
              successo l’operazione della trasfusione del sangue di un agnello nelle vene di una
              signora non anco trentenne, in caso di anemia grave per ripetute emorragie. (V. il
              giornale <hi rend="i">La Nazione</hi> del 23 novembre 1872). È da sapersi inoltre che
              il <hi rend="sc">Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere</hi> in Milano, pubblicò
              tra gli altri temi di concorso anche il seguente <hi rend="sc">Tema per l’anno</hi>
              1875 : <hi rend="i">La trasfusione del sangue nell’uomo, studiata nel concetto di
                innesto ematico</hi> ; e promise un premio di lire 1500 e una medaglia d’oro di lire
              500.</note> poichè tutti gli altri dicono <pb n="345" xml:id="p345"/>che il padre di
            Giasone fosse stato molto prima ucciso da Pelia ; ma però tutti si accordano ad asserire
            che Medea per punir crudelmente Pelia fe’ credere alle figlie di lui che potrebbero
            ringiovanire il vecchio padre con certe erbe magiche che ella diè loro ; ed esse troppo
            credule furono orribilmente micidiali e parricide.</p>
          <p>Giasone dopo essere stato qualche anno in perfetto accordo colla moglie ed avutine due
            figli, ricominciò una vita errante in cerca di straordinarie avventure ; ed essendosi
            fermato lungamente alla corte di Creonte re di Corinto, si sparse la fama che egli
            avrebbe sposato <hi rend="i">Glauca</hi> figlia del re, e ripudiato Medea. Questa appena
            lo seppe, corse a Corinto coi figli ; e trovando che la fama non era stata bugiarda,
            finse rassegnazione e di voler fare anch’essa un dono alla novella sposa, e le diede un
            abito ed anche un cinto spalmati di magici succhi, che divamparono in fiamme
            nell’appressarsi della sposa all’ara ardente e alle vampe delle faci nuziali ; e la
            misera Glauca, o come altri la chiamano Creusa, morì carbonizzata, e l’incendio si
            comunicò anche alla reggia. Nè <pb n="346" xml:id="p346"/>solo di questa atroce vendetta
            fu paga la furibonda Medea, ma uccise anche i figli, potendo più in lei l’odio contro
            Giasone che l’amore di madre ; e poi, benchè chiusa nella reggia fuggì per aria a volo
            in un carro tirato da serpenti alati, e se ne andò ad Atene nella corte del vecchio <hi
              rend="i">Egeo</hi> padre di Teseo. Quel che ivi macchinasse sarà detto nel racconto
            particolare della vita di questo Eroe. Giasone colpito cru- delmente nelle sue più care
            affezioni tornò affranto dal dolore nel suo regno di Tessaglia ; e di lui null’altro più
            si racconta che la trista fine. Si narra che la nave <hi rend="i">Argo</hi> dopo il
            famoso viaggio fu collocata sulla riva del mare sopra una base come un glorioso trofeo,
            e che Giasone frequentemente all’ombra di essa arrestavasi ripensando ai dì che furono,
            quando egli duce dei più degni Eroi, varcava su quella incogniti mari. Ma un giorno,
            come volle il suo fato funesto, dalla nave sconquassata nel lungo viaggio e corrosa
            dalle intemperie, cadde una trave sulla testa dell’Eroe e lo uccise. E forse per questa
            fine ingloriosa non ebbe egli dopo la morte quegli onori divini che solevano prodigarsi
            agli altri Eroi. Invece fu onorata ben più la stessa nave, che i poeti asserirono
            assunta in cielo e trasformata in quella costellazione che ne porta tuttora il nome, e
            nella quale i moderni astronomi coi loro telescopii hanno contato 127 fulgidissime
            stelle.</p>
          <p>Per quanto gli Antichi si affaticassero a dire che <hi rend="i">Argo</hi> fu la prima
            nave inventata dagli uomini, nessuno dei moderni vorrà credere che non ve ne fossero
            state altre anche avanti. Si può bene ammettere che fosse la prima di quella particolare
            ed egregia costruzione, ma non già che gli Argonauti fossero i primi navigatori. Le
            isole stesse dell’ Arcipelago greco, per quanto vicine tra loro, non che le più distanti
            negli altri mari, non avrebbero potuto esser popolate da gente che vi si fosse
            trasportata a nuoto ; e sappiamo dalla Storia della scoperta dell’America, che anche i
            selvaggi di <pb n="347" xml:id="p347"/>quella parte del mondo adopravano piccole barche
            formate di un sol tronco d’albero scavato naturalmente per vecchiezza, oppure
            artificialmente col fuoco o con stromenti di pietra. Anzi gli scrittori filosofi che
            studiano le origini storiche, e fra questi principalmente il Vico, asseriscono che il
            toro che rapì Europa non fosse altro che una nave coll’insegna o col nome di
            quell’animale, e così il montone di <hi rend="i">Frisso</hi> ed <hi rend="i">Elle</hi> ;
            mentre poi per l’ <hi rend="i">aureo vello</hi> intendono un ricco tesoro trasportato
            nella Colchide, ove gli Argonauti andarono per ricuperarlo.</p>
          <p>I poeti per altro prescelgono sempre quel che è più maraviglioso, ancorchè sia men
            vero, e vi aggiungono particolari incidenti per renderlo verosimile. Lo stesso Cicerone
            nelle sue <hi rend="i">opere filosofiche</hi> riporta una scena della tragedia degli
            Argonauti di <hi rend="i">Lucio Accio</hi>, nella quale il poeta finge, che un pastore
            che non aveva mai prima veduto una nave, nello scorgere dall’alto di un monte il
            vascello degli Argonauti traversare i flutti, daprima si maraviglia e resta attonito
            credendolo un soprannaturale prodigio ; ma quando vede i giovani Eroi e ode il suon
            della cetra e i nautici canti, comincia a sospettare che sia quella una nuova invenzione
            maravigliosa dell’umano ingegno. E Cicerone afferma che i primi filosofi dovettero
            imitar questo pastore nell’osservare i fenomeni dell’Universo, per giunger poi a
            scuoprire col raziocinio qual ne fosse la causa e l’autore<note place="bottom">Per chi
              studia o sa il latino, e si diletta non solo di studi letterarii, ma pur anco dei
              filosofici, riporterò la celebre osservazione del romano oratore e filosofo, di cui ho
              fatto cenno di sopra nel testo : <quote>« Ergo ut hic (pastor) primo aspectu inanimum
                quiddam sensuque vacuum se putat cernere, post autem signis certioribus quale sit
                id, de quo dubitaverat, incipit suspicari, <hi rend="i">sic philosophi
                  debnerunt</hi>, si forte eos primus aspectus mundi conturbaverat, postea, quum
                vidissent motus ejus finitos et æquabiles omniaque ratis ordinibus moderata
                immutabilique constantia, intelligere inesse aliquem non solum habitatorem in hac
                cœlesti ac divina domo, sed etiam rectorem et moderatorem et tamquam architectum
                tanti operis tantique muneris. »</quote> — (<hi rend="i">De. Nat.
                Deor</hi>. <num>ii</num>, 36.)</note>. Questa scena <pb n="348" xml:id="p348"
            />inventata e così ben dipinta dall’antico tragico latino, sembra così vera e naturale
            che apparisce più favoloso il racconto storicamente vero della maraviglia dei selvaggi
            dell’America, quando videro avvicinarsi alle loro rive le navi di Colombo.</p>
          <p>Ma di tutte le invenzioni mitologiche di cui fu abbellito il racconto della spedizione
            degli Argonauti, nessuna divenne più popolare di quella del fiero <hi rend="i"
              >carattere</hi> di Medea. I Drammatici Greci e Latini vi trovarono un argomento
            eminentemente <hi rend="i">tragediabile</hi>, per dirlo col vocabolo usato
            dall’Alfieri ; ed anche nel secolo di Augusto sembra che si recitassero frequentemente
            tragedie sui fatti atroci di Medea, poichè Orazio nella <hi rend="i">poetica</hi>
            avverte che nelle tragedie di tale argomento non si deve introdurre Medea ad uccidere i
            figli sulla scena <hi rend="i">(coram populo</hi><note place="bottom"><quote><l> « Nec
                  pueros coram populo Medea trucidet,</l><l>« Aut humana palam coquat exta nefarius
                  Atreus,</l><l>« Aut in avem Progne vertatur, Cadmus in anguem.</l><l>« Quodcumque
                  ostendis mihi sic, incredulus odi. »</l></quote><bibl>(De Arte poet.,
                v. 185.)</bibl></note>. Ha poi lasciato gran desiderio nei letterati la perdita
            della tragedia di Ovidio intitolata <hi rend="i">Medea</hi>, perchè tutti i più celebri
            scrittori latini ne parlano con tante lodi da far credere che fosse <hi rend="i">un capo
              lavoro</hi> dell’arte tragica<note place="bottom"><p><hi rend="sc">Quintiliano</hi>,
                nel lib. <num>viii</num> delle sue <hi rend="i">Istituzioni Oratorie</hi>, nel
                lodare questa tragedia ne riporta un sol verso, che è tanto citato ed analizzato dai
                retori e dai logici, ed è il seguente posto dal poeta sul labbro di
                  Medea :</p><quote><l>« Servare potui, perdere an possim
                rogas ? »</l></quote><p>Nel lib. x poi il retore latino dalle lodi della tragedia
                passando a quelle dell’ Autore, dice : <quote>« Ovidii <hi rend="i">Medea</hi>
                  videtur mihi ostendere, quantum ille vir præstare potuerit, si ingenio suo
                  temperare quam indulgere maluisset. »</quote> — <hi rend="sc">E Ovidio</hi>
                stesso, che per lo più rammenta modestamente altre sue <hi rend="i">Opere</hi>, e di
                talune confessa ancora i difetti, parla poi più volte con gran convinzione e
                sicurezza del suo valore tragico, come, per esempio, nei seguenti
                  versi :</p><quote><l>« Et dedimus tragicis scriptum regale
                  cothurnis ;</l><l>« Quæque gravis debet verba cothurnus
                  habet. »</l></quote><bibl>(<title>Trist.</title> <num>ii</num>,
                  553.)</bibl><quote><l>« Sceptra tamen sumpsi ; curaque Tragœdia
                  nostra</l><l>« Crevit : et huic operi quamlibet aptus
                  eram. »</l></quote><bibl>(<title>Amor.</title> <num>ii</num>,
                  18.)</bibl><quote><l>« Nune habeam per te, Romana tragœdis,
                  nomen ;</l><l>« Implebit leges spiritus iste
                  meas. »</l></quote><bibl>(<title>Ibid.</title> <num>i</num>,
                  1.)</bibl><quote><l>« Altera me sceptro decoras altoque cothurno :</l><l>«  (Jam
                  nunc contacto magnus in ore
                  sonor.) »</l></quote><bibl>(<title>Ibid.</title> <num>i</num>, 1.)</bibl></note> ;
            e tanto più è da lamentare una tal perdita in quanto che nessuna altra tragedia ci resta
            dell’aureo secolo di Augusto.</p>
          <pb n="349" xml:id="p349"/>

          <div3 type="chapter">
            <head type="sur">XLVII</head>
            <head type="main">Origine della Civiltà <lb/>simboleggiata nei miti di Orfeo e di
              Anfione</head>
            <p>La forza del braccio e degli stromenti meccanici inventati dall’uomo può abbatter
              mostri e tiranni, ruinar città, devastare e spopolar territorii, ma non creare la <hi
                rend="i">civiltà</hi>. Questa deriva ed è prodotta soltanto dalla persuasione e
              dalle arti di pace. Quindi la guerra è giustificata soltanto quando non vi è altro
              mezzo per poter vivere in pace e progredire senza ostacoli nel perfezionamento
              economico, morale e politico<note place="bottom">Lo stesso <hi rend="sc">Cicerone</hi>
                scriveva : <hi rend="i">Parandum est bellum, ut in pace vivatur</hi> ; e <hi
                  rend="sc">Tito Livio</hi> : <hi rend="i">Iis bellum est justum, quibus est
                  necessarium</hi>, massima commentata da <hi rend="sc">Machiavelli</hi> ne’suoi <hi
                  rend="i">Discorsi</hi>, e poi nello stesso secolo <num>xvi</num> più estesamente e
                con metodo scientifico dimostrata dal celebre nostro marchigiano <hi rend="sc"
                  >Alberigo Gentile</hi> nel suo trattato <hi rend="i">De Jure Belli</hi> e
                nell’altro <hi rend="i">De Legationibus</hi>, coi quali trattati egli gettò le prime
                basi e delineò il campo del Diritto Internazionale, per cui meritò e merita il
                glorioso titolo di <hi rend="i">Precursore di Grozio</hi>.</note></p>
            <p><pb n="350" xml:id="p350"/><hi rend="i">Civiltà</hi> e <hi rend="i">civile</hi>
              derivano da <hi rend="i">città</hi> e <hi rend="i">cittadino</hi>, e stanno ad
              indicare nel primitivo loro significato il modo di vivere della città, ossia dei
              cittadini ; quindi, secondo questa etimologia e questo primitivo significato, diconsi
                <hi rend="i">guerre civili</hi> quelle tra cittadini della stessa città o dello
              stesso Stato ; le quali guerre son tutt’altro che <hi rend="i">civili</hi> nel senso
              morale, essendo invece le più <hi rend="i">incivili</hi> e immorali di tutte, e segno
              manifesto di decadenza della <hi rend="i">civiltà</hi> ; poichè questa se non è
              accompagnata dalla <hi rend="i">moralità</hi>, non è altro, secondo la frase del
              Romagnosi, che una <hi rend="i">barbarie decorata</hi>. La civiltà infatti com’ebbe
              origine dalla concordia degli uomini a stare uniti per comune vantaggio<note
                place="bottom">« Aliud <hi rend="i">civitas</hi> non est quam concors hominum
                  multitudo. » — (<hi rend="sc">S. August</hi>., <hi rend="i">De Civ. Dei</hi>,
                  <num>i</num>, 15.)</note>, così per la discordia si dissolve e dileguasi<note
                place="bottom">« Concordia parvæ res crescunt, discordia maximæ dilabuntur. » — (<hi
                  rend="sc">Sallust</hi>., <hi rend="i">Jugurth</hi>. x.)</note>. Furon pertanto i
              più grandi benefattori della umanità coloro che primi indussero gli uomini selvaggi ad
              unirsi in sociale consorzio ; e perciò gli antichi li considerarono esseri
              soprannaturali, o figli degli Dei, o ispirati da loro. Tali erano <hi rend="i"
                >Orfeo</hi> ed <hi rend="i">Anfione</hi>, la cui esistenza appartiene ai tempi
              eroici più remoti. Essi sono da annoverarsi tra i <hi rend="i">Semidei</hi>, anzichè
              tra i semplici Eroi, e, secondo il sistema del Vico, altro non sarebbero che caratteri
              poetici dei primi <hi rend="i">civilizzatori</hi> dei popoli.</p>
            <p>Essendo incerto chi di loro due esistesse prima, comincierò da <hi rend="i"
                >Anfione</hi>, del quale è più breve il racconto.</p>
            <p><hi rend="i">Anfione</hi> fu creduto figlio di Giove e di Antiope (o secondo altri di
              Mercurio), e che fosse re di Tebe. Di lui si narra un solo fatto mirabile, che val per
              mille ; e quasi nessun poeta tralascia di accennarlo, e tra questi anche Dante. Dicono
              che <hi rend="i">Anfione</hi> col suon della cetra e col canto facesse scender dal
              monte <hi rend="i">Citerone</hi> i macigni, che per udirlo si disposero in giro <pb
                n="351" xml:id="p351"/>l’uno sopra l’altro intorno a lui, e formarono le mura di
                Tebe<note place="bottom"><quote><l> « Dictus et Amphion, Thebanœ conditor
                    arcis,</l><l>« Saxa movere sono testudinis et voce blanda</l><l>« Ducere quo
                    vellet. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc">Hor</hi>., <title>De Arte
                    poet.</title>, v. 394.)</bibl><quote><l>« <hi rend="i">Saxa Cithœronis</hi>,
                    Thebas agitata per artem</l><l>« Sponte sua in muri membra coisse
                  ferunt. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc">Propert</hi>., <num>iii</num>,
                  2ª.)</bibl></note>. È facile intendere che questa favolosa invenzione significa il
              potere della poesia e della musica sugli animi delle persone più rozze e dure per
              attirarle a un genere di vita più umano e sociale. A questo fine e con questo stesso
              intento invoca <hi rend="sc">Dante</hi> le Muse a dare alla sua poesia una efficacia
              pari a quella di <hi rend="i">Anfione</hi> :</p>
            <quote>
              <l>« Ma quelle donne aiutino il mio verso,</l>
              <l>« <hi rend="i">Che aiutaro Anfione a chiuder Tebe</hi>,</l>
              <l>« Sì che dal fatto il dir non sia diverso. »</l>
            </quote>
            <p>Se quest’ <hi rend="i">Anfione</hi> era quel desso che fu marito di <hi rend="i"
                >Niobe</hi>, come dice Ovidio<note place="bottom"><p><hi rend="sc">Ovidio</hi> nel
                    lib. <num>vi</num> delle <hi rend="i">Metamorfosi</hi> fa dire a <hi rend="i"
                    >Niobe</hi>, tra le altre millanterie, anche queste :</p><quote><l>« Me gentes
                    metuunt Phrygiæ, me regia Cadmi</l><l>« Sub domina est ; <hi rend="i">fidibusque
                      mei commissa mariti</hi></l><l>« <hi rend="i">Mœnia</hi> cum populis a me
                    viroque reguntur. »</l></quote></note>, egli ebbe a provar la più crudele
              sventura domestica, quella cioè di perder tutti i figli per colpa e in punizione della
              superbia di sua moglie (V. il N. XVI).</p>
            <p>Di <hi rend="i">Orfeo</hi> creduto figlio di Apollo e della Musa Calliope si narrano
              innumerevoli maraviglie operate col suono e col canto, e prima e dopo la spedizione
              degli Argonauti, non in terra soltanto, ma pur anco nell’Inferno. Oltre i massi e le
              quercie egli traevasi dietro ad ascoltarlo anche le tigri e i leoni : il che, secondo
              Orazio, significava che ei seppe distogliere gli uomini selvaggi e antropofagi dalle
              stragi e dalla <pb n="352" xml:id="p352"/>vita bestiale e ferina <note place="bottom"
                  ><p>Per non dover ritornare altrove su questo stesso argomento (poichè si
                  tratterebbe di un’epoca meno remota di quella <hi rend="i">eroica)</hi>, parlerò
                  qui brevemente della principal maraviglia che gli Antichi raccontavano di <hi
                    rend="i">Arione</hi>, vissuto sei in sette secoli prima dell’ èra volgare, ossia
                  verso i tempi di Tarquinio Prisco. — Ritornando <hi rend="i">Arione</hi> dalla
                  corte di <hi rend="i">Periandro</hi> re di Corinto, colmo di ricchezze acquistate
                  col canto e col suono, i marinari che lo riconducevano a <hi rend="i">Metimna</hi>
                  sua patria nell’isola di Lesbo, congiurarono di ucciderlo per impadronirsi dei
                  suoi tesori. Egli accortosene, cominciò a cantare e suonare per commuoverli ; ma
                  vedendo mancare l’effetto sperato (perchè l’esecranda fame dell’oro chiude il
                  cuore a tutti i più nobili e delicati sentimenti), si gettò in mare, ove un <hi
                    rend="i">delfino</hi>, attirato dalla dolce armonia, lo salvò portandolo sul
                  dorso sino alla costa del Peloponneso. Di questo fatto mitologico che credevasi
                  accaduto in tempi storici parlano anche Erodoto e Cicerone, non che i poeti : tra
                  i quali <hi rend="sc">Ovidio</hi> lo racconta a lungo nel lib. <num>ii</num> dei
                    <hi rend="i">Fasti</hi>, e chiude la sua narrazione con le lodi del <hi rend="i"
                    >delfino</hi> e col premio che ebbe dagli Dei di esser cangiato nella
                  costellazione che porta quel nome :</p><quote><l>« Dì pia facta vident : astris
                      <hi rend="i">Delphina</hi> recepit</l><l>« Jupiter, et stellas jussit habere
                    novem. »</l></quote><p>Ma invece di sole nove stelle, come ne vedevano gli
                  Antichi ad occhio nudo, se ne vedono diciannove col telescopio.</p></note>. Ma
              questi e simili prodigii furon dai Mitologi attribuiti anche ad altri <hi rend="i"
                >civilizzatori</hi> dei popoli<note place="bottom"><quote><l> « Silvestres homines
                    sacer interpresque Deorum</l><l>« Cædibus et victu fœdo deterruit <hi rend="i"
                      >Orpheus</hi> ;</l><l>« Dictus ob hoc lenire tigres rabidosque
                  leones. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc">Hor</hi>., <title>De Arte poet.</title>,
                  v. 391…..)</bibl></note> : di Orfeo soltanto e non d’altri è propria la gloria di
              avere operato prodigii anche nel regno delle Ombre, ove discese essendo egli in prima
              vita.</p>
            <p>Narrano i poeti, e tra questi più splendidamente di tutti Virgilio, che <hi rend="i"
                >Orfeo</hi> nel giorno stesso destinato alle sue nozze colla Ninfa <hi rend="i"
                >Euridice</hi>, perdè la sua sposa che morì per essere stata morsa in un piede da
              una vipera. La desolazione di Orfeo è indescrivibile : basti il dire che egli osò
              scendere nelle <pb n="353" xml:id="p353"/>Infernali regioni per pregar Plutone e
              Proserpina, creduti inesorabili, a rendergli la sua sposa. E fu tanto potente il suo
              canto accompagnato dal suono della sua cetra, che lo stesso <hi rend="i">Can
                Cerbero</hi> ne rimase ammaliato, e le Furie cessarono di tormentare i dannati per
              ascoltarlo, e Plutone e Proserpina inteneriti gli accordarono la grazia implorata di
              riprender la sua diletta Euridice. Vi aggiunsero per altro una condizione <hi rend="i"
                >(sic erat in fatis)</hi>, che precedendola nel suo ritorno non si voltasse mai a
              guardarla, finchè non fossero giunti alla superficie della terra. Orfeo promise e si
              avviò ; ed Euridice lo seguiva. Ma quando furon vicini allo sbocco dell’Inferno presso
              il promontorio di Tenaro, Orfeo udì del romore, e temendo per Euridice, si voltò a
              mirare ; ed allora Euridice diè un grido di dolore, e gli disse per sempre <hi
                rend="i">addio</hi>. Fu inutile correre per raggiungerla, o tentar nuovamente di
              penetrare nel regno delle Ombre : il Destino vi si opponeva per, la violata condizione
              espressa. Inconsolabile e disperato si ritirò solitario a pianger la perduta Euridice
              sul monte <hi rend="i">Rodope</hi> nella nativa <hi rend="i">Tracia</hi>, e rifiutò
              qualunque nuovo connubio che gli fosse offerto. Il che fu causa della sua fine
              funesta, perchè le Tracie femmine indispettite dei suoi rifiuti, percorrendo nel
              giorno delle feste di Bacco quelle regioni, trovarono Orfeo, e furibonde lo fecero a
              brani. Il capo di lui ruotolando giù per le balze del Rodope cadde nel sottoposto
              fiume <hi rend="i">Ebro</hi> ; ed anche così com’era spiccato dal busto e trasportato
              dalla fiumana ripeteva pur sempre il nome di Euridice. Fu poi raccolto dai Lesbii e
              datogli onorevole sepoltura ; e la sua <hi rend="i">lira</hi> fu presa dalle Muse e
              cangiata in quella costellazione boreale che ne porta tuttora il nome e vedesi
              fregiata di 21 stella.</p>
            <p>Al racconto mitologico di <hi rend="i">Euridice</hi> trovasi sempre congiunto nei
              poeti quello di <hi rend="i">Aristeo</hi>, che fu il primo <hi rend="i"
                >Apicultore</hi> dell’Antichità. Egli era figlio della Ninfa <hi rend="i"
                >Cirene</hi>, e perciò fu da taluni considerato come uno dei Semidei. Ambiva <pb
                n="354" xml:id="p354"/>anch’egli di sposare Euridice, e quando seppe che era stato
              preferito Orfeo, il giorno stesso fissato per le nozze si diede furibondo ad inseguire
              Euridice, che fuggendo per la campagna calpestò una vipera, pel cui morso velenoso
              morì, come abbiam detto di sopra. Le Ninfe per vendicar la morte della loro compagna
              uccisero tutte le api di Aristeo, e così lo privarono delle sue rendite. Nè allora
              esistevano altre api nel mondo ; ed Aristeo non sapendo come riparare a tal perdita,
              consigliato dalla Madre ricorse a <hi rend="i">Proteo</hi>, che dopo i soliti
              sutterfugii di molteplici trasformazioni finalmente gli disse di sacrificar quattro
              giovenche in espiazione della sua colpa, e che lasciandone putrefare le carni, ne
              sorgerebbero nuovi sciami a ripopolare i suoi alveari. Quel che disse il vecchio
              profeta si avverò. Ed ecco una nuova metamorfosi mitologica non mai osservata in
              natura, che cioè i vermi della putredine si cangino in api melliflue. Così bene spesso
              gli Antichi alle leggi naturali della creazione sostituivano i fantasmi della loro
              immaginazione.</p>
          </div3>
          <div3 type="chapter">
            <head type="sur">XLVIII</head>
            <head type="main">Ercole</head>
            <p>Il nome e la forza d’<hi rend="i">Ercole</hi> hanno fama tanto divulgata e generale,
              che non v’è persona che l’ignori : tant’è vero che il volgo dice che è un <hi rend="i"
                >Ercole</hi> chiunque sia dotato di robustezza e forza straordinaria. Ma le imprese
              che si attribuiscono al greco Eroe son tante, perchè tanti furono gli eroi di questo
              nome, e ad un solo Ercole si ascrissero le imprese di tutti.</p>
            <p>Fra i molti Eroi di questo nome (Cicerone ne conta 6 e Varrone 43) fu il più
              fortunato quello <hi rend="i">Tebano</hi>, perchè arricchito delle spoglie di tutti
              gli altri. Egli era figlio di <pb n="355" xml:id="p355"/><hi rend="i">Anfitrione</hi>
              re di Tebe e di <hi rend="i">Alcmena</hi> sua moglie ; ma fu detto che era figlio di
              Giove, per render più credibili, secondo le idee di quei tempi, le sue straordinarie e
              prodigiose gesta. Le quali generalmente si afferma che fossero 12, conosciute sotto il
              nome di <hi rend="i">fatiche d’Ercole</hi>, ed imposte ad esso dal re Euristeo suo
              cugino ; ma però molte altre ancora ne compiè spontaneamente dovunque trovasse da
              uccider mostri o tiranni.</p>
            <p>Ammesso che egli fosse figlio di Giove e di Alcmena v’è da aspettarsi che Giunone lo
              perseguiterà. Infatti si racconta che questa Dea cominciò a perseguitarlo prima che
              egli nascesse. Era scritto nel libro del Fato che regnerebbe in Tebe quello dei due
                <hi rend="i">cugini</hi> (altri dicono <hi rend="i">gemelli</hi>) che prima nascesse
              nella Corte Tebana. Giunone come Dea dei parti fece in modo che nascesse prima
              Euristèo, e perciò Ercole fosse a lui sottoposto. Nato che ei fu ed essendo ancora in
              culla, Giunone gli mandò due grossi serpenti a strangolarlo ; ma il fanciullo, che,
              per quanto dicono i poeti, anche in culla era degno di Giove, strangolò loro. Questo
              fatto divenne tanto famigerato, che anche i pittori, e principalmente gli scultori si
              dilettarono di rappresentare Ercole infante che stringe in ciascuna mano un serpente e
              sta in atto di strangolarli entrambi<note place="bottom"><p>Sebbene Ercole sia
                  celebrato da tutti i più antichi poeti, incominciando da Omero che accenna a
                  cantici e poemi antichissimi in onore di questo Eroe, troviamo per altro in <hi
                    rend="sc">Pindaro</hi> la prima narrazione della favola dei serpenti. Ne
                  riporterò due strofe della prima Ode delle <hi rend="i"
                    >Nemee</hi> :</p><quote><l>« Noto a Giunon superba il divin germe</l><l>« Godea
                    del ciel sereno,</l><l>« E col fratel posava in crocei veli :</l><l>« Ma la <hi
                      rend="i">Saturnia</hi>, lacerato il seno</l><l>« D’aspro gelato
                    verme,</l><l>« Due volanti spedia draghi crudeli,</l><l>« Che ratti entrâr le
                    soglie,</l><l>« Ove del rege partoria la moglie.</l><l>« Avidamente in tortuose
                    spire</l><l>« Stringean l’eccelso figlio,</l><l>« Quand’ ei levossi alla
                    tremenda guerra ;</l><l>« E fatal prova nel primiér periglio</l><l>« Dando
                    l’immenso ardire,</l><l>« Con mano inevitabile n’afferra</l><l>« Gli avidi
                    mostri insani,</l><l>« E strangolati gli divelle in
                  brani. »</l></quote><bibl>(Traduz. del Borghi.)</bibl></note>.Questa insidia di
              Giunone contro un bambino parve troppo atroce e crudele a tutti gli Dei, che le ne
              fecero un rimprovero ; ed essa finse di cangiar l’odio in benevolenza, e per illuder
              meglio, fattosi recare in cielo il piccolo Ercole gli diede del suo proprio latte, che
              però al pargoletto Eroe non piacque e lo lasciò cadere nella volta celeste, ove
              scorgesi tuttora una striscia biancastra, che perciò gli antichi chiamarono <hi
                rend="i">Via lattea</hi> ; la quale invece di esser <pb n="356" xml:id="p356"
              />prodotta dal latte di Giunone è un incommensurabile strato di milioni e milioni di
              stelle. <hi rend="i">Galassia</hi> la chiamavano i Greci in lor linguaggio, che
              significa lo stesso che <hi rend="i">Via lattea</hi> nel nostro ; e col greco nome la
              rammentò <hi rend="sc">Dante</hi> descrivendola nei seguenti versi della <hi rend="i"
                >Divina Commedia</hi> :</p>
            <quote>
              <l>« Come distinta da minori e maggi</l>
              <l>« Lumi biancheggia tra i poli del mondo,</l>
              <l>« <hi rend="i">Galassia</hi> sì, che fa dubbiar ben saggi.</l>
            </quote>
            <p>Ercole può dirsi veramente, secondo il linguaggio del Vico, il carattere poetico
              dell’eroismo greco, avendogli attribuito i Greci tutte le più straordinarie e mirabili
              prove, in premio delle quali acquistossi l’immortalità e un seggio tra gli Dei nel
              Cielo. Il suo nome in greco fu <hi rend="i">Heracles</hi>, che in quella lingua
              significa <hi rend="i">reso illustre da Era</hi>, ossia da Giunone, vale a dire per le
              persecuzioni di questa Dea. I Latini con poca differenza di ortografia lo dissero <hi
                rend="i">Hercules</hi> che noi traduciamo <pb n="357" xml:id="p357"/>per <hi
                rend="i">Ercole</hi>. Chiamavasi anche <hi rend="i">Alcide</hi>, o dall’avo suo <hi
                rend="i">Alceo</hi>, come asserisce Erodoto, o da un greco vocabolo significante <hi
                rend="i">forza</hi> e per traslato <hi rend="i">virtù</hi>, come affermano gli
              etimologisti. La forza che Ercole manifestò sin dalla prima infanzia andò sempre
              talmente crescendo da sembrare indomabile e irresistibile. Quindi si procurò
              d’infrenarla e dirigerla coll’eduzione ; ed Ercole ebbe maestri ed occupazioni non
              solo in ogni genere di esercizii ginnastici e guerreschi, ma pur anco nelle scienze,
              nella poesia e nella musica. E dell’indole sua impetuosa ci tramandarono un tristo
              esempio gli Antichi, il solo che sia a disdoro di quest’eroe, che cioè rimproverato
              dal suo maestro di musica chiamato <hi rend="i">Lino</hi>, gli ruppe la testa colla
              lira <note place="bottom"><p><hi rend="i">Lino</hi> fu creduto figlio di Apollo e
                  della Musa Terpsicore e nato qualche anno prima di Orfeo. I poeti li considerano
                  entrambi, e maestro e discepolo, valentissimi nel suono e nel canto ; ma di Lino
                  non hanno saputo inventare aneddoti maravigliosi. <hi rend="sc">Virgilio</hi>
                  nella celebre <hi rend="i">Egloga</hi>
                  <num>iv</num> li nomina ambedue con egual lode :</p><quote><l>« Non me carminibus
                    vincet nec Thracius Orpheus,</l><l>« Nec Linus ; huic mater quamvis atque huic
                    pater adsit,</l><l>« <hi rend="i">Orphei</hi> Calliopea, <hi rend="i">Lino</hi>
                    formosus Apollo. »</l></quote></note>. Giunto per altro alla pubertà scelse
              spontaneamente la via della <hi rend="i">Virtù</hi>, e si rassegnò al voler del Fato
              di star sottoposto ad <hi rend="i">Euristeo</hi>. A questo tempo della sua vita si
              riferisce il moralissimo racconto di <hi rend="i">Ercole al Bivio</hi>, in cui si
              finge che il giovane eroe, invece di sceglier la via della <hi rend="i">Voluttà</hi>,
              per quanto sembrasse amena e piacevole, ma che induceva all’oblio dei proprii doveri e
              della fama, preferì quella ardua e malagevole della <hi rend="i">Virtù</hi> che guida
              al bene della umanità ed alla gloria.</p>
            <p>Accenneremo prima le 12 imprese impostegli da Euristeo, e conosciute sotto il nome di
                <hi rend="i">fatiche d’Ercole</hi>, e poi le altre non meno celebri da lui
              spontaneamente compiute. Le dispongo in quell’ordine in cui si trovano rammentate da
                <pb n="358" xml:id="p358"/>Ausonio in 12 esametri latini, che riporto in nota<note
                place="bottom"><quote><l> « Prima <hi rend="i">Cleonœi</hi> tolerata ærumna <hi
                      rend="i">Leonis</hi>.</l><l>« Proxima <hi rend="i">Lernœam</hi> ferro et face
                    contudit <hi rend="i">Hydram</hi>.</l><l>« Mox <hi rend="i">Erymantheum</hi> vis
                    tertia perculit <hi rend="i">Aprum</hi>.</l><l>« <hi rend="i">Stymphalidas</hi>
                    pepulit <hi rend="i">volucres</hi> discrimine quinto.</l><l>« <hi rend="i"
                      >Threiciam</hi> sexto spoliavit Amazona <hi rend="i"
                    >balteo</hi>.</l><l>« Septima in <hi rend="i">Augiœ stabulis</hi> impensa
                    laboris.</l><l>« Octava <hi rend="i">expulso</hi> numeratur adorea <hi rend="i"
                      >Tauro</hi>.</l><l>« In <hi rend="i">Diomedeis</hi> victoria nona <hi rend="i"
                      >quadrigis</hi>.</l><l>« <hi rend="i">Geryone extincto</hi> decimam dat Iberia
                    palmam.</l><l>« Undecimo <hi rend="i">mala Hesperidum</hi> destricta
                    triumpho.</l><l>« <hi rend="i">Cerberus</hi> extremi suprema est meta
                    laboris. »</l></quote></note> : il titolo delle medesime ne indica lo scopo,
              cioè : 1ª il Leon Nemeo ; 2ª l’Idra di Lerna ; 3ª il Cinghiale d’Erimanto ; 4ª la
              Cerva di Menalo ; 5ª le Arpie ; 6ª le Amazzoni ; 7ª le stalle di Augia ; 8ª il Toro
              Cretense ; 9ª il tiranno Diomede ; 10ª Gerione ; 11ª gli aurei pomi del giardino delle
              Esperidi ; 12ª il Can Cerbero.</p>
            <div4>
              <head>1ª Fatica : <hi rend="sc">Il Leon Nemeo</hi></head>
              <p>Colla clava, e secondo alcuni Mitologi, soffocandolo tra le sue braccia, uccise
                Ercole il Leone della selva Nemea, e gli tolse l’irsuto vello, che portò sempre in
                dosso per manto e come il suo primo trofeo di gloria. Questi due distintivi, la
                clava e la pelle del leone, oltre la robusta e gigantesca corporatura dell’Eroe
                fanno riconoscere Ercole nelle molte statue che di lui vedonsi ovunque. L’estinto
                  <hi rend="i">Leone</hi>, non si sa per quali suoi meriti, fu cangiato nella
                costellazione che ne porta il nome, ed è uno dei 12 segni del Zodiaco, adorno di 93
                stelle.</p>
            </div4>
            <div4>
              <head>2ª Fatica : L’<hi rend="sc">Idra di Lerna</hi></head>
              <p>La parola <hi rend="i">Idra</hi> derivando da un vocabolo che significa <hi
                  rend="i">acqua</hi> è il nome che davano gli Antichi ai serpenti aquatici. I
                Naturalisti moderni, invece, lo hanno dato ai polipi di <pb n="359" xml:id="p359"
                />acqua dolce, assomigliando forse i microscopici <hi rend="i">tentacoli</hi> di
                questi alle molteplici teste dell’Idra favolosa. Agli Antichi non bastò il dire che
                la loro mitologica <hi rend="i">Idra</hi> fosse insanabilmente velenosa, ma vi
                aggiunsero che avea sette teste, e (maggior maraviglia), che recisa una testa ne
                rinascessero due. Questa Idra avea per soggiorno la palude di <hi rend="i"
                  >Lerna</hi> in Grecia. Quanto fosse difficile e pericolosa impresa l’uccidere un
                tal mostro se ne accorse Ercole quando vide raddoppiarsi all’Idra tutte le teste che
                egli tagliava. Adoprò allora anche il fuoco per ristagnare il sangue che sgorgando
                dalle ferite produceva quel terribile effetto ; e Giunone per impedirgli di compier
                l’impresa gli mandò un enorme <hi rend="i">Cancro</hi> a morderlo nelle gambe,
                affinchè l’Eroe, voltandosi, fosse ferito dall’Idra il cui veleno era letale. Ercole
                fu costretto a chiamare in aiuto il suo servo o amico <hi rend="i">Jolao</hi> che lo
                schermisse dalle offese di uno dei due nemici, in mezzo a cui si trovava : schiacciò
                prima il <hi rend="i">Cancro</hi>, e poi finì di tagliar le teste all’<hi rend="i"
                  >Idra</hi>, e nel sangue di essa tinse le sue freccie che divennero in appresso
                tanto famose anche nei poetici racconti della guerra di Troia. Il <hi rend="i"
                  >Cancro</hi> per questo maligno e sciagurato servigio prestato a Giunone fu
                trasformato nel segno del Zodiaco di tal nome e fregiato di 85 stelle. Anche l’<hi
                  rend="i">Idra</hi> fu trasportata nel firmamento, e dagli Astronomi antichi
                chiamata l’<hi rend="i">Idra femmina</hi>, costellazione boreale adorna di 52
                stelle, la più grande e lucente delle quali fu detta e dicesi ancora <hi rend="i">il
                  cuor dell’Idra</hi>. Gli Astronomi moderni dopo la scoperta dell’America e del
                Capo di Buona Speranza avendo osservate le costellazioni australi non mai viste
                dagli antichi, diedero il nome di <hi rend="i">Idra maschio</hi> ad una di esse
                composta di sole 8 stelle.</p>
            </div4>
            <div4>
              <head>3ª Fatica : <hi rend="sc">Il Cinghiale di Erimanto</hi></head>
              <p>Questo cinghiale uscito dalle selve del monte <hi rend="i">Erimanto</hi> menava
                stragi e devastazioni come il cinghiale di <hi rend="i">Calidonia</hi>. <pb n="360"
                  xml:id="p360"/>Ercole da sè solo compiè una più ardua impresa che ucciderlo,
                perchè lo prese vivo e lo portò ad Euristeo, che soltanto a vederlo ebbe a morir di
                paura.</p>
            </div4>
            <div4>
              <head>4ª Fatica : <hi rend="sc">La Cerva di Mènalo</hi></head>
              <p>Non sarebbe stata una gran fatica se Ercole avesse dovuto uccidere un sì timido
                animale, che abitava sul monte <hi rend="i">Mènalo</hi> in Arcadia ; ma poichè
                questa cerva era sacra a Diana, stimavasi un sacrilegio l’ucciderla ; ed avendo
                inoltre un mirabile distintivo, cioè le <hi rend="i">corna d’oro</hi>, ed alcuni
                aggiungono anche i piedi di bronzo, Euristeo voleva possederla viva ; perciò
                convenne ad Ercole inseguirla per un anno intero, e finalmente la raggiunse in un
                angolo o lingua di terra alla foce del fiume <hi rend="i">Ladone</hi>.</p>
            </div4>
            <div4>
              <head>5ª Fatica : <hi rend="sc">Le Arpie</hi></head>
              <p>Questi mostri furono descritti da noi colle parole di Virgilio e di Dante nel
                parlare della spedizione degli Argonauti, quando raccontammo che Calai e Zete ne
                avevano liberato Fineo. Ma sembra che la fatica d’Ercole, riferibile alle Arpie,
                fosse compiuta prima di quel tempo, poichè in questo fatto le Arpie son chiamate <hi
                  rend="i">uccelli stinfalidi</hi>, dall’abitar che facevano presso il lago <hi
                  rend="i">Stìnfalo</hi> in Arcadia. Ercole le scacciò da quel territorio, ed esse
                fuggirono in Tracia a tormentar Fineo ; discacciate anche di là da Calai e Zete si
                fermarono nelle <hi rend="i">Isole Stròfadi</hi>, come dicemmo, ove poi le trovò
                Enea, come diremo.</p>
            </div4>
            <div4>
              <head>6ª Fatica : <hi rend="sc">Le Amazzoni</hi></head>
              <p>Le Donne antiche eran più fiere delle moderne. Oltre quelle che nell’isola di
                Lenno</p>
              <quote>
                <l>« Tutti li maschi loro a morte dienno, »</l>
              </quote>
              <p>e si costituirono in repubblica, troviamo ora un regno tutto di donne, le quali non
                solo avevano ucciso tutti <hi rend="i">li maschi</hi>
                <pb n="361" xml:id="p361"/><hi rend="i">loro</hi>, come fecero quelle, ma divenute
                abilissime a tirar d’arco, spinsero le loro spedizioni guerresche nell’Asia Minore,
                non che nella Grecia sino all’Attica ed alla Beozia. Furon chiamate le <hi rend="i"
                  >Amazzoni</hi>, del qual nome si danno 5 diverse etimologie ; ma il lettore non si
                spaventi : io riporterò soltanto la più comune e adottata generalmente, che fa
                derivare la parola <hi rend="i">Amazzone</hi> da due vocaboli greci che significano
                  <hi rend="i">senza mammella</hi>, ed allude a quel che raccontano di queste
                guerriere i Mitologi, che cioè per esser più spedite a tirar d’arco, si tagliavano o
                bruciavano da bambine la mammella destra. Abitarono da prima nella Sarmazia presso
                il fiume Tanai (ora il <hi rend="i">Don</hi>,) quindi nella <hi rend="i"
                  >Cappadocia</hi> sul fiume <hi rend="i">Termodonte</hi>.Ad Ercole fu imposto di
                combatter con esse per togliere ad <hi rend="i">Ippolita</hi> loro regina un
                preziosissimo cinto di cui si era invogliata <hi rend="i">Admeta</hi> figlia di
                Euristeo. Coloro che dissero che Ercole oltre a togliere il cinto ad Ippolita la
                uccidesse, non pensarono che questa stessa Amazzone fu data da Ercole in moglie al
                suo amico <hi rend="i">Teseo</hi>, e ne nacque <hi rend="i">Ippolito</hi> tanto
                celebrato dai poeti e specialmente dai tragici antichi e moderni.</p>
              <p>L’esistenza delle <hi rend="i">Amazzoni</hi> è da riporsi tra le favole : non
                ostante era creduta non solo anticamente, ma anche dopo la scoperta dell’America, e
                fu dato il nome di <hi rend="i">fiume delle Amazzoni</hi> al più gran fiume di quel
                nuovo continente e del mondo, perchè si prestò fede al racconto di Orellana compagno
                di Pizzarro, che nel 1540, quand’egli primo vi penetrò, avesse trovato su quelle
                rive una repubblica di Amazzoni<note place="bottom">Il Naturalista <hi rend="sc"
                    >Buffon</hi> diede il nome di <hi rend="i">Amazzoni</hi> ai pappagalli colle
                  estremità delle ali colorate di rosso e di giallo, i quali vivono lungo le rive
                  del fiume delle Amazzoni. In <hi rend="i">Mineralogia</hi> fu chiamata <hi
                    rend="i">Amazzonìte</hi> quella specie di pietra preziosa (feldspato)
                  ordinariamente di colore verdastro o olivastro, che si scava nelle regioni
                  prossime a quel gran fiume.</note>.</p>
              <pb n="362" xml:id="p362"/>
            </div4>
            <div4>
              <head>7ª Fatica : <hi rend="sc">Le Stalle di Augia</hi></head>
              <p><hi rend="i">Augìa</hi> era un re d’<hi rend="i">Elide</hi>, che possedendo tremila
                bovi, (altri dicono trentamila) non aveva mai fatto in dieci anni nettarne le stalle
                che eran vicine alla città. Dal puzzo che ne usciva temevasi una infezione, tanto
                lasciandovi quanto asportandone le immondezze. Ercole trovò un compenso da valenti
                ingegneri : deviò il corso del fiume Alfeo, e ne fece passar la corrente per quelle
                stalle e trasportarne al mare ogni sozzura. Allusivamente a questo fatto mitologico
                dicesi ancora oggidì, come in antico, che <hi rend="i">par la stalla di Augia</hi>
                qualunque abituro ove sia poca nettezza.</p>
            </div4>
            <div4>
              <head>8ª Fatica : <hi rend="sc">Il Toro Cretense</hi></head>
              <p>Dopo che Ercole ebbe ucciso il Leon Nemeo e l’Idra di Lerna, e preso vivo il
                Cinghiale di Erimanto, non dovè sembrargli una straordinaria fatica il liberar Creta
                da un Toro furioso mandato da Nettuno ai danni di quel popolo. Se poi lo prendesse
                vivo o lo uccidesse, <hi rend="i">Mythologi certant, et adhuc sub judice lis
                  est</hi> ; e poco c’importa che sia data la sentenza definitiva.</p>
            </div4>
            <div4>
              <head>9ª Fatica : <hi rend="sc">Il Tiranno Diomede</hi></head>
              <p>Mostri peggiori delle <hi rend="i">fiere crudeli</hi> sono i tiranni ; ed Ercole da
                par suo non li risparmia. Seppe che <hi rend="i">Diomede</hi> re dei Bistonii in
                Tracia pasceva di sangue e di carne umana certi suoi strani cavalli carnivori, ed
                egli andò a far visita a quel tiranno, lo prese gentilmente per la vita e lo diede a
                divorare ai suoi cavalli stessi ; dei quali poi s’impadronì e li regalò ad
                Euristeo.</p>
            </div4>
            <div4>
              <head>10ª Fatica : <hi rend="sc">Gerione</hi></head>
              <p>I tiranni non son mai mancati in qualsivoglia regione del mondo : anche Dante
                diceva,</p>
              <quote>
                <l><pb n="363" xml:id="p363"/>« Che le terre d’Italia tutte piene</l>
                <l>« Son di tiranni, ed un Marcel diventa</l>
                <l>« Ogni villan che parteggiando viene. »</l>
              </quote>
              <p>Ci vorrebbe sempre un Ercole</p>
              <quote>
                <l>« Valente di consiglio e pro’ di mano, »</l>
              </quote>
              <p>come l’antico, a purgarne la Terra.</p>
              <p>Ercole aveva saputo che nella Spagna esisteva un re di statura gigantesca e di
                forma mostruosa, con tre corpi, tre teste e sei ale ; e più mostruoso era l’ animo
                suo crudele che dilettavasi di straziare i popoli, e dar, come Diomede, la carni
                umane in cibo alle sue giovenche. Ercole lo uccise e s’impadronì di tutte le mandre,
                varcando con esse i Pirenei e le Alpi per ritornare in Grecia.</p>
              <p>Di questo viaggio che diede occasione ad altre straordinarie imprese di Ercole, non
                comandate a lui da Euristeo, parleremo fra poco. Qui convien dire che quando egli fu
                giunto allo stretto, che ora dicesi di Gibilterra e allora di <hi rend="i"
                  >Gades</hi>, ivi arrestò il corso delle sue spedizioni dalla parte di ponente, e,
                secondo i Mitologi, pose in questo stretto due colonne coll’ iscrizione : <hi
                  rend="i">Non più oltre</hi>. Fu creduto che fosse questo un avvertimento, che dava
                Ercole ai naviganti, di non avanzarsi nell’Oceano Atlantico. Anche Dante rammenta
                quello stretto con una perifrasi esprimente questo fatto mitologico, facendo dire ad
                Ulisse :</p>
              <quote>
                <l>« Io e’compagni eravam vecchi e tardi,</l>
                <l>« Quando venimmo a quella <hi rend="i">foce stretta</hi>,</l>
                <l>« <hi rend="sc">Ov</hi><hi rend="i">’Ercole</hi> segnò li suoi riguardi,</l>
                <l>« Acciocchè l’uom più oltre non si metta. »</l>
              </quote>
              <p>Perciò poco più oltre, fino al tempo di Colombo, si azzardarono gli uomini ad
                avanzarsi nell’Atlantico ; e l’iscrizione <hi rend="i">Non plus ultra</hi> delle <hi
                  rend="i">colonne d’Ercole</hi> divenne un assioma di <pb n="364" xml:id="p364"
                />cautela e di confine dell’umano ardire. Gli Spagnoli coniarono con questa
                iscrizione posta fra due colonne le loro monete, dette perciò volgarmente <hi
                  rend="i">colonnati</hi>.</p>
              <p>Non deve credersi per altro che le così dette <hi rend="i">colonne d’Ercole</hi>
                fossero fatte come quelle delle monete spagnole o di uno dei quattro o cinque ordini
                dell’architettura, ma erano due montagne sullo stretto di Gibilterra, chiamate <hi
                  rend="i">Abila</hi> e <hi rend="i">Calpe</hi>, la 1ª appartenente all’Affrica, e
                la 2ª all’Europa.</p>
            </div4>
            <div4>
              <head>11ª Fatica : <hi rend="sc">I pomi del giardino delle Esperidi</hi></head>
              <p>Da <hi rend="i">Espero</hi> fratello di Atlante deriva il patronimico di <hi
                  rend="i">Espèridi</hi> che perciò significa le <hi rend="i">figlie di
                Espero</hi> ; le quali erano tre, chiamate <hi rend="i">Egle, Aretusa</hi> ed <hi
                  rend="i">Esperetusa</hi><note place="bottom">I Mitologi dissero che <hi rend="i"
                    >Espero</hi> fu cangiato in quella stella omonima che prima comparisce la sera
                  dalla parte di occidente : dalla qual voce <hi rend="i">Espero</hi> derivò poi la
                  parola <hi rend="i">vesper</hi> in latino e <hi rend="i">vespero</hi> in italiano.
                  Ma questa stella non è veramente altro che il pianeta di Venere. Infatti, troviamo
                  che anche <hi rend="sc">Cicerone</hi> nel lib. <num>ii</num>
                  <hi rend="i">De Nat. Deor</hi>. lasciò scritto : <quote>« Infima est quinque
                    errantium, terræque proxima « stella Veneris, quæ <hi rend="i">phosphoros</hi>
                    græce, latine <hi rend="i">lucifer</hi> dicitur, quum« antegreditur solem, quum
                    subsequitur autem, <hi rend="i">Hesperus</hi>. »</quote> — I Greci chiamavano
                    <hi rend="i">Esperia</hi> l’Italia, perchè vedevano da questa parte la stella
                    <hi rend="i">Espero</hi>, ed <hi rend="i">ultima Esperia</hi> la Spagna, perchè
                  più lontana dalla stessa parte.</note>. Avevano esse nell’Affrica un bel giardino
                con alberi che producevano pomi di solido oro ; ma perchè questi avrebbero allettato
                la cupidigia di molti, eran guardati da un terribil dragone con cento teste pronte
                all’offesa di chi si accostasse. Ercole uccise il dragone, e presi gli aurei pomi,
                li portò ad Euristeo.</p>
            </div4>
            <div4>
              <head>12ª Fatica : <hi rend="sc">Il Can Cerbero</hi></head>
              <p>Questa fatica doveva compiersi nell’Inferno ; ed Ercole vi si accinse ben più
                volentieri che alle altre, perchè trattavasi di liberar l’amico suo Teseo, il quale
                per secondare il <pb n="365" xml:id="p365"/>suo inseparabile Piritoo si unì ad esso
                nella folle impresa di rapir Proserpina. Piritoo fu fatto a brani dal can Cerbero, e
                Teseo fu preso e attaccato a uno scoglio infernale per restarvi eternamente in corpo
                e in anima. Ercole per questa spedizione, oltre la clava, prese una catena e
                incatenò il Cerbero ; e andò quindi a cercar Teseo, lo staccò dallo scoglio e lo
                condusse via con sè. Di più si trascinò dietro il cane infernale fino alla
                superficie della Terra per farlo vedere ad Euristeo, e poi lo lasciò libero che se
                ne ritornasse all’Inferno. I poeti aggiungono che il can Cerbero arrivato all’aria
                aperta sparse sul terreno la sua bava, e da quella ivi nacque la pianta erbacea
                chiamata <hi rend="i">Acònito</hi>, dalle cui foglie estraesi l’<hi rend="i"
                  >aconitìna</hi> che spiega una potente azione velenosa sull’economia animale.
                Dante ci fa supporre che Cerbero trascinato da Ercole tentasse di resistere, e
                puntasse il muso in terra come fanno i cani di questo mondo, quando non voglion
                seguir chi li tira ; ma l’irresistibil forza del braccio d’Ercole lo trascinava suo
                malgrado, facendogli rimaner <hi rend="i">pelato il mento e il gozzo</hi>, secondo
                le parole stesse di Dante<note place="bottom"><quote><l> « Che giova nelle fata dar
                      di cozzo ?</l><l>« <hi rend="i">Cerbero vostro</hi>, se ben vi
                      ricorda,</l><l>« Ne porta ancor pelato il mento e il
                    gozzo. »</l></quote><bibl>(Inf., C. <num>ix</num>, v. 89.)</bibl></note></p>
              <p>Oltre le dodici fatiche impostegli da Euristeo, compì Ercole di proprio moto e di
                spontanea volontà anche altre imprese non meno importanti e celebri, nel percorrere
                le diverse regioni dell’antico continente. Queste imprese spontanee furon chiamate
                dai Greci con una sola parola composta <hi rend="i">parerga</hi>, cioè <hi rend="i"
                  >fatiche di giunta</hi> o di soprappiù ; delle quali converrà almeno accennare le
                più note e famose.</p>
              <p>Combattè Ercole spontaneamente col Libico gigante <hi rend="i">Antéo</hi> figlio di
                Nettuno e della Terra ; e benchè l’Eroe <pb n="366" xml:id="p366"/>Tebano lo
                abbattesse più volte, quegli appena steso sul terreno risorgeva più forte di prima a
                combattere : la madre Terra rendevagli novelle forze. Di che accortosi Ercole, lo
                sollevò per aria e lo soffocò tra le sue braccia.</p>
              <p>Di questa favola dà la seguente spiegazione il <hi rend="sc">Machiavelli</hi> nel
                cap. 12 del lib. <num>ii</num> dei suoi celebri <hi rend="i">Discorsi sulla prima
                  Deca di Tito Livio</hi> : <quote>« Anteo re di Libia assaltato da Ercole Egizio fu
                  insuperabile, mentre che lo aspettò dentro a’confini del suo regno ; ma come e’ se
                  ne discostò per astuzia di Ercole, perdè lo Stato e la vita. E ne deduce questo
                  politico insegnamento, che quando i regni sono armati, come era armata Roma, e
                  come sono i Svizzeri, sono più difficili a vincere quanto più ti appressi a loro ;
                  perchè questi corpi possono avere più forze a resistere ad uno impeto che non
                  possono ad assaltare altrui. »</quote></p>
              <p>Questo <hi rend="i">Anteo è</hi> uno di quei giganti che Dante dice di aver veduto
                nell’Inferno, anzi fu quello stesso che pregato da Virgilio prese colle sue mani i
                due poeti in <hi rend="i">un fascio</hi><note place="bottom"><quote><l> « ……Quegli
                      in fretta</l><l>« Le man distese, e prese il Duca mio,</l><l>« Ond’Ercole
                      senti già grande stretta.</l><l>« Virgilio, quando prender si
                      sentio,</l><l>« Disse a me : Fatti in qua, si ch’io ti prenda :</l><l>« Poi
                      fece sì che <hi rend="i">un fascio era egli ed
                      io</hi>. »</l></quote><bibl>(<title>Inf.</title>, C. <num>xxxi</num>,
                    v. 130)</bibl></note>, e li calò <hi rend="i">lievemente</hi> da una grande
                altezza nel profondo dell’Inferno :</p>
              <quote>
                <l>« Ma lievemente al fondo che divora</l>
                <l>« Lucifero con Giuda ci posò ;</l>
                <l>« Nè sì chinato lì fece dimora,</l>
                <l>« E com’albero in nave si levò. »</l>
              </quote>
              <bibl>(<title>Inf.</title>, <num>xxxi,v</num>. 142.)</bibl>
              <p><pb n="367" xml:id="p367"/>Tra i più famosi masnadieri e assassini che Ercole
                uccise è da rammentarsi principalmente il gigante <hi rend="i">Caco</hi>. È questo
                un vocabolo greco che significa <hi rend="i">cattivo</hi> o <hi rend="i"
                  >malvagio</hi><note place="bottom">Con questo stesso greco vocabolo son composte
                  in italiano le parole <hi rend="i">cacofonia</hi> (cattivo suono) ; <hi rend="i"
                    >cacografia</hi> (cattiva forma di scritto) ; <hi rend="i">cacodèmone</hi>
                  (cattivo genio o spirito) ecc.</note>, e perciò fu dato a questo mostro per
                antonomasia, ad indicare cioè il più gran malvagio che sia mai esistito. I poeti
                dicono che era figlio di Vulcano e che abitava in una caverna del Monte Aventino,
                che egli chiudeva con un macigno e con ordigni di ferro fattigli da suo padre. Di là
                scendeva a rubare ed uccidere ; e il terreno all’ intorno biancheggiava di ossa
                umane delle sue vittime. Giunse Ercole nel piano fra quel monte e il Tevere, con le
                mandre tolte nella Spagna a Gerione, ed ivi le lasciò a pascere per andare a far
                visita al greco <hi rend="i">Evandro</hi> che abitava sul prossimo colle, che poi fu
                detto il <hi rend="i">Palatino</hi>. In questo tempo <hi rend="i">Caco</hi> rubò ad
                Ercole nascostamente (perchè con lui non osava affrontarsi) quattro giovenche ; e le
                tirò a ritroso, ossia per la coda, nella sua caverna, perchè non si avesse indizio
                dalle orme dei piedi verso qual parte fossero andate. Ercole però se ne accorse dai
                muggiti delle giovenche rubate che rispondevano a quelli delle loro compagne ; ed
                aperta a forza la caverna, a colpi di clava uccise <hi rend="i">Caco</hi> che
                inutilmente gettava contro di lui fumo e fiamme dalla bocca e dalle narici. Tutti i
                vicini ne furono talmente contenti, che eressero ad Ercole un’ara appellata <hi
                  rend="i">Massima</hi> ed ivi gli fecero sacrifizii come a un Nume. Questo culto
                per Ercole fu accolto e si conservò in appresso in Roma sino agli ultimi tempi del
                Paganesimo. Tutte le più minute particolarità di tale avvenimento furono a gara
                descritte da Virgilio e da Ovidio ; e Dante che vide <hi rend="i">Caco</hi>
                nell’Inferno lo fa rammentar concisamente da Virgilio stesso :</p>
              <quote>
                <l><pb n="368" xml:id="p368"/>« Lo mio Maestro disse : Quegli è <hi rend="i"
                    >Caco</hi></l>
                <l>« Che sotto il sasso di monte Aventino</l>
                <l>« Di sangue fece spesse volte laco.</l>
                <l>« Non va co’suoi fratei per un cammino,</l>
                <l>« Per lo furar frodolente ch’ei fece</l>
                <l>« Del grande armento, ch’egli ebbe a vicino :</l>
                <l>« Onde cessâr le sue opere biece</l>
                <l>« Sotto la mazza d’Ercole, che forse</l>
                <l>« Glie ne diè cento, e non sentì le diece. »</l>
              </quote>
              <bibl><title>(Inf.</title>, <num>xxv, v</num>. 25.)</bibl>
              <p>Alcuni Mitologi raccontano che Ercole per far riposare Atlante dalla fatica di
                sostenere la volta del Cielo colle spalle, si sottopose a quel peso per un giorno ;
                e suppongono che l’Eroe Tebano fosse già adulto a tempo di Perseo, il quale per
                mezzo della testa di Medusa cangiò Atlante nel monte di tal nome, come dicemmo. Non
                apparisce però da altri fatti o invenzioni della Mitologia che Ercole fosse
                contemporaneo di Perseo.</p>
              <p>Non staremo a narrar la mischia che ebbe Ercole coi <hi rend="i">Centauri</hi>,
                perchè nulla di straordinario vi fu, oltre le ferite e le morti, solito e necessario
                effetto di tutte le risse e di tutte le guerre. Diremo soltanto che i <hi rend="i"
                  >Centauri</hi> erano mezzi cavalli e mezzi uomini ; cavalli dalle estremità dei
                piedi sino al collo ; invece del quale avevano il petto, le braccia e la testa di
                uomo. Così rappresentati posson vedersi in pittura e in scultura ; ed è celebre il
                gruppo di Ercole e del Centauro sotto le loggie dell’Orgagna in Firenze, scultura di
                Gio. Bologna.</p>
              <p>Di altra più tremenda e famosa pugna de’Centauri converrà parlare nella vita di <hi
                  rend="i">Teseo</hi>. Quanto poi alla liberazione di <hi rend="i">Esìone</hi>,
                figlia di Laomedonte re di Troia, dall’esser divorata da un mostro marino, e alla
                vendetta di Ercole perchè non gli furono da quel re spergiuro osservati i patti,
                sarà più a <pb n="369" xml:id="p369"/>proposito ragionare nel racconto dei re di
                Troia. Basti qui l’avere accennate queste imprese che in appresso racconteremo più a
                lungo.</p>
              <p>È tempo ormai che Ercole abbia un poco di riposo dalle sue molteplici e sovrumane
                fatiche, e che noi assistiamo alle nozze di lui, senza trascurar però di notare in
                appresso qualche sua debolezza che in ultimo fu causa della sua morte ; la quale per
                altro egli incontrò con un eroismo pari a quello mostrato in tutto il corso della
                sua vita.</p>
              <p>Sposò da prima <hi rend="i">Mègara</hi> figlia del re Creonte tebano<note
                  place="bottom">Col titolo di <hi rend="i">Mègara móglie di Ercole</hi> esiste in
                  greco un elegantissimo <hi rend="i">Idillio</hi> del poeta Mosco, che fu tradotto
                  squisitamente da quel sommo ingegno del <hi rend="sc">Leopardi</hi>.</note> e
                poscia <hi rend="i">Deianira</hi> figlia di <hi rend="i">Oeneo</hi> re d’Etolia e
                sorella di Meleagro. I Mitologi gli attribuiscono molte altre mogli da lui sposate
                in Grecia, ed anche una in Italia, e questa dicono che fu la figlia di Evandro. Ebbe
                perciò molti figli, che nella Mitologia e nella Storia Greca son tutti compresi
                sotto il nome di <hi rend="i">Eràclidi</hi>, patronimico significante figli e
                discendenti di <hi rend="i">Eracle</hi>, che è il greco nome, come abbiam detto, di
                  <hi rend="i">Ercole</hi>. Ma fra tutte le mogli di lui merita special menzione <hi
                  rend="i">Deia-nira</hi>, perchè per essa Ercole dovè combattere, per essa dovè
                morire.</p>
              <p>Dovè combattere per Deianira col Dio del fiume <hi rend="i">Acheloo</hi>, il più
                gran fiume della Grecia, e perciò da Omero chiamato il re dei fiumi. Questi fu il
                solo pretendente che non cedesse al nome ed alla fama del valore di Ercole, il solo
                che osò cimentarsi con lui in singolar tenzone, fidandosi forse nel privilegio che
                avea di trasformarsi in toro e in serpente. Infatti combattè anche sotto queste due
                forme, oltre che in quella di Nume fluviatile ; ma Ercole avvezzo a strangolar
                serpenti fin dalla culla e poi ad uccider mostri e giganti, vinse con molta facilità
                Acheloo sotto qualunque forma, e <pb n="370" xml:id="p370"/>di più gli ruppe un
                corno, onor della fronte degli Dei dei fiumi ; per ricuperare il quale Acheloo diede
                in cambio il <hi rend="i">cornucopia</hi> a lui donato dalle Ninfe<note
                  place="bottom">Ved. le <hi rend="i">Metamorfosi</hi> di <hi rend="sc"
                  >Ovidio</hi>,lib. <num>ix</num>, dal principio.</note>.</p>
              <p>Ercole vincitore e trionfante sposò lietamente Deianira ; e dopo le feste nuziali
                postosi in via per ritornar colla sposa a Tebe, trovò il fiume <hi rend="i"
                  >Evèno</hi> sì gonfio di acque da non potersi guadare. Sopraggiunto il Centauro
                  <hi rend="i">Nesso</hi> si offrì di passar Deianira all’altra riva sull’equino suo
                dorso ; ma appena l’ebbe in groppa tentò di rapirla correndo in altra direzione.
                Ercole lo raggiunse con una delle sue freccie tinte nel sangue dell’Idra di Lerna ;
                e Nesso sentendosi mortalmente ferito si vendicò col persuader Deianira che quella
                sua veste insanguinata sarebbe un talismano per conservarle l’affetto di suo marito.
                E infatti quella veste o camicia di Nesso fu in ultimo la causa della morte di
                Ercole, come diremo. <hi rend="sc">Dante</hi> ci ricorda questo fatto in due versi e
                mezzo, facendo dire a Virgilio :</p>
              <quote>
                <l>« …………Quegli è <hi rend="i">Nesso</hi></l>
                <l>« Che morì per la bella <hi rend="i">Deianira</hi>,</l>
                <l>« E fe’ di sè la vendetta egli stesso. »</l>
              </quote>
              <p>Ercole dopo qualche tempo ricominciò la sua vita randagia e di avventure, e la Fama
                divulgò che a menomar la gloria delle sue imprese eroiche, avesse avuto la debolezza
                di filare, vestito da donna fra le ancelle di <hi rend="i">Onfale</hi> regina di
                Lidia ; e fu detto inoltre che egli voleva sposare la bella e giovane <hi rend="i"
                  >Jole</hi> figlia di <hi rend="i">Eurito</hi> re dell’Oecalia. Deianira credè
                giunto il momento decisivo di provar l’effetto del talismano di Nesso. Ne fece
                lavare l’insanguinata tunica o camicia, e insieme con altre vesti la mandò al
                marito. Ercole fu trovato dal messaggiero <hi rend="i">Lica</hi> sul monte Oeta
                nella Tessaglia mentre disponevasi a fare un sacrifizio a Giove ; gradì le <pb
                  n="371" xml:id="p371"/>vesti mandate da Deianira e se le indossò ; ma poco dopo
                sentì ardersi le carni da occulto fuoco : il veleno dell’Idra cominciava a fare il
                suo effetto. Tentò l’Eroe di strapparsi di dosso quella tunica, ma era sì aderente
                alla pelle che ne venivano insieme a brani le carni ; e mentre furibondo cercava una
                fonte ove gittarsi, veduto <hi rend="i">Lica</hi> che impaurito erasi nascosto
                dietro una rupe, credè ch’ei fosse reo ; lo afferrò per un piede e roteandolo come
                una fionda lo scagliò tre miglia lontano nel mare, ove fu cangiato in uno scoglio
                che si chiamò e tuttora chiamasi <hi rend="i">Lica</hi>. Ma trovando inefficace ogni
                rimedio, volle morir da forte com’era vissuto, e acceso il rogo preparato per arder
                la vittima, vi si pose sopra come vittima egli stesso, e insieme vi stese il vello
                del Leon Nemeo e la sua clava. Lasciò soltanto le freccie tinte nel sangue dell’Idra
                di Lerna all’amico <hi rend="i">Filottete</hi> che era presente, imponendogli però
                di sotterrarle e di non manifestarne il luogo ad alcuno. Il suo corpo fu ridotto in
                cenere dalle fiamme ; il suo spirito fu accolto in Cielo come <hi rend="i">Indigete
                  Dio</hi>, ed ivi ebbe in moglie <hi rend="i">Ebe</hi> Dea della Gioventù.</p>
              <p>Gli Astronomi antichi diedero il nome di <hi rend="i">Ercole</hi> ad una delle
                costellazioni boreali che è composta di 128 stelle ; e gli Astronomi moderni,
                incominciando da Herschel, dicono che il nostro Sole con tutto il cortèo dei pianeti
                è attratto da forza preponderante verso quella costellazione.</p>
              <p>Le Belle Arti non si sono mai stancate a rappresentarci Ercole sculto, o dipinto, o
                inciso. Basterà rammentare l’Ercole Farnese, scultura greca ; l’<hi rend="i"
                  >Hercules furens</hi>, gruppo di Canova, ove <hi rend="i">Ercole</hi> tenendo
                sospeso <hi rend="i">Lica</hi> per un piede, sta in atto di scagliarlo nel mare, e
                l’Ercole appoggiato alla clava, inciso da Benvenuto Cellini nel sigillo di Cosimo I
                granduca di Toscana.</p>
              <p>I poeti cantarono concordemente inni a quest’Eroe<note place="bottom">Vedasi l’inno
                  che <hi rend="sc">Virgilio</hi> nel lib. <num>viii</num> dell’<hi rend="i"
                    >Eneide</hi> afferma cantato nelle feste di Ercole.</note>, <pb n="372"
                  xml:id="p372"/>e dissero che era stato posto in cielo e nel numero degli Dei</p>
              <quote>
                <l>« Non già perchè figliuol fosse di Giove,</l>
                <l>« Ma per mille che ei fece illustri prove<note place="bottom">Vedasi la canzone
                    di <hi rend="sc">Fulvio Testi</hi>intitolata : <hi rend="i">La virtù più che la
                      nobiltà fa l’uomo ragguardevole</hi>.</note>. »</l>
              </quote>
            </div4>
          </div3>
          <div3 type="chapter">
            <head type="sur">XLIX</head>
            <head type="main">CastoRe e Polluce</head>
            <p>L’ origine mitologica di <hi rend="i">Càstore</hi> e <hi rend="i">Pollùce</hi> è
              delle più strane e incredibili : ciò non ostante, o forse appunto perciò, è delle più
              famigerate presso gli Antichi. Storicamente Castore e Polluce son figli di <hi
                rend="i">Tindaro</hi> re di Sparta e di <hi rend="i">Leda</hi> sua moglie ;
              mitologicamente son figli di Giove, di cui fu detto che comparve a Leda sotto la forma
              di <hi rend="i">Cigno</hi>. Inventata questa trasformazione di Giove in cigno, i
              Mitologi fantasticarono che Leda avesse partorito due <hi rend="i">uova</hi> ; che in
              uno vi fossero <hi rend="i">Polluce</hi> ed <hi rend="i">Elena</hi>, e nell’altro <hi
                rend="i">Castore e Clitennestra</hi>. I più antichi affermarono che Polluce ed
              Elena, nati dallo stesso uovo, eran figli di Giove, e perciò Semidei, mentre Castore e
              Clitennestra, che uscirono dall’altro uovo, eran figli di Tindaro, e perciò semplici
              mortali. Orazio poi asserisce che Castore e Polluce nacquero dall’ uovo stesso<note
                place="bottom">« Castor gaudet equis, <hi rend="i">ovo prognatus eodem</hi>
                  Pugnis. » — (<hi rend="sc">Hor</hi>., <hi rend="i">Epist</hi>.)</note>, senza
              escludere che l’un fratello fosse mortale e l’altro immortale. Quindi allorchè i poeti
              classici li considerano figli di Tindaro li chiamano <hi rend="i">Tindàridi</hi>, e se
              figli di Giove <hi rend="i">Diòscuri</hi>, essendo il vocabolo <hi rend="i">Dios</hi>
              uno dei greci nomi di Giove, sinonimo di <hi rend="i">Zeus</hi>. Nè questa disparità
              di asserzioni dovrà <pb n="373" xml:id="p373"/>recar maraviglia : la finzione e la
              menzogna sono molteplici ; la verità soltanto è una. La storiella dell’<hi rend="i"
                >uovo</hi> divenne tanto popolare che se ne formò il proverbio latino <hi rend="i"
                >ab ovo</hi> per significare <hi rend="i">dalla prima origine</hi>, alludendosi
              all’origine della guerra Troiana, che derivò <hi rend="i">da un uovo</hi>, da quello
              cioè da cui nacque <hi rend="i">la bella Elena</hi>, la quale fu la vera causa di
              quella guerra, come vedremo<note place="bottom"><p><hi rend="sc">Orazio</hi> nella <hi
                    rend="i">Poetica</hi> volendo dar precetti sul modo di ordinare e comporre il
                  poema epico non fa altro che portar l’ esempio del modo tenuto da Omero, del quale
                  egli dice tra le altre cose :</p><quote><l>« Nec reditum Diomedis ab interitu
                    Meleagri,</l><l>« Nec <hi rend="i">gemino</hi> bellum Troianum orditur <hi
                      rend="i">ab ovo</hi> ;</l><l>« Semper ad eventum festinat, et in medias
                    res</l><l>« Non secus ac notas, auditorem rapit ; »</l></quote><bibl>(De Arte
                  poet., v. 146…..)</bibl><p>V’era anche un altro proverbio in latino : <hi rend="i"
                    >ab ovo usque ad mala</hi>, che voleva significare dal principio alla fine ; ma
                  questo proverbio alludeva al principio e alla fine dei pranzi antichi romani, che
                  incominciavano coll’ imbandigione delle uova e finivano colle
              frutta.</p></note>.</p>
            <p><hi rend="i">Castore</hi> e <hi rend="i">Polluce</hi> diedero il più grande e celebre
              esempio di amor fraterno. Erano sempre insieme in tutte le imprese per aiutarsi
              scambievolmente : li abbiamo trovati insieme nella spedizione degli Argonauti, nè mai
              si disgiunsero in qualunque altra occasione sino alla morte di Castore. Divennero
              eccellenti ambedue negli esercizii ginnastici : <hi rend="i">Polluce</hi> nel
              pugilato, e <hi rend="i">Castore</hi> nel domare i cavalli ; perciò eran considerati
              protettori delle palestre e dei giuochi circensi. È lodata in generale la loro abilità
              e valentia in questi esercizii, ma non si narrano molti fatti particolari della loro
              vita nel mondo.</p>
            <p>Oltre la spedizione degli Argonauti a cui presero parte, come dicemmo, si racconta
              che mossero guerra agli Ateniesi per ritogliere ad essi la loro sorella <hi rend="i"
                >Elena</hi> che era stata rapita da <hi rend="i">Teseo</hi> ; ma avendola trovata
              nella città di Afidna con <pb n="374" xml:id="p374"/><hi rend="i">Etra</hi> madre di
              Teseo, le condussero via entrambe senza incontrare verun ostacolo. L’impresa più utile
              che fecero a vantaggio della umanità fu di purgare il mare dai pirati ; quindi i
              Mitologi li considerarono ancora come Dei protettori della navigazione ; e perciò
              Orazio li invoca propizii al suo amico Virgilio che andava per mare nell’Attica.</p>
            <p>Ebbero poi a sostenere un duello coi pretendenti delle spose che avevano scelte. Eran
              queste due sorelle chiamate <hi rend="i">Febèa</hi> ed <hi rend="i">Ilaìra</hi> o <hi
                rend="i">Talaìra</hi>, e che dai parenti erano state promesse a due fratelli <hi
                rend="i">Linceo</hi> ed <hi rend="i">Ida</hi>. L’esito del duello fu questo, che <hi
                rend="i">Linceo</hi> uccise <hi rend="i">Castore</hi>, e che Polluce, per vendicar
              la morte del fratello, uccise l’uccisore di esso. <hi rend="i">Ida</hi> fu poco dopo
              fulminato da Giove. I poeti classici lodano molto quelle due spose per l’affetto
              costante ai loro sposi, e principalmente <hi rend="i">Ilaira</hi> o <hi rend="i"
                >Talaira</hi> che serbò fede sino alla morte all’ombra di Castore. Polluce, per
              ultimo e impareggiabil tratto di amor fraterno, volle anche comunicare la propria
              immortalità all’estinto fratello, e ottenne dagli Dei di star per lui la metà
              dell’anno nel regno delle Ombre, e che egli a vicenda stesse per sei mesi nel
              Cielo.</p>
            <p>Gli Astronomi antichi aggiunsero che questi due affettuosissimi fratelli furon
              cangiati nella costellazione dei <hi rend="i">Gemini</hi>, o <hi rend="i"
              >Gemelli</hi>, che è quel segno del Zodiaco in cui, secondo l’antico linguaggio
              astronomico, entra il sole nel mese di maggio. In questa costellazione si vedono col
              telescopio sino a 85 stelle, ma quasi tutte piccolissime, meno che due di prima
              grandezza, le quali perciò si scorgono benissimo anche ad occhio nudo. Queste furono e
              son chiamate <hi rend="i">Castore</hi> e <hi rend="i">Polluce</hi> ; e quindi ebbe il
              nome di <hi rend="i">Gemelli</hi> l’intera costellazione. Perciò questi due fratelli,
              oltre all’esser rappresentati con cavalli bianchi e con un’asta in mano, si vedono
              spesso, specialmente in pittura, con una stella sopra la fronte. Credevano gli Antichi
              che quando compariva questa costellazione, si rasserenasse il Cielo e cessassero le
              tempeste, come dice <pb n="375" xml:id="p375"/><hi rend="sc">Orazio</hi> nell’Ode 12ª
              del lib. <num>i</num><note place="bottom"><quote><l> « Dicam et Alciden, <hi rend="i"
                      >puerosque Ledœ</hi>,</l><l>« Hunc <hi rend="i">equis</hi>, illum superare <hi
                      rend="i">pugnis</hi></l><l>« Nobilem ; quorum simul alba nautis</l><l>« Stella
                    refulsit,</l><l>« Defluit saxis agitatus humor,</l><l>« Concidunt venti,
                    fugiuntque nubes,</l><l>« Et minax (quod sic voluere) ponto</l><l>« Unda
                    recumbit. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc">Hor</hi>., Od. <num>i</num>,
                  12ª.)</bibl></note> ; ma è probabile che confondessero le stelle di Castore e
              Polluce colle <hi rend="i">stelle di Sant’Elmo</hi> (come le chiamano i marinari),
              fenomeno di luce elettrica che sovente si osserva sulle punte delle antenne e degli
              alberi dei bastimenti dopo la tempesta. Le rammenta anche il <hi rend="sc">Redi</hi>
              nel suo Ditirambo <hi rend="i">Bacco in Toscana</hi> :</p>
            <quote>
              <l>« Allegrezza, allegrezza ! io già rimiro,</l>
              <l>« Per apportar salute al legno infermo,</l>
              <l>« Sull’antenna da prua muoversi in giro</l>
              <l>« <hi rend="i">L’oricrinite stelle di Santermo</hi><note place="bottom">Questo
                  fenomeno elettrico è chiamato il <hi rend="i">fuoco di S. Elmo</hi> anche in
                  fisica e meteorologia ; e si manifesta non solo per mare, ma anco talvolta per
                  terra. In questo stesso anno 1875, il dì 27 febbraio fu osservato <hi rend="i">un
                    fuoco di S. Elmo</hi> a Monte Cassino. Il parafulmine situato sulla cupola della
                  chiesa era illuminato da luce fosforescente, e non la sola punta, ma anche l’ asta
                  ed una parte della catena. Salla punta degli altri 12 parafulmini non si vide
                  nulla. Però è da notare che il parafulmine della cupola si eleva molto al di sopra
                  degli altri. Il fenomeno incominciò alle ore 8 e 45 minuti e finì alle 9 50. La
                  mattina seguente fu osservato che le punte del parafulmine del telegrafo avevano
                  perduto la doratura, e che v’ erano dei segni a <hi rend="i">zig-zag</hi> sulla
                  lamina che comunica col suolo. I contadini delle vicinanze dissero che una mezz’
                  ora prima che incominciasse la bufera, i buoi muggivano tanto da far paura, e
                  tentavano con ogni sforzo di svincolarsi per fuggire. Questo fenomeno del <hi
                    rend="i">fuoco di S. Elmo</hi> è stato osservato in Monte Cassino ora per la
                  prima volta dal 1828 in poi, nel quale anno vi furono messi i parafulmini. Ne ha
                  data un’ esatta descrizione il professor S. Camposeo nella <hi rend="i">Rivista
                    Scientifico-Industriale</hi> del marzo 1875.</note>.</l>
            </quote>
            <p><pb n="376" xml:id="p376"/><hi rend="sc">Dante</hi> parla più volte della
              costellazione dei <hi rend="i">Gemelli</hi> nella <hi rend="i">Divina Commedia</hi>,
              perchè egli nacque nel mese di maggio, e perciò, secondo il linguaggio astrologico,
              era sotto l’influenza di questa costellazione. La rammenta da prima col nome di <hi
                rend="i">Castore</hi> e <hi rend="i">Polluce</hi> nei seguenti versi del Canto il
              del <hi rend="i">Purgatorio</hi> :</p>
            <quote>
              <l>« …..Se Castore e Polluce</l>
              <l>« Fossero in compagnia di quello specchio</l>
              <l>« Che su e giù del suo lume conduce<note place="bottom">Dante chiama <hi rend="i"
                    >specchio</hi> il Sole, considerandolo come un riflesso della luce
                  divina.</note></l>
              <l>« Tu vedresti il Zodiaco rubecchio</l>
              <l>« Ancora all’Orse più stretto rotare,</l>
              <l>« Se non uscisse fuor del cammin vecchio. »</l>
            </quote>
            <p>La chiama poi <hi rend="i">il segno che segue il Tauro</hi>, quando racconta che
              questa fu una delle sue stazioni nell’ascendere al <hi rend="i">Paradiso</hi> :</p>
            <quote>
              <l>« ……………io vidi il <hi rend="i">segno</hi></l>
              <l>« <hi rend="i">Che segue il Tauro</hi>, e fui dentro da esso. »</l>
            </quote>
            <p>Al qual segno o costellazione, rivolge un saluto ed un rendimento di grazie col
              linguaggio astrologico di quei tempi, e intanto ci fa sapere ch’ei nacque nel mese di
              maggio sotto quella costellazione :</p>
            <quote>
              <l>« O glorïose stelle, o lume pregno</l>
              <l>« Di gran virtù, dal quale io riconosco</l>
              <l>« Tutto, qual che si sia, il mio ingegno ;</l>
              <l>« Con voi nasceva, e s’ascondeva vosco</l>
              <l>« Quegli ch’è padre d’ogni mortal vita,</l>
              <l>« Quand’io senti’ da prima l’aer Tosco. »</l>
            </quote>
            <bibl>(<title>Parad.</title>, C. <num>xxii, v</num>. 107…..)</bibl>
            <p><pb n="377" xml:id="p377"/>Finalmente alludendo alla favola che Castore e Polluce
              fossero nati da un uovo partorito da Leda, chiama la costellazione di questi gemelli
              il <hi rend="i">bel nido di Leda</hi> nella seguente terzina del C. <num>xxvii</num>
              del <hi rend="i">Paradiso</hi> :</p>
            <quote>
              <l>« E la virtù che lo sguardo m’indulse,</l>
              <l>« Del <hi rend="i">bel nido di Leda</hi> mi divelse,</l>
              <l>« E nel ciel velocissimo m’impulse. »</l>
            </quote>
          </div3>
          <div3 type="chapter">
            <head type="sur">L</head>
            <head type="main">Minosse re e legislatore dei Cretesi</head>
            <p>Dicemmo nel N° XXX che <hi rend="i">Minosse</hi> era figlio di Giove e di Europa, la
              quale fu rapita da Giove stesso trasformato in toro, e trasportata nell’isola di
              Creta. In quell’isola nacque e crebbe Minosse e divenne ottimo re e sapiente
              legislatore di quel popolo. Nella sua vita pubblica appartiene più alla Storia che
              alla Mitologia ; ed all’opposto nella vita privata, o di famiglia, più alla Mitologia
              che alla Storia. La <hi rend="i">Cronologia greca</hi> fissa l’epoca della sua
              esistenza nei secoli <num>xiv</num> e <num>xiii</num>, avanti l’era volgare. Come re e
              legislatore dei Cretesi è rammentato anche da Cicerone nelle <hi rend="i"
                >Tusculane</hi> e nei libri della <hi rend="i">Repubblica</hi> ; e quasi tutti gli
              scrittori antichi (tranne qualche autore drammatico ateniese), si accordano a dire che
              fu giustissimo ; e perciò si credè che dopo la morte divenisse il primo dei tre
              giudici dell’Inferno pagano. Le sue leggi sono encomiate, non solo perchè regolavano
              equamente i <hi rend="i">diritti del mio e del tuo</hi>, ma perchè erano ancora
              dirette alla educazione della gioventù, imponendo di abituarla alle fatiche affinchè
              divenisse forte e costante, e ad obbedire alle leggi affinchè divenisse morigerata e
              civile.</p>
            <p>Nella vita privata o di famiglia, per altro, egli fu poco fortunato ; ma le sue
              sventure domestiche furon di certo <pb n="378" xml:id="p378"/>magnificate e
              accresciute dai Mitologi, poichè sono stimate favolose dagli storici e dai filosofi
              greci e latini. Ma di queste appunto noi dobbiamo principalmente parlare, trattando di
              Mitologia.</p>
            <p>Minosse prese in moglie <hi rend="i">Pasifae</hi>, una delle figlie del Sole, dalla
              quale ebbe un figlio che fu chiamato <hi rend="i">Androgeo</hi> e due figlie di nome
                <hi rend="i">Arianna</hi> e <hi rend="i">Fedra</hi>. Dipoi i Mitologi aggiunsero,
              che Pasifae, avendo veduto un bel toro bianco ed essendole molto piaciuto, partorì un
              mostro che era mezz’uomo e mezzo toro ; il quale fu chiamato il <hi rend="i"
                >Minotauro</hi>, parola composta dei nomi di <hi rend="i">Minosse</hi> e di <hi
                rend="i">Tauro</hi>, ossia toro<note place="bottom"><p>Alcuni Mitologi inventarono
                  ancora che Dedalo facesse a Pasifae una vacca di legno tanto al naturale che i
                  tori mugghiavano intorno ad essa credendola viva. <hi rend="sc">E Dante</hi>
                  allude a questa invenzione nel Canto <num>xxvi</num> del <hi rend="i"
                    >Purgatorio</hi>, ove dice :</p><quote><l>« …..Nella vacca entrò <hi rend="i"
                      >Pasife</hi> ; »</l></quote><p>e poco più oltre aggiunge :</p><quote><l>« Che
                    s’imbestiò nelle imbestiate schegge ; »</l></quote><p>e nel Canto <num>xii</num>
                  dell’ <hi rend="i">Inferno</hi> parla del Minotauro,</p><quote><l>« Che fu
                    concetto nella falsa vacca. »</l></quote></note>. Di più fu detto che questo
              mostro era carnivoro e pascevasi anche di carne umana. Minosse per allontanarlo dalla
              vista di tutti lo fece chiudere nel labirinto, ove gli erano dati a divorare i
              condannati a morte.</p>
            <p>Era il <hi rend="i">Labirinto</hi> una fabbrica di un gran numero di stanze e anditi
              tortuosi (alcuni dicono tre mila) talmente a bella posta disposti da non poter chi vi
              entrava ritrovar la porta per uscirne. Gli Antichi rammentano quattro <hi rend="i"
                >labirinti</hi> : 1° quello di Egitto, il più grande di tutti ; 2° questo dell’isola
              di Creta fatto a somiglianza di quello, ma molto più piccolo ; 3° il <hi rend="i"
                >labirinto</hi> dei <hi rend="i">Cabiri</hi> nell’isola di Lenno ; e 4° quello di
              Chiusi, attribuito al re Porsena. Quest’ultimo, per gli avanzi che ancor ne restano,
              pare che fosse un <hi rend="i">ipogeo</hi> come le catacombe dei primi Cristiani :
              degli altri 3 è più difficile indovinare <pb n="379" xml:id="p379"/>lo scopo o l’uso.
              Quello di Creta fu costruito per ordine di Minosse da <hi rend="i">Dedalo</hi>,
              ingegnoso architetto e meccanico, il quale costretto ad esulare da Atene sua patria
              erasi rifugiato nella suddetta isola, ov’ebbe in principio liete ed onorifiche
              accoglienze. Ma poscia caduto in disgrazia del re, perchè secondava troppo tutte le
              stravaganze della regina Pasifae, fu chiuso insieme col suo figlio <hi rend="i"
                >Icaro</hi> nel labirinto. Per altro egli trovò il modo di uscirne. Fingendo di
              voler costruire qualche nuovo meccanismo per offrirlo alle figlie del re, si fece dare
              della cera e delle penne, e costruite le ali per sè e pel figlio volò via con esso
              traversando il mare per andar nell’Asia Minore. Aveva prima dato ad Icaro saggi
              avvertimenti di tenersi, volando, in una via di mezzo ; ma il giovinetto li trascurò,
              e per boria fanciullesca essendosi troppo avvicinato al sole, la cera delle sue ali si
              squagliò, e, cadute le penne, cadde anch’egli nell’acqua e rimase annegato in quel
              tratto del mare <hi rend="i">Egeo</hi> che bagna le isole <hi rend="i">Sporadi</hi> e
              la prossima costa dell’Asia Minore : il qual mare dagli antichi fu perciò chiamato <hi
                rend="i">Icario</hi> dal nome di questo incauto giovinetto che vi annegò<note
                place="bottom"><quote><l> « <hi rend="i">Icarus Icariis</hi> nomina fecit
                    aquis. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc">Ovid</hi>.
                  <title>Trist.</title>)</bibl></note>.</p>
            <p>I classici antichi encomiano tanto l’ingegno inventivo di <hi rend="i">Dedalo</hi>,
              che del suo nome formarono un aggettivo che significa <hi rend="i">mirabilmente
                ingegnoso</hi><note place="bottom"><p>Ennio appella <hi rend="i">Dœdalam</hi>
                  Minerva, Lucrezio la Terra e Virgilio la maga Circe. <hi rend="sc">Orazio</hi> poi
                  adopra l’aggettivo <hi rend="i">Dœdalea</hi> nella seguente celebre strofa in lode
                  di Pindaro :</p><quote><l>« Pindarum quisquis studet æmulari</l><l>« Jule, ceratis
                      <hi rend="i">ope Dœdalea</hi></l><l>« Nititur pennis, vitreo
                    daturus</l><l>« Nomina ponto. »</l></quote><bibl>(Od. <num>iv</num>,
                2ª.)</bibl></note>, e diedero questo epiteto anche ad alcune Divinità, non che alle
              più straordinarie opere <pb n="380" xml:id="p380"/>d’arte. Anche l’Ariosto chiamò <hi
                rend="i">Dedalo Architetto</hi> chi costruì il gran palazzo di gemme e d’oro che il
              Duca <hi rend="i">Astolfo</hi> trovò nel mondo della Luna. <hi rend="sc">Dante</hi>
              nel Canto <num>xxix</num> dell’<hi rend="i">Inferno</hi> usò il nome di <hi rend="i"
                >Dedalo</hi> per significar <hi rend="i">volatore</hi>, o uomo volante a somiglianza
              e coll’arte di Dedalo, facendo così dire a <hi rend="i">Capocchio</hi> :</p>
            <quote>
              <l>« Ver è ch’io dissi a lui parlando a giuoco :</l>
              <l>« Io mi saprei levar per l’aere a volo ;</l>
              <l>« E quei che avea vaghezza e senno poco,</l>
              <l>« Volle ch’io gli mostrassi l’arte, e solo</l>
              <l>« <hi rend="i">Perch’io nol feci Dedalo</hi>, mi fece</l>
              <l>« Ardere a tal che l’avea per figliuolo. »</l>
            </quote>
            <p><hi rend="sc">Dante</hi> rammenta anche il volo d’<hi rend="i">Icaro</hi> là dove
              assomiglia la sua paura a quella di questo giovanetto,</p>
            <quote>
              <l>« …..quando <hi rend="i">Icaro misero</hi> le reni</l>
              <l>« Sentì spennar per la scaldata cera</l>
              <l>« Gridando il padre a lui : Mala via tieni<note place="bottom"><quote><l> « Icare !
                      clamabat ; pennas aspexit in undis. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc"
                      >Ovid</hi>., <title>Metam.</title>
                    <num>viii, v</num>. 233.)</bibl><p>La caduta d’Icaro fu dipinta dal <hi
                      rend="sc">Domenichino</hi> in un quadretto che vedesi nella Galleria
                    Farnese.</p></note>. »</l>
            </quote>
            <p>Alcuni Mitologi attribuiscono a Dedalo un grave delitto a cui lo spinse l’invidia,
              quello cioè di aver precipitato dalla fortezza di Atene il suo nipote <hi rend="i"
                >Perdice</hi> che dimostrava con nuove invenzioni ingegnosissime di dover divenire
              eccellente nelle arti stesse di cui gli era stato maestro lo zio. Sin qui potrebbe il
              racconto esser considerato come perfettamente storico ; ma entra nel dominio della
              Mitologia, quando si aggiunge che Minerva protettrice degl’ingegni cangiò quest’<pb
                n="381" xml:id="p381"/>infelice giovinetto in <hi rend="i">pernice</hi>, animale che
              vola <hi rend="i">terra terra</hi>, perchè memore, come dice Ovidio, dell’antica
                caduta<note place="bottom"><p>Lo stesso nome greco di questo giovinetto (<hi
                    rend="i">Perdix</hi>) fu dato anche in latino alla <hi rend="i">pernice</hi>,
                  come noi chiamiamo questo volatile, con piccola alterazione ortografica
                  dell’ablativo latino ; ed altresì il nome francese <hi rend="i">Perdrix</hi>
                  deriva dalla stessa sorgente. — <hi rend="sc">Ovidio</hi> nel lib. <num>viii</num>
                  delle <hi rend="i">Metamorfosi</hi>, colla sua solita facilità di verso e di
                  locuzione, accenna, tra le altre somiglianze che diedero motivo alla
                  trasformazione del giovinetto <hi rend="i">Perdice</hi> in <hi rend="i"
                    >pernice</hi>, anche le seguenti :</p><quote><l>« …… nomen quod et ante
                    remansit.</l><l>« Propter humum volitat, ponitque in sæpibus
                    ova,</l><l>« Antiquique memor, metuit sublimia, casus. »</l></quote></note></p>
            <p>Di <hi rend="i">Minosse</hi> raccontasi ancora che liberò i mari vicini dai pirati ;
              ma questa impresa, frequentemente necessaria a quei tempi, è attribuita anche ad altri
              Eroi, tra i quali ai gemelli Castore e Polluce, come abbiamo già detto. Notabilissima
              per altro è la guerra che Minosse fece agli Ateniesi non tanto per la causa che la
              fece sorgere, quanto e più ancora per gli straordinarii effetti che ne derivarono.</p>
            <p><hi rend="i">Androgeo</hi> figlio di Minosse ed erede del trono era così valente
              negli esercizii della palestra che superava tutti i competitori nei pubblici giuochi
              della Grecia ; perciò fu ucciso per invidia dagli Ateniesi ; e Minosse per vendicare
              la morte del figlio fece loro la guerra, e avendoli vinti impose ad essi un tributo di
              sangue, esigendo cioè che fossero mandati in Creta 7 giovanetti e 7 giovanette
              Ateniesi per servir di cibo al Minotauro ; il qual tributo dovea rinnovarsi ogni 9
              anni finchè il Minotauro vivesse. Per ben due volte gli Ateniesi soddisfecero gemendo
              a questa orribile condizione imposta loro dal vincitore. La terza volta però ne furon
              liberati da <hi rend="i">Teseo</hi> riconosciuto come figlio del loro re <hi rend="i"
                >Egeo</hi>.</p>
            <p>A questo punto cessano i fatti notabili della vita particolare di Minosse, e tutte le
              altre vicende della sua famiglia dipendono dalle gesta di Teseo ; perciò le
              rammenteremo qui appresso nel parlare di quest’Eroe.</p>
            <pb n="382" xml:id="p382"/>
          </div3>
          <div3 type="chapter">
            <head type="sur">LI</head>
            <head type="main">Teseo</head>
            <p>Gli Ateniesi ambirono che il loro Eroe <hi rend="i">Teseo</hi> a cui tanto è
              debitrice l’Attica civiltà ne’suoi primordii, avesse un’aureola di poetica gloria non
              inferiore a quella di Ercole ; e perciò a forza d’invenzioni favolose splendidamente
              narrate dai loro egregii scrittori lo resero famoso non meno dell’Eroe Tebano<note
                place="bottom">A più forte ragione può applicarsi ai fatti mitologici quel che
                afferma <hi rend="sc">Sallustio</hi> dei fatti storici degli Ateniesi :
                  <quote>« Atheniensium res gestæ, sicuti ego existumo, satis amplæ magnificæque
                  fuere ; verum aliquanto minores tamen, quam fama feruntur. Sed quia provenere ibi
                  scriptorum magna ingenia, per terrarum orbem Atheniensium facta pro maximis
                  celebrantur. »</quote> — (<hi rend="i">Catilin</hi>. <num>vii</num>.)</note>. Lo
              stesso Plutarco che è sì credulo e <hi rend="i">miracolaio</hi> ed inserisce nelle sue
              celebri <hi rend="i">Vite degli Uomini illustri</hi> tanti insulsi prodigii, scrivendo
              la vita di <hi rend="i">Teseo</hi> per farne il parallelo con quella di <hi rend="i"
                >Romolo</hi>, si trova molto impacciato a sceverarne il vero dal falso o mitologico.
              Ecco la sua dichiarazione colle sue stesse frasi tradotte dal Pompei : <quote>« Ora mi
                fosse possibile purgare il racconto da quanto v’ha di favoloso e ridurlo a prendere
                aspetto di Storia ! <hi rend="i">Dove però non si possa renderlo in alcun modo
                  credibile, nè voglia farlega alcuna colla probabilità</hi>, mi sarà d’uopo avere
                uditori benigni che accolgano senza rigore ciò che si narra intorno a fatti sì
                antichi. »</quote> E di certo neppur la decima parte di quel che egli narra di <hi
                rend="i">Teseo</hi> è da considerarsi come verità istorica, essendo tutto il
              rimanente da riporsi tra le favole.</p>
            <p>Più volte prima d’ora abbiamo avuto occasione di rammentar questo Eroe : i suoi
              concittadini lo hanno introdotto <pb n="383" xml:id="p383"/>in tutte le più celebri
              imprese di quei tempi, nella caccia del cinghiale di Calidonia, nella spedizione degli
              Argonauti e nella guerra delle Amazzoni in compagnia di Ercole : quindi nacque il
              proverbio : <hi rend="i">Non senza Teseo</hi>, per alludere a qualche persona che
              sempre si trova in tutte le comitive, o <hi rend="i">Comitati</hi>, che prende parte
              in tutte le imprese o <hi rend="i">speculazioni</hi>. Ora siam giunti a dover
              raccontarne per filo e per segno la nascita, la vita, la morte e i pretesi
              miracoli.</p>
            <p>Non bastò agli Ateniesi che Teseo fosse figlio di un loro re, ma dissero che era
              figlio di Nettuno, e così lo fecero appartenere al numero dei Semidei. Per altro poco
              giovò a quest’Eroe l’esser figlio di un Dio, chè anzi, come vedremo in appresso, gli
              nocque. Contenti dalla boria che il loro Eroe fosse di origine divina, non vollero per
              altro minorare la fama delle sue imprese coll’attribuirne il merito ad una special
              protezione soprannaturale.</p>
            <p><hi rend="i">Egeo</hi> re di Atene, figlio di Pandione e nipote di Cecrope, aveva
              sposato <hi rend="i">Etra</hi> figlia di <hi rend="i">Pitteo</hi> re di Trezene nel
              tempo che era ospite in casa di lui ; ma dovendo partir per la guerra, lasciò ad <hi
                rend="i">Etra</hi> una spada che essa dovea consegnare al figlio quando fosse
              adulto ; al qual segnale lo avrebbe riconosciuto per suo. Questo figlio fu chiamato
                <hi rend="i">Teseo</hi> ; il quale nel crescere diede segni manifesti di gran forza
              e coraggio ; e sentendo encomiare le gesta di Ercole n’ebbe invidia, e agognava di
              poterlo imitare. Quando poi egli seppe la sua vera origine ed ebbe la spada lasciata
              dal padre, si mosse tosto per andarlo a trovare. L’avo e la madre avrebber voluto che
              egli andasse ad Atene per mare con viaggio più breve e più sicuro ; ma egli preferì di
              viaggiar per terra desiderando non già di schivare, ma di affrontare i pericoli dei
              masnadieri e dei mostri che infestavano quelle regioni. E qui incominciano i suoi
              fatti eroici ; dei quali accenneremo soltanto i più straordinarii che si distinguono
              per qualche singolarità da quelli degli altri Eroi.</p>
            <p><pb n="384" xml:id="p384"/>Tra i masnadieri coi quali combattè è da rammentarsi
              l’assassino <hi rend="i">Perifete</hi>, che era armato di una clava di rame ; Teseo lo
              uccise, e presa quella clava la portò sempre come il suo primo trofeo, a imitazione di
              quel che fece Ercole della pelle del Leon Nemeo. In Eleusi vinse ed uccise nella lotta
                <hi rend="i">Cercione</hi> che era stimato invincibile. Avanzandosi nell’Attica
              incontrò il masnadiere <hi rend="i">Procuste</hi>, che costringendo i passeggieri a
              prendere ospizio in casa sua, li legava in un letto, e poi se eran più lunghi di
              quello tagliava loro le gambe che sopravanzavano, e se eran più corti li faceva
              giungere alla misura di quel letto tirando e dislocando le loro membra<note
                place="bottom"><p><hi rend="sc">Benedetto Menzini</hi> nella sua <hi rend="i"
                    >Poetica</hi> assomiglia al letto di Procuste il <hi rend="i">Sonetto</hi>,
                  perchè dev’essere di soli quattordici versi, nè più nè meno ; e notando le
                  difficoltà di chiuder bene e senza sforzo un bel concetto poetico in un Sonetto,
                  dissuade dal cimentarvisi chi non sia nato poeta :</p><quote><l>« In questo <hi
                      rend="i">di Procuste orrido letto</hi></l><l>« Chi ti sforza a giacer ? Forse
                    in rovina</l><l>« Andrà Parnaso senza il tuo Sonetto ?</l><l>« Lascia a color
                    che a tanto il Ciel destina</l><l>« L’opra scabrosa ; o per lung’uso ed
                    arte</l><l>« Via più la mano e più l’ingegno affina. »</l></quote></note>. Teseo
              con un colpo di clava liberò la Terra da quel mostro di crudeltà. Preceduto dalla fama
              di questi ed altri mirabili fatti giunse Teseo in Atene, e serbando l’<hi rend="i"
                >incognito</hi> (come ora direbbesi nelle <hi rend="i">gazzette</hi>), ossia senza
              farsi conoscere, aspettava l’occasione che il re Egeo da sè stesso lo riconoscesse per
              figlio.</p>
            <p>Era giunta da qualche tempo alla corte d’Atene la Maga <hi rend="i">Medea</hi>,
              fuggita da Corinto dopo essersi crudelmente vendicata di Giasone, come dicemmo ; ed
              avendo acquistato molta autorità per mezzo delle sue malìe (o vogliam dire raggiri)
              sull’animo del vecchio re <hi rend="i">Egeo</hi>, gli fe’nascere il sospetto che
              quello straniero volesse impadronirsi del regno ; e quindi lo persuase a toglierlo
              insidiosamente di vita avvelenandolo in <pb n="385" xml:id="p385"/>un pranzo. Teseo fu
              invitato a corte ; e nel porsi a mensa avvenne che Egeo vide la spada del giovane
              Eroe, e riconosciutala tosto, gittò a terra tutte le imbandite vivande, ed
              abbracciando Teseo lo dichiarò suo figlio. Medea prestamente fuggì e andò altrove a
              finire oscuramente i suoi giorni.</p>
            <p>Trovò Teseo tutto il regno in iscompiglio ed in lutto, perchè appressavasi il tempo
              di mandar per la terza volta il tributo di sangue a Minosse. Il giovane Eroe, come
              erede del trono, credè suo dovere di liberare il suo popolo da questo vergognoso
              tributo, o morire. Volle esser messo anch’egli (per quanto Egeo vi si opponesse), nel
              numero dei giovani destinati per cibo al <hi rend="i">Minotauro</hi>. La nave che
              portava a Creta queste innocenti vittime aveva in segno di lutto le vele nere. Egeo
              ordinò che al ritorno, se era reduce il figlio, vi si mettessero di color porpureo ad
              annunziargli da lontano la lieta novella e liberarlo quanto prima di pena.</p>
            <p>Giunse la nave a <hi rend="i">Gnosso</hi> capitale dell’isola di Creta il giorno
              avanti i funebri giuochi che Minosse faceva celebrare in onor del suo estinto figlio
                <hi rend="i">Androgeo</hi> ; compiuti i quali, chiudevansi le Ateniesi vittime nel
              labirinto. Teseo chiese ed ottenne di prender parte anch’egli a quei giuochi ; e destò
              ammirazione in tutti gli spettatori col suo avvenente e nobile aspetto, e più per la
              destrezza e il valore con cui superò i più famosi competitori ; e a tutti dispiacque,
              e più che agli altri ad <hi rend="i">Arianna</hi> figlia di Minosse, che quel giovane
              Eroe dovesse sì tosto miseramente perire. Arianna pensò di salvarlo, sperandone in
              premio di esser fatta sua sposa e quindi regina di Atene. Due erano i pericoli di
              morte per chi fosse entrato nel labirinto : quello d’incontrare il Minotauro ed esser
              da lui divorato, e l’altro di morir di fame per non poter ritrovare l’uscita. Dal
              primo, era ben sicura Arianna che Teseo avrebbe saputo difendersi ; provvide dunque al
              secondo con un mezzo semplicissimo a sua disposizione. Diede a Teseo un gomitolo di
              filo, perchè fissandone l’un dei capi <pb n="386" xml:id="p386"/>all’ingresso del
              labirinto, e svolgendolo nell’avanzarsi finchè non avesse incontrato il Minotauro,
              potesse ritrovare, tornando indietro, la porta. L’invenzione di Arianna riuscì
              egregiamente. Teseo dopo avere ucciso il Minotauro, uscito in fretta dal labirinto coi
              giovanetti e colle giovanette Ateniesi, e trovata Arianna che l’aspettava, entrò con
              sì bella e giuliva compagnia nella nave che era pronta a far vela, e si diressero
              tutti insieme verso Atene.</p>
            <p>L’invenzione del filo di Arianna divenne tanto famigerata, che anche nelle lingue
              moderne vi si allude metaforicamente nelle familiari espressioni <hi rend="i">il filo
                delle idee ; il filo del discorso o del ragionamento</hi> e simili. Del Minotauro e
              del filo di Arianna parla anche <hi rend="sc">Dante</hi> nell’<hi rend="i"
                >Inferno</hi>, ove afferma che egli trovò il Minotauro a guardia del 7° cerchio dei
                <hi rend="i">violenti</hi> ; ed al qual mostro, perchè lasciasse loro libero il
              passo, fa dire da Virgilio :</p>
            <quote>
              <l>« ……………….. Forse</l>
              <l>« Tu credi che qui sia ‘l <hi rend="i">Duca d’Atene</hi>,</l>
              <l>« Che su nel mondo la morte ti porse ?</l>
              <l>« Partiti, bestia, chè questi non viene</l>
              <l>« <hi rend="i">Ammaestrato dalla tua sorella</hi>,</l>
              <l>« Ma vassi per veder le vostre pene. »</l>
            </quote>
            <p>Se gli Dei stessi del Paganesimo avevano difetti e vizii, come abbiamo notato più
              volte, non è sperabile di trovar perfetti i Semidei e gli Eroi mitologici. Teseo
              commise un atto di perfidia e di barbarie, da non potersi in modo alcuno scusare,
              contro la troppo semplice e pietosa Arianna, alla quale pur doveva la sua salvezza ;
              ed egli invece l’abbandonò sola nella deserta isola di <hi rend="i">Nasso</hi>.
              Fortunatamente per essa giunse il giorno stesso in quell’isola Bacco, che la fece sua
              sposa, come dicemmo parlando di questo Dio. Intanto Teseo si avanzava per mare senza
              ricordarsi di cangiar le vele alla nave. <hi rend="i">Egeo</hi> che tutti i giorni
              andava sopra una <pb n="387" xml:id="p387"/>altura sporgente in mare per osservar se
              comparivano alla sua vista le desiate vele purpuree, segno convenuto a prenunziargli
              la salvezza del figlio, scorte invece le vele nere, e perciò credendolo estinto, si
              gettò per disperato dolore nelle onde e vi annegò. D’allora in poi dagli Antichi fu
              detto <hi rend="i">Mare Egeo</hi> quello che ora chiamasi l’<hi rend="i"
                >Arcipelago</hi>. La letizia di Teseo nel giunger salvo ad Atene si cangiò subito in
              lutto e in rimorso. Con tal funesto augurio incominciò egli a regnare.</p>
            <p>Molte però furono le opere egregie di lui ; ma non tutto gli andò a seconda, come
              vedremo. E parlando in prima dei più celebri fatti felicemente da lui compiuti,
              rammenteremo che egli prese vivo il cinghiale di Maratona e lo sacrificò ad Apollo ;
              combattè una seconda volta colle <hi rend="i">Amazzoni</hi> colle quali aveva prima
              combattuto in compagnia d’Ercole ; e poi, secondo quel che dice <hi rend="sc"
                >Plutarco</hi>, <quote>« uccise <hi rend="i">Tèrmero</hi> cozzando insieme col
                capo. »</quote> Di questo nuovo genere di duello ad imitazione degli arieti, e
              prescelto in questo caso da <hi rend="i">Teseo</hi>, ci dice il perchè <hi rend="sc"
                >Plutarco</hi> stesso : <quote>« perchè percuotendo <hi rend="i">Tèrmero</hi> col
                capo suo nel capo di coloro co’quali s’incontrava, mandavali a morte ; così pur
                Teseo andò gastigando i ribaldi usando contro di loro quella violenza che essi
                usavano contro degli altri ; onde nel modo stesso col quale ingiustamente operavano,
                  <hi rend="i">fossero giustamente puniti</hi><note place="bottom">Con queste ultime
                  parole sembrerebbe che Plutarco lodasse e dichiarasse più giusta di tutte <hi
                    rend="i">la pena del taglione</hi>. Notino peraltro i giovani studiosi, che
                  sebbene anticamente fosse creduta tale, e sia anche proclamata dalla legge
                  Mosaica, fu poi riconosciuta in molti casi aberrativa ed inapplicabile ; e perciò
                  non trovasi oggidì in nessun Codice dei popoli civili ; tranne la pena di morte in
                  caso di omicidio premeditato.</note>. »</quote></p>
            <p>Alcuni Mitologi asserirono che Teseo uccidesse ancora <hi rend="i">Falàride</hi>
              tiranno di Agrigento in Sicilia. Questo tiranno propose un premio a chi inventasse un
              nuovo e più tormentoso genere di supplizio ; e un tal <hi rend="i">Perillo</hi>
              valente artefice <pb n="388" xml:id="p388"/>ateniese fabbricò un toro di rame in atto
              di mugghiare ; nelle interne cavità del quale dovevasi chiudere il condannato, e poi
              accendendo sotto il toro un gran fuoco e così arroventando a poco a poco il metallo,
              gli urli e gli spasimi di chi v’era dentro tormentato imitassero i muggiti del toro. A
              Falaride piacque l’invenzione, e per provare se faceva effetto vi fece chiuder dentro
              lo stesso inventore <hi rend="i">Perillo. E ciò fu dritto</hi>, come dice Dante, ossia
              fu pena ben meritata dall’iniquo artefice che si fece ministro di crudeltà del più
              efferato tiranno. Ecco come <hi rend="sc">Dante</hi> riferisce questo fatto in una
              similitudine nel Canto <num>xxvii</num> dell’<hi rend="i">Inferno</hi> :</p>
            <quote>
              <l>« Come ‘l bue Cicilian che mugghiò prima</l>
              <l>« Col pianto di colui (e ciò fu dritto),</l>
              <l>« Che l’avea temperato con sua lima,</l>
              <l>« Mugghiava con la voce dell’afflitto,</l>
              <l>« Sì che, con tutto ch’e’fosse di rame,</l>
              <l>« Pure el pareva dal dolor trafitto. »</l>
            </quote>
            <p>Toccò poi al tiranno <hi rend="i">Falaride</hi> a entrar dentro il toro di rame, o
              ciò fosse per opera di Teseo, come dicono alcuni Mitologi, o per sollevazione e
              vendetta popolare, come afferma Cicerone<note place="bottom">« In <hi rend="i"
                  >Phalarim</hi>, cujus est præter ceteros nobilitata crudelitas, universa
                Agrigentinorum multitudo impetum fecit. » — (<hi rend="sc">Cic</hi>., <hi rend="i"
                  >De Off</hi>. <num>ii</num>, 7.)</note>. Il quale parla molte volte di questo toro
              nelle sue opere, e dice fra le altre cose, che essendo conservato in Agrigento come
              una rarità ed opera d’arte antica fu rapito dai Cartaginesi, e dopo la distruzione di
              Cartagine restituito da Scipione agli Agrigentini<note place="bottom">« Aliquot
                sæculis post, P. Scipio bello Punico tertio Carthaginem cepit : qua in victoria,
                convocatis Siculis omnibus….. jubet omnia conquiri : pollicetur sibi magnæ curæ
                fore, ut omnia civitatibus, quæ cujusque fuissent, restituerentur….. in quibus etiam
                ille <hi rend="i">nobilis taurus</hi>, quem crudelissimus omnium tyrannorum <hi
                  rend="i">Phalaris</hi> habuisse dicitur, <hi rend="i">quo vivos supplicii causa
                  demittere homines et subiicere flammam solebat</hi>. » — (<hi rend="sc">Cic</hi>.,
                  <hi rend="i">in Verrem</hi>., <num>iv</num>.)</note>.</p>
            <p>Si raccontano ancora diverse imprese di Teseo compiute in compagnia del suo maggiore
              amico <hi rend="i">Piritoo</hi> ; ed ecco prima di tutto come nacque la loro amicizia.
                <hi rend="i">Piritoo</hi> re dei <hi rend="i">Làpiti</hi>
              <pb n="389" xml:id="p389"/>sentendo tanto encomiar Teseo pel suo valore, e non
              stimandosi inferiore ad esso, lo sfidò a singolar combattimento : ma appena i due
              campioni si furon veduti nacque tra loro una tal simpatia, che, deposte le armi, si
              abbracciarono e divennero i più fidi amici dell’antichità. Senza citare i poeti, dirò
              soltanto che anche Cicerone rammenta Teseo come esempio di vera amicizia.</p>
            <p>Quando <hi rend="i">Piritoo</hi> sposò <hi rend="i">Ippodamia</hi>, s’indovina
              facilmente che Teseo fosse il primo ad essere invitato alla festa nuziale ; e fu utile
              assai la sua presenza e l’opera del suo forte braccio per impedir che all’amico fosse
              tolta la sposa e la vita dai Centauri convitati anch’essi al banchetto di nozze.</p>
            <p>Storicamente i <hi rend="i">Centauri</hi> eran popoli della Tessaglia che primi
              impresero a domare i cavalli e sottoporli ai loro servigii ; e chi per la prima volta
              da lontano li vide cavalcare, credè che uomo e cavallo fossero un solo animale
              mostruoso composto di queste due forme o nature<note place="bottom"><quote><l> « ………….
                    al petto</l><l>« Ove le due <hi rend="i">nature</hi> son
                  consorti. »</l></quote><p>dice <hi rend="sc">Dante</hi> nel Canto <num>xii</num>
                    dell’<hi rend="i">Inferno</hi>, parlando della figura dei Centauri.</p></note>.
              Mitologicamente poi non solo fu detto che i <hi rend="i">Centauri</hi> erano mezzi
              uomini e mezzi cavalli, ma si aggiunse che eran nati dalle <hi rend="i">Nuvole</hi> ;
              e per quanto sia strana questa invenzione, anche <hi rend="sc">Dante</hi> la riporta
              nella <hi rend="i">Divina Commedia</hi>, e trova il modo di farla rammentare nel <hi
                rend="i">Purgatorio</hi> in questi versi :</p>
            <quote>
              <l>« Sì tra le frasche non so chi diceva :</l>
              <l><pb n="390" xml:id="p390"/>« Ricordivi, dicea, de’maladetti</l>
              <l>« <hi rend="i">Ne’nuvoli formati, che satolli</hi></l>
              <l>« <hi rend="i">Teseo combattêr co’doppi petti</hi>. »</l>
            </quote>
            <p>I principali di essi invitati alle nozze di <hi rend="i">Piritoo</hi>, quando furono
              al termine del pranzo, essendo riscaldati dal vino, manifestarono la loro natura più
              bestiale che umana, tentando di rapire la sposa ed altre donne convitate : onde che
              nacque una tal mischia così terribile e sanguinosa, che quasi tutti i poeti (tra
              questi anche Dante come abbiam veduto) o la descrivono o almeno vi alludono<note
                place="bottom"><p><hi rend="sc">Orazio</hi> nell’<hi rend="i">Ode</hi> 18ª del
                    lib. <num>i</num>, consigliando i suoi amici a non ber mai troppo, e
                  specialmente nei geniali conviti, rammenta loro questa funesta pugna dei Centauri
                  eccitata dal vino :</p><quote><l>« At ne quis <hi rend="i">modici</hi> transiliat
                    munera <hi rend="i">Liberi</hi>,</l><l>« <hi rend="i">Centhaurea</hi> monet <hi
                      rend="i">cum Lapithis rixa</hi> super
                mero</l><l>« Debellata. »</l></quote></note>. Se non v’era Teseo che facesse
              prodigii di valore, la vittoria restava ai Centauri ; i quali invece rimasero quasi
              tutti o uccisi o feriti<note place="bottom"><hi rend="sc">Ovidio</hi> ha descritto
                molto a lungo questa pugna nel lib. <num>xii</num> delle <hi rend="i"
                  >Metamorfosi</hi>, e la fa raccontare al vecchio <hi rend="i">Nestore</hi> che vi
                si era ritrovato presente e vi avea preso parte.</note>. Non v’era però fra questi
              il Centauro <hi rend="i">Chirone</hi>, che fu il più umano e il più sapiente e dotto,
              non solo fra i Centauri (il che non sarebbe un gran vanto) ma fra tutti gli antichi
              Eroi ; e di lui dovremo parlare particolarmente altrove.</p>
            <p><hi rend="sc">Dante</hi> ha posto nell’<hi rend="i">Inferno</hi></p>
            <quote>
              <l>« ….. i Centauri armati di saette</l>
              <l>« Come solean nel mondo andare a caccia, »</l>
            </quote>
            <p>a saettar colaggiù i <hi rend="i">violenti</hi> (tiranni ed assassini) immersi <hi
                rend="i">per pena</hi> nella <hi rend="i">riviera del sangue</hi> :</p>
            <quote>
              <l>« Dintorno al fosso vanno a mille a mille</l>
              <l>« Saettando qual’anima si svelle</l>
              <l>« Del sangue più che sua colpa sortille. »</l>
            </quote>
            <p><pb n="391" xml:id="p391"/>Anche nelle Belle Arti furono rappresentati i Centuari
              secondo le descrizioni mitologiche ; ed uno dei più celebrati è quello di Giovan
              Bologna sotto le Loggie dell’Orgagna in Firenze.</p>
            <p>Tralasciando di parlare di altri fatti che nulla hanno di straordinario o singolare,
              la maggior prova d’impareggiabile amicizia fra Teseo e Piritoo si trova nell’essersi
              aiutati scambievolmente nelle più strane e perigliose imprese che o all’uno o
              all’altro venisse in idea di tentare. E la più strana davvero e la più pericolosa fu
              quella di Piritoo di andare all’Inferno per rapir Proserpina moglie di Plutone ; e
              Teseo ciecamente lo secondò. Ma, come dicemmo parlando di Ercole, Piritoo fu lacerato
              dal Can <hi rend="i">Cerbero</hi>, e Teseo dovè soltanto ad Ercole la sua liberazione
                dall’Inferno<note place="bottom"><p><hi rend="sc">Virgilio</hi> peraltro asserisce
                  nel lib. <num>vi</num> dell’<hi rend="i">Eneide</hi> che Teseo non fu liberato, e
                  che resterà eternamente nell’Inferno :</p><quote><l>« ……. Sedet æternumque
                    sedebit</l><l>« <hi rend="i">Infelix Theseus</hi>. »</l></quote></note>.</p>
            <p>Restano ora da raccontarsi soltanto le vicende domestiche di Teseo e la sua morte. Da
              prima aveva sposato <hi rend="i">Ippolita</hi> regina delle Amazzoni a lui concessa da
              Ercole per averlo aiutato in quella guerra. Da <hi rend="i">Ippolita</hi> (secondo
              alcuni chiamata <hi rend="i">Antiope</hi>) gli era nato un figlio a cui diede il nome
              di <hi rend="i">Ippolito</hi>. Dipoi rapì la bella <hi rend="i">Elena</hi>, ma gli fu
              ritolta da Castore e Polluce, come dicemmo. In appresso sposò <hi rend="i">Fedra</hi>,
              sorella di <hi rend="i">Arianna</hi>, da lui abbandonata nell’isola di Nasso : e qui
              non si sa intendere come Fedra, dopo quel che era accaduto alla sorella, non
              sospettasse della fede di Teseo. Ma, sposatolo, fu essa a lui causa di gravissimo
              lutto. Essendo già adulto <hi rend="i">Ippolito</hi>, parve da prima che <hi rend="i"
                >Fedra</hi>, deposto il <hi rend="i">madrignal talento</hi>, come direbbe l’Alfieri,
              lo vedesse di buon occhio ; ma poi sembrandole altero e scortese, cangiata in odio e
              femminile stizza la benevolenza, lo calunniò con tal <pb n="392" xml:id="p392"
              />sopraffina malignità, che Teseo divenne crudele contro il proprio figlio ; e per non
              farsene micidiale egli stesso, ottenne da Nettuno (creduto suo padre) che punisse
              Ippolito. Lo stesso <hi rend="sc">Cicerone</hi> riferisce questa favola colle seguenti
              parole : <quote>« Nettuno aveva promesso a Teseo di appagare tre suoi desiderii :
                desiderò Teseo irato la morte del figlio, ed avendola impetrata, cadde in gravissimo
                lutto. »</quote> Il che dice il romano oratore per dimostrare che non debbonsi
              mantener le promesse quando le cose dimandate sono dannose a chi le richiede<note
                place="bottom"><p><quote>« Potest autem accidere promissum aliquod et conventum, ut
                    id effici sit inutile, vel ei, cui promissum sit, vel ei, qui promiserit. Nam
                    si, ut in fabulis est, <hi rend="i">Neptunus</hi> quod <hi rend="i">Theseo</hi>
                    promiserat non fecisset, Theseus <hi rend="i">Hippolyto filio</hi> non esset
                    orbatus. Ex tribus enim optatis, ut scribitur, hoc erat tertium, quod de
                    Hippolyti interitu iratus optavit : quo impetrato in maximos luctus
                    incidit. »</quote> — (<hi rend="sc">Cic</hi>., <hi rend="i">De
                    Off</hi>. <num>i</num>, 10.)</p><p><hi rend="sc">Dante</hi> applica questa
                  stessa distinzione anche ai <hi rend="i">voti imprudenti</hi>, e fa così dire a
                  Beatrice nel Canto <num>v</num> del <hi rend="i"
                    >Paradiso</hi> :</p><quote><l>« Non prendano i mortali il <hi rend="i">vóto</hi>
                    a ciancia :</l><l>« Siate fedeli, <hi rend="i">ed a ciò far non bieci</hi> (non
                    inconsiderati)</l><l>« Come fu Jefte alla sua prima mancia ;</l><l>« Cui più si
                    convenia dicer : Mal feci,</l><l>« <hi rend="i">Che, servando, far peggio</hi> ;
                    e così stolto</l><l>Ritrovar puoi lo gran duca de’Greci,</l><l>Onde pianse
                    Ifigenia il suo bel volto ; ecc. »</l></quote></note>. Il modo che tenne Nettuno
              per appagar Teseo si fu di far comparire all’improvviso un mostro marino nel tempo che
              Ippolito in cocchio passava lungo la spiaggia del mare ; per la qual vista spaventati
              i suoi cavalli lo trascinarono furiosamente tra gli scogli ove miseramente perì. Altri
              Mitologi aggiungono che Ippolito fu risuscitato da Esculapio e trasportato da Diana in
              Italia, ove si chiamò <hi rend="i">Virbio</hi> (quasi <hi rend="i">bis vir) due volte
                uomo</hi><note place="bottom"><p><hi rend="sc">Dante</hi> ammette che Ippolito fosse
                  costretto a partir d’Atene per le calunnie della sua matrigna Fedra ; ed egli
                  facendosi predire il suo esilio, assomiglia sè stesso all’innocente figlio di
                  Teseo. La predizione è posta sulle labbra del suo trisavolo Cacciaguida nel Canto
                    <num>xvii</num> del <hi rend="i">Paradiso</hi> :</p><quote><l>« Qual si partì
                      <hi rend="i">Ippolito d’Atene</hi></l><l>« Per la spietata e perfida
                    noverca,</l><l>« Tal di Fiorenza partir ti conviene. »</l></quote></note>. Teseo
              però <pb n="393" xml:id="p393"/>nulla ne seppe, e scoperta la frode della moglie,
              rimase doppiamente afflitto. Fedra stessa, agitata dai rimorsi, si diede la morte. È
              questo il soggetto della celebre tragedia di <hi rend="sc">Racine</hi>, intitolata <hi
                rend="i">Fedra</hi>.</p>
            <p>Anche Teseo finì miseramente i suoi giorni ; in lui già avanzato negli anni si avverò
              la favola del <hi rend="i">Leone vecchio</hi> ; poichè discacciato dal regno da <hi
                rend="i">Menesteo</hi>, si ritirò alla corte di <hi rend="i">Licomede</hi> re di
              Sciro, ed ivi fu ucciso o col ferro, o coll’esser precipitato da un’altura in un
              baratro. La sua morte rimase per lungo tempo ignota, o fu udita con indifferenza. In
              Atene per altro dopo la morte dell’invasore Menesteo, i figli di Teseo, tra i quali il
              più noto chiamavasi <hi rend="i">Demofoonte</hi>, ricuperarono il regno paterno. Ci
              vollero per altro miracoli e risposte di Oracoli per eccitare il popolo a ricercar le
              ossa di Teseo e riportarle con onore ad Atene. E allora, come dice Plutarco,
                <quote>« gli Ateniesi pieni di allegrezza le ricevettero con splendida pompa e con
                sacrifizi, come se stato fosse Teseo medesimo che ritornasse. »</quote> Ogni anno
              poi facevangli un <hi rend="i">grandissimo sacrificio</hi> nel giorno stesso in cui
              egli era ritornato da Creta coi giovani liberati dal Minotauro ; <hi rend="i">ed
                inoltre l’onoravano agli otto pure di ogni altro mese</hi>.</p>
          </div3>
          <div3 type="chapter">
            <head type="sur">LII</head>
            <head type="main">Atrocità Tebane</head>
            <p>La città di <hi rend="i">Tebe</hi> per fatti storici straordinari è meno rammentata
              di Atene e di Sparta, ma per racconti mitologici non cede il primato a nessun’altra
              città della Grecia. <pb n="394" xml:id="p394"/>Parlando di Cadmo dicemmo della origine
              mirabilissima di Tebe, di cui altra non havvene che sia più maravigliosa : sappiamo
              inoltre che da madre Tebana nacque <hi rend="i">Bacco</hi> ; di sangue Tebano furono
              la Dea <hi rend="i">Leucotoe</hi> e il Dio <hi rend="i">Palemone</hi> ; di Atamante re
              di Tebe era l’<hi rend="i">ariete col vello d’oro</hi> ; Tebano fu <hi rend="i"
                >Ercole</hi>, il più forte e il più famigerato degli antichi Eroi. Ora sono da
              raccontarsi atroci fatti della corte Tebana, <hi rend="i">fiera materia di
                ragionare</hi>, come direbbe il Certaldese.</p>
            <p>Fra i successori di Cadmo, circa due secoli dopo la fondazione di Tebe, troviamo
              nella Cronologia Greca <hi rend="i">Laio II</hi> ; e della vita di questo re
              raccontansi soltanto due fatti : il primo, che egli avendo saputo dall’Oracolo di
              dover essere ucciso dal figlio di cui era incinta <hi rend="i">Giocasta</hi> sua
              moglie, diede ordine di farlo perire appena nato ; il secondo, che non ostante non
              potè sfuggire il suo destino, e fu ucciso dal figlio miracolosamente salvato. Ed ecco
              in qual modo : Nato appena il figlio, invece di essere ucciso immediatamente nella
              reggia, fu esposto in un lontano bosco, perchè lo divorassero le fiere, ed appeso per
              un piede a un ramo d’albero. Ma invece di una fiera crudele passò prima di là un
              pietoso pastore, che lo prese e lo portò alla sua capanna e lo tenne come suo figlio,
              chiamandolo <hi rend="i">Edipo</hi>, che significa <hi rend="i">piede gonfio</hi>,
              perchè aveva enfiato il piede pel quale fu sospeso all’albero. Cresciuto Edipo si
              accorse o seppe che il pastor <hi rend="i">Forba</hi> (o secondo altri <hi rend="i"
                >Polibo</hi>) non era suo padre, e andò a interrogare intorno ai suoi genitori
              l’Oracolo di Delfo ; il quale gli rispose di non cercarne, perchè avrebbe ucciso il
              padre e sposata la madre. Ma egli non potendo tollerare un’umile ed oscura condizione
              di vita, si diè a percorrer la Grecia in cerca di avventure, e incontratosi in <hi
                rend="i">Laio</hi> in una strada stretta di una solinga campagna venne a questione
              col cocchiere di lui e lo uccise : e poichè <hi rend="i">Laio</hi> voleva difendere o
              vendicare il cocchiere, Edipo uccise anch’esso senza conoscer chi fosse. Così
              avverossi nella prima parte la risposta <pb n="395" xml:id="p395"/>dell’Oracolo. E fin
              qui i fatti narrati potrebbero anche ammettersi come istorici ; ma quanto
              all’avverarsi della seconda parte della risposta dell’Oracolo, gli avvenimenti si
              complicano, e vi predomina l’invenzione mitologica.</p>
            <p><hi rend="i">Creonte</hi> fratello di <hi rend="i">Giocasta</hi>, dopo la morte di
                <hi rend="i">Laio</hi> prese le redini del regno ; e poichè in quel tempo infestava
              le vicinanze di Tebe un mostro chiamato la <hi rend="i">Sfinge</hi>, che aveva ucciso
              molte persone e sbigottito tutti, fu promesso con pubblico editto a chi liberasse da
              quel mostro il paese, la mano della regina vedova, e per conseguenza il possesso del
              regno, poichè non v’erano figli eredi del trono.</p>
            <p>La <hi rend="i">Sfinge</hi> era un mostro col capo e le zampe di leone alato, e col
              petto e la testa di donna. Essa fermava i passeggieri e proponeva loro un enigma ; e
              se non lo indovinavano li strangolava ; il nome stesso di <hi rend="i">Sfinge</hi> che
              le fu dato dai Greci significa <hi rend="i">Strangolatrice</hi>. Era però voler del
              destino che se qualcuno indovinasse il suo enigma, sarebbe toccato ad essa a morire.
              Edipo passò di là, e la Sfinge lo fermò e gli diede a indovinar quest’enigma : <hi
                rend="i">Qual è quell’animale che la mattina va con quattro piedi, a mezzogiorno con
                due, e la sera con tre</hi> ? Edipo rispose : <hi rend="i">l’uomo</hi> ; e ne diede
              la spiegazione che il nostro poeta <hi rend="sc">Berni</hi> ha messa in versi :</p>
            <quote>
              <l>« ………… L’umana creatura</l>
              <l>« Prima con quattro piè comincia andare ;</l>
              <l>« E poi con due, quando non va carpone ;</l>
              <l>« Tre n’ha poi vecchio, contando il bastone. »</l>
            </quote>
            <p>La Sfinge, com’era suo fato, si precipitò dalla rupe del monte Citerone, e morì.
              Edipo, essendosi guadagnato il promesso premio, sposò Giocasta e fu proclamato re di
              Tebe. Gli nacquero in appresso due figli che furono chiamati <hi rend="i">Eteocle</hi>
              e <hi rend="i">Polinice</hi>, e due figlie <hi rend="i">Antigone</hi> ed <hi rend="i"
                >Ismene</hi>.</p>
            <p>Dopo qualche anno, una fiera pestilenza devastava il regno ; e dall’Oracolo fu
              risposto che per farla cessare <pb n="396" xml:id="p396"/>conveniva bandire dallo
              Stato l’uccisore di Laio. Edipo si diè premura di farne le più minute investigazioni ;
              e dalle <hi rend="i">circostanze</hi> del tempo e del luogo in cui fu ucciso Laio,
              come pure dai <hi rend="i">connotati</hi> della persona dell’estinto scuoprì che ne
              era stato egli stesso l’uccisore ; e inoltre riandando le memorie della sua infanzia e
              confrontando le relazioni del pastor Forba e quelle del servo che aveva esposto nel
              bosco il regio infante, comprese che egli era figlio di Laio e parricida, e che
              Giocasta era sua madre. Allora inorridito di questo suo perverso destino, esclamò,
              come dice <hi rend="sc">Sofocle</hi> : <hi rend="i">0 Sole, io t’ho veduto per
                l’ultima volta</hi> ! e si acciecò ; e lasciato il regno ai suoi figli perchè
              alternativamente lo governassero un anno a vicenda, andò ramingando per la Grecia,
              accompagnato e condotto dalla pietosa sua figlia Antigone ; e Giocasta si diede la
              morte.</p>
            <p>I tristi casi di Edipo furono il soggetto di molte tragedie ; ed ogni scrittore li
              modificò o alterò secondo la sua fantasia e lo scenico effetto che ne sperava : tutti
              però si accordano nel dire che egli morì lungi da Tebe di disagio e di cordoglio.</p>
            <p>Intanto <hi rend="i">Eteocle</hi> come primogenito incominciò a regnare in Tebe, e
              dimostrò subito indole da despota e non da re che dopo un anno doveva diventar
              suddito ; quindi inventò pretesti per altercare col fratello e negargli alla fin
              dell’anno il possesso del trono. <hi rend="i">Polinice</hi> si trovò costretto ad
              esulare, e ricoveratosi alla corte di <hi rend="i">Adrasto</hi> re degli Argiesi ne
              sposò la figlia <hi rend="i">Argia</hi>, e così impegnò anche di più quel re, divenuto
              suo suocero, ad aiutarlo a ricuperare il regno. La guerra che ne seguì fu detta dei
                <hi rend="i">sette Prodi</hi>, perchè sette furono i valorosi capi o generali di
              questa guerra, cioè : <hi rend="i">Adrasto, Polinice, Tideo, Capaneo, Ippomedonte,
                Anfiarao</hi> e <hi rend="i">Partenopeo</hi>. Ma poichè i fatti d’arme di questa
              guerra, per quanto sanguinosi e strenui, non produssero l’effetto ultimo desiderato, e
              tutto terminò con un duello tra i due fratelli, ci <pb n="397" xml:id="p397"
              />affretteremo a parlar di questo, tacendo delle inutili stragi che lo precedettero, e
              riserbandoci in ultimo a dar notizia soltanto delle gesta e della fine di questi
              prodi.</p>
            <p><hi rend="i">Eteocle</hi>, quantunque non ignorasse questo apparato di guerra, non
              volle prestare orecchio a nessuna transazione o accordo ; e istigato dallo zio <hi
                rend="i">Creonte</hi>, che sperava di profittare della discordia dei nipoti per
              impadronirsi del regno, si preparò anch’egli alla guerra ; e dopo molte battaglie
              combattute sotto le mura di Tebe, restando sempre indecisa la sorte delle armi,
              consentì ad accettare un duello definitivo, o, come suol dirsi, all’ultimo sangue, con
                <hi rend="i">Polinice</hi>. Eteocle cadde mortalmente ferito : e in quegli ultimi
              istanti di vita fingendo di volersi riconciliare col fratello, ma furente in cuor suo
              di lasciarlo in vita vincitore e re, chiese di abbracciarlo per l’ultima volta ; e,
              raccolte tutte le sue forze, con un pugnale, che portava sempre nascosto fra le vesti,
              uccise proditoriamente Polinice, e vedendolo morto prima di lui, con questa infernale
              soddisfazione spirò.</p>
            <p>I poeti inventarono che posti i corpi di entrambi i fratelli ad ardere nello stesso
              rogo, le fiamme della pira si divisero, segno sensibile che l’avversione degli animi
              loro erasi comunicata a tutte le molecole dei loro corpi. E di questo mitologico
              prodigio fa menzione anche <hi rend="sc">Dante</hi> là dove parlando della duplice
              fiamma che ricuopre nell’Inferno le anime di Ulisse e di Diomede, egli dice che quella
              fiamma</p>
            <quote>
              <l>« ……. par surger dalla pira</l>
              <l>« Ove Eteòcle col fratel fu miso. »</l>
            </quote>
            <p>Il solo Creonte gioì della morte dei nipoti, dei quali aveva fomentato l’odio e la
              discordia per impadronirsi del regno ; e divenne tosto uno dei più esecrati tiranni. E
              per primo atto inumano proibì che fossero seppellite le ceneri di Polinice,
              dichiarandolo traditore e ribelle. Non curando il barbaro divieto Antigone sorella e
              Argia vedova di Polinice, <pb n="398" xml:id="p398"/>ne raccolsero in un’urna le
              ceneri e le seppellirono ; e il tiranno condannolle entrambe a morte, stimando così di
              render più sicuro il possesso del trono per la sua dinastia. Ma non potè co’suoi
              delitti esser felice com’egli credeva ; poichè avvenne che il figlio di lui <hi
                rend="i">Emone</hi> essendo invaghito di Antigone, e non potendo salvarla dalla
              crudeltà di suo padre, si uccise per disperazione. Anche <hi rend="i">Ismene</hi>
              volle subire la stessa sorte della sorella Antigone dichiarandosi complice della
              medesima. Così rimase solo Creonte nell’orrida e luttuosa reggia di Tebe.</p>
            <p>Su questi atroci fatti esiste un poema latino intitolato la <hi rend="i"
              >Tebaide</hi>, esistono tragedie antiche e moderne. E per parlare soltanto di queste,
              chi non conosce il <hi rend="i">Polinice</hi> e l’<hi rend="i">Antigone</hi> d’<hi
                rend="sc">Alfier</hi><num>i</num>, e in francese <hi rend="i">Les Frères
                Ennemis</hi> di <hi rend="sc">Racine</hi> ? Troppo lungo sarebbe l’enumerare
              soltanto i poeti che rammentano queste atrocità Tebane. E basterà citar Dante che
              molte volte ne parla o vi allude. Oltre l’esempio riportato di sopra, l’<hi rend="sc"
                >Alighieri</hi> immaginò di avere incontrato nel <hi rend="i">Purgatorio</hi> il
              poeta Stazio autore della <hi rend="i">Tebaide</hi>, con cui parla di questo poema, e
              fa dire all’autore stesso :</p>
            <quote>
              <l>« Cantai di Tebe e poi del grande Achille ; »</l>
            </quote>
            <p>e da Virgilio fa chiamare Eteocle e Polinice <hi rend="i">la doppia tristizia di
                Giocasta</hi>, e narrare che trovansi nel <hi rend="i">Limbo</hi></p>
            <quote>
              <l>« Antigone, Deifile ed Argia</l>
              <l>« Ed Ismene sì trista come fue. »</l>
            </quote>
            <p>Dei prodi generali che aiutarono <hi rend="i">Polinice</hi> nella guerra di Tebe
              parleremo separatamente nel prossimo numero, perchè le loro vicende, e domestiche e
              guerresche, non furono d’alcun momento nel determinar le catastrofi della real
              famiglia Tebana che abbiamo già raccontate.</p>
            <pb n="399" xml:id="p399"/>
          </div3>
          <div3 type="chapter">
            <head type="sur">LIII</head>
            <head type="main">I sette Prodi e gli Epìgoni</head>
            <p><hi rend="i">Adrasto</hi> re degli Argiesi o Argivi aveva soltanto due figlie di nome
                <hi rend="i">Argìa</hi> e <hi rend="i">Deifile</hi>, le quali teneva guardate con
              diligentissima cura senza farle mai uscir di città, perchè l’Oracolo gli aveva
              predetto (o egli l’aveva sognato), che sarebbero state rapite da un leone e da un
              cinghiale. Ma venuti contemporaneamente alla corte Argiva <hi rend="i">Polinice</hi> e
                <hi rend="i">Tideo</hi>, e chiesto di sposare queste due principesse, Adrasto vi
              acconsentì volentieri, perchè trovò in questi sposi la spiegazione della risposta
              dell’oracolo (o del sogno che fosse), che tanto lo aveva tenuto in sospetto e timore
              per le sue figlie. E la spiegazione era questa : Poichè Polinice, essendo discendente
              d’Ercole, portava sulle spalle per distintivo, e quasi per manto, una pelle di leone,
              e Tideo come fratello di Meleagro una pelle di cinghiale, Adrasto interpretò che le
              parole dell’Oracolo si riferissero a questi due giovani Eroi, che gli avrebbero rapite
              le figlie sposandole e conducendole nei loro regni. Per altro in quel momento erano
              ambedue privi del regno e della patria ; Polinice, per le cause già dette nel
              precedente numero, e Tideo per avere ucciso un illustre personaggio della sua patria,
              e secondo alcuni, il proprio fratello. Ma Adrasto prese l’assunto di riconquistare ad
              entrambi col proprio esercito l’avito regno ; e cominciò da quello di Polinice, la
              causa del quale era molto più urgente e più giusta. Prima per altro di dichiarar la
              guerra ad Eteocle volle tentare se egli veniva a qualche equa transazione col
              fratello ; e vi mandò per ambasciatore plenipotenziario <hi rend="i">Tideo</hi>,
              l’altro suo genero. Bisogna credere che Adrasto non conoscesse bene <pb n="400"
                xml:id="p400"/>l’indole di questo suo genero, affidandogli una sì delicata missione,
              poichè questi è quello stesso Tideo che</p>
            <quote>
              <l>« …………… rose</l>
              <l>« Le tempie a Menalippo per disdegno, »</l>
            </quote>
            <p>come dice <hi rend="sc">Dante</hi>, assomigliando ad esso il Conte Ugolino quando
                nell’<hi rend="i">Inferno</hi> rodeva il cranio all’Arcivescovo Ruggieri. Non poteva
              dunque Tideo aver molta attitudine a fare il diplomatico, ma piuttosto l’Antropofago :
              infatti invece di conciliare, inasprì sempre più, perchè non solo altercò, ma diede di
              piglio alla spada nella reggia stessa ed al convito di Eteocle ; e poi inseguito da
              una schiera di soldati, li mise in rotta ed in fuga egli solo, lasciandone molti sul
              terreno malmenati od estinti. Dichiarata dunque la guerra e incominciate le regolari
              battaglie, fece prodigii di valore, e la destra sua valeva per cento mani ; ma
              finalmente colpito da uno strale avvelenato morì sotto le mura di Tebe. Ebbe da <hi
                rend="i">Deifile</hi> un figlio che fu il famoso <hi rend="i">Diomede</hi>, il più
              valoroso, dopo Achille, fra tutti i capitani greci che andarono alla guerra di
              Troia.</p>
            <p>Di <hi rend="i">Ippomedonte</hi> è da dirsi soltanto che egli era nipote di Adrasto e
              valorosissimo ; ma di lui non si narrano fatti straordinarii degni di particolar
              menzione. Egli pure morì alla guerra di Tebe.</p>
            <p><hi rend="i">Capanèo</hi> era un Argivo arditissimo, che primo inventò di dar la
              scalata alle fortezze. Al suo ardire univa un insolente ed empio disprezzo per gli
              Dei ; e giunse perfino a vantarsi di prender Tebe egli solo a dispetto di Giove, i cui
              fulmini, a quanto egli diceva, non gli facevano maggior paura dei raggi del Sole sul
              mezzogiorno. Ma Giove gli fece conoscer la differenza che v’era, fulminandolo mentre
              egli dava la scalata alle mura di Tebe, e precipitandolo nell’Inferno. <hi rend="sc"
                >Dante</hi> che aborre gli empi senza alcuna religione, e <pb n="401" xml:id="p401"
              />li chiama <hi rend="i">violenti contro Dio</hi>, ci narra che egli vide <hi rend="i"
                >Capaneo</hi> nell’<hi rend="i">Inferno</hi> sotto una pioggia di fuoco che cadeva
              dall’alto</p>
            <quote>
              <l>« ……….. in dilatate falde,</l>
              <l>« Come di neve in alpe senza vento ; »</l>
            </quote>
            <p>e aggiunge che anche laggiù quell’anima dannata sfidava il supremo dei Numi, dicendo
              che quantunque Giove lo sættasse <hi rend="i">di tutta sua forza</hi>,</p>
            <quote>
              <l>« Non ne potrebbe aver vendetta allegra. »</l>
            </quote>
            <p>A questo punto Dante fa che Virgilio gli rintuzzi severamente la sua impotente stizza
              con queste parole :</p>
            <quote>
              <l>« O Capaneo, in ciò che non s’ammorza</l>
              <l>« La tua superbia, se’ tu più punito :</l>
              <l>« Nullo martirio, fuor che la tua rabbia,</l>
              <l>« Sarebbe al tuo furor dolor compito. »</l>
            </quote>
            <p>Quest’uomo bestiale aveva una moglie affettuosissima chiamata <hi rend="i"
                >Evadne</hi> che non volle sopravvivere ad esso, e si gettò nel rogo mentre
              rendevansi al marito i funebri onori. Dal loro connubio era nato un figlio di nome <hi
                rend="i">Stènelo</hi>, che fu poi uno dei più valorosi guerrieri all’assedio di
              Troia. Orazio lo dice : <hi rend="i">Pugnæ Sthenelus sciens</hi>.</p>
            <p>Poche ed incerte notizie si hanno di <hi rend="i">Partenopeo</hi>. Alcuni lo credono
              fratello di Adrasto, ed altri figlio di <hi rend="i">Atalanta</hi>, la famosa
              cacciatrice che fu la prima a ferire il cinghiale di Calidonia. Per quanto fosse
              valoroso, anch’egli perì nella guerra di Tebe.</p>
            <quote>
              <l>Molto invece fu narrato di <hi rend="i">Anfiarao</hi> e della sua famiglia. Essendo
                egli indovino, previde che sarebbe stato tutt’altro che felice l’esito della
                spedizione contro Tebe, e per lui stesso funesto ; e perciò non voleva prendervi
                parte, quantunque fosse cognato del re Adrasto, avendone sposato la sorella <hi
                  rend="i">Erìfile</hi> : quindi per fuggire qualunque molesta insistenza e
                sollecitazione, si nascose. Ma Polinice a cui stava a cuore <pb n="402"
                  xml:id="p402"/>che non mancasse in quella impresa un così saggio e provvido
                capitano, regalò una preziosissima collana ad Erifile pregandola di persuadere
                Anfiarao di accompagnarlo alla guerra. Erifile non potendo indurvi il marito colle
                parole, tradì il segreto di lui, scuoprendo il posto o nascondiglio ov’egli si era
                celato. Costretto allora Anfiarao per punto di onore e per comando del re a partir
                cogli altri per la guerra, e sicuro di dovervi perire, lasciò detto al figlio <hi
                  rend="i">Alcmeone</hi>, che appena udita la sua morte lo vendicasse. Perì di fatti
                sotto le mura di Tebe ed in un modo straordinario e mirabile, a quanto raccontano i
                pœti. Mentre egli osservava gli astri, per trame, come gli Astrologi, argomento di
                predizioni, gli si aperse sotto i piedi la terra che lo inghiottì, e vivo precipitò
                nel regno delle Ombre<note place="bottom"><quote><l> « Subductaque suos manes
                      tellure videbit</l><l>« <hi rend="i">Vivus adhuc
                      vates</hi>. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc">Ovid</hi>.,
                      <title>Metam.</title>
                    <num>ix</num>, v. 405.)</bibl></note>. Gli antichi dissero che non andò al
                Tartaro ma agli Elisii, e che in Grecia aveva un Oracolo dei più celebrati e rendeva
                responsi dei più veridici. Ma <hi rend="sc">Dante</hi> che non credeva concessa
                all’uomo la facoltà d’indovinare il futuro, e che perciò stimava un’impostura l’arte
                dell’Indovino, lo pone nell’<hi rend="i">Inferno</hi> con tutti gli altri pretesi
                Indovini antichi e moderni. Dice di averlo veduto egli stesso, e che Virgilio glielo
                indicò dicendo : <lb/>« Drizza la testa, drizza, e vedi a cui</l>
              <l>« S’aperse, agli occhi de’Teban, la terra,</l>
              <l>« Perchè gridavan tutti : Dove rui,</l>
              <l>« <hi rend="i">Anfiarao</hi> ? perchè lasci la guerra ?</l>
              <l>« E non restò di ruinare a valle</l>
              <l>« Fino a <hi rend="i">Minòs</hi> che ciascheduno afferra.</l>
              <l>« Mira che ha fatto petto delle spalle :</l>
              <l>« <hi rend="i">Perchè volle veder troppo davante</hi>,</l>
              <l>« Dirietro guarda, e fa ritroso calle. »</l>
            </quote>
            <bibl>(<title>Inf.</title>
              <num>xx</num>, v. 31…..)</bibl>
            <p><pb n="403" xml:id="p403"/><hi rend="i">Alcmeone</hi> appena udita la morte del
              padre, per vendicarlo com’egli desiderò, uccise la madre ; e fu come accennano i pœti
              antichi <hi rend="i">pio</hi> e <hi rend="i">scellerato</hi> ad un tempo<note
                place="bottom"><quote><l> « …..ultusque parente parentem</l><l>«<hi rend="i"
                      >Natus</hi>, erit facto <hi rend="i">pius</hi> et <hi rend="i">sceleratus</hi>
                    codem. »</l></quote><bibl>(<title>Ibid</title>,, v. 406.)</bibl></note> ; e <hi
                rend="sc">Dante</hi> esprime lo stesso concetto in una similitudine del Canto
                <num>iv</num> del <hi rend="i">Paradiso</hi> :</p>
            <quote>
              <l>« Come <hi rend="i">Alcmeone</hi> che di ciò pregato</l>
              <l>« Dal padre suo, la propria madre spense,</l>
              <l>« <hi rend="i">Per non perder pietà si fe’ spietato</hi>. »</l>
            </quote>
            <p>E nel Canto <num>xii</num> del <hi rend="i">Purgatorio</hi> rammentò</p>
            <quote>
              <l>« Come Alcmeone a sua madre fe’caro</l>
              <l>« Parer lo <hi rend="i">sventurato adornamento</hi>. »</l>
            </quote>
            <p>E a questo <hi rend="i">adornamento</hi> diè opportunamente l’Alighieri l’epitelo di
                <hi rend="i">sventurato</hi>, perchè oltre all’essere stato causa della morte di <hi
                rend="i">Anfiarao</hi> e di <hi rend="i">Erifile</hi>, riuscì funesto anche al
              figlio <hi rend="i">Alcmeone</hi> che ne fu l’erede. Ne fece egli un dono alla sua
              prima sposa <hi rend="i">Alfesibea</hi> ; ma poi ripudiatala per isposar <hi rend="i"
                >Callirœ</hi>, questa desiderò di possedere la famosa collana di Erifile ; ed
              Alcmeone per contentar la nuova sposa, pretendendo di ritogliere il prezioso monile
              alla ripudiata Alfesibea, fu ucciso dai fratelli di lei.</p>
            <p>Così la discordia dei figli di <hi rend="i">Edipo</hi> produsse una serie infinita di
              guai e di sciagure che di conseguenza in conseguenza durarono per molti anni. Poichè
              Adrasto, il solo dei <hi rend="i">Sette Prodi</hi> rimasto in vita, quantunque per
              causa di quella guerra avesse perduto ambedue i suoi generi ed una delle sue due
              figlie, non che il fratello e la sorella, il cognato e il nipote ; senza contare le
              sventure dei sudditi e lo sperpero delle forze del regno, volle imprendere un’altra
              guerra contro <pb n="404" xml:id="p404"/>Tebe coll’aiuto dei figli degli estinti <hi
                rend="i">Prodi</hi>. Questa seconda guerra fu perciò chiamata degli <hi rend="i"
                >Epìgoni</hi>, ossia dei <hi rend="i">rampolli</hi>, o <hi rend="i"
              >discendenti</hi> ; ed ebbe luogo dieci anni dopo la prima per aspettar che questi <hi
                rend="i">rampolli</hi> fosser cresciuti ed atti alle battaglie. Ma dei fatti d’arme
              e degli effetti ultimi di questa guerra scarseggiano e sono incerte le notizie :
              devastazioni e stragi non ne mancarono ; e v’è chi afferma che fu anche saccheggiata
              la città di Tebe e che <hi rend="i">Tersandro</hi> figlio di Polinice ne prendesse il
              governo ; e inoltre che molti Tebani prima del saccheggio preferirono di andar
              profughi dalla patria in cerca di nuove sedi. Quest’ultimo fatto è rammentato ancora
              dall’Alighieri, ov’egli parla dell’indovino <hi rend="i">Tiresia</hi>, di <hi rend="i"
                >Manto</hi> figlia di lui, e dell’origine di <hi rend="i">Mantova</hi> patria di
              Virgilio. Noi avremo occasione di tenerne proposito in un altro Capitolo destinato
              esclusivamente a parlare degli <hi rend="i">Indovini</hi>.</p>
          </div3>
          <div3 type="chapter">
            <head type="sur">LIV</head>
            <head type="main">Pèlope e i suoi discendenti</head>
            <p>Dalle atrocità degli <hi rend="i">Eraclidi</hi> convien passare agli orrori dei <hi
                rend="i">Pelòpidi</hi>. Questi pure furono argomento prediletto degli antichi
              tragici e delle antiche plebi ; ed alcuni non hanno cessato di comparire anche sui
              moderni teatri francesi ed italiani. Basterà citare la <hi rend="i">Pelopea</hi> di
                <hi rend="sc">Pellegrin</hi> e l’<hi rend="i">Atreo</hi> di <hi rend="sc"
                >Crebillon</hi> e di <hi rend="sc">Voltaire</hi> ; il <hi rend="i">Tieste</hi> di
                <hi rend="sc">Ugo Foscolo</hi>, l’<hi rend="i">Agamennone</hi> e <hi rend="i"
                >l’Oreste</hi> di <hi rend="sc">Alfieri</hi>. Inoltre appartenenti a questa stirpe
              dei <hi rend="i">Pelopidi</hi> furono due dei principali personaggi del l’<hi rend="i"
                >Iliade</hi> di <hi rend="sc">Omero</hi>, a istigazione dei quali s’imprese e si
              condusse a termine la guerra di Troia. È dunque indispensabile nella classica
              letteratura di tutti i popoli e di tutti i tempi il conoscere almeno i fatti
              principali di questa stirpe funesta e troppo famosa per infami delitti.</p>
            <p><pb n="405" xml:id="p405"/>Nel parlare dei dannati celebri dell’ Inferno pagano,
              dicemmo che padre di <hi rend="i">Pelope</hi> fu <hi rend="i">Tantalo</hi> condannato
              alle pene del Tartaro per avere ucciso questo suo figlio, e imbanditene le carni per
              cibo alla mensa dei Numi da lui convitati ; e inoltre che Pelope fu restituito alla
              sua pristina forma corporea e risuscitato da Giove. Ora è a dirsi che egli sposò <hi
                rend="i">Ippodamia</hi> figlia di <hi rend="i">Enomao</hi>, re d’ Elide e Pisa<note
                place="bottom">La città di Pisa in Toscana credesi fondata (per quanto asserisce <hi
                  rend="sc">Strabone</hi> nel lib. <num>ii</num>) da quei guerrieri della greca
                città di Pisa nel Peloponneso, che nel loro ritorno dalla guerra di Troia furono
                spinti dalla tempesta sulle coste dell’ Italia.</note>, ed ebbe molti figliuoli e
              discendenti che sono in comune appellati col patronimico di <hi rend="i"
              >Pelopidi</hi>. Ma il modo con cui Pelope ottenne la sposa non è senza delitto.</p>
            <p>Si racconta che <hi rend="i">Enomao</hi> era riluttante dal maritare la sua unica
              figlia Ippodamia, perchè aveva saputo dall’Oracolo che il genero sarebbe causa della
              morte del suocero ; e per allontanare i pretendenti proponeva loro condizioni
              durissime, cioè o di superarlo nella corsa dei cocchi (ed egli co’ suoi cavalli figli
              del Vento era insuperabile), o di essere uccisi se perdevano. E già più d’uno aveva
              inesorabilmente pagato colla vita il fio della sua folle speranza. Pelope senza essere
              scoraggiato da sì funesti esempi, lasciò la Frigia sua patria, e volle tentare
              anch’egli il periglioso arringo ; ma cercò di uscirne vittorioso colla frode e col
              tradimento. Promettendo qualunque premio (fosse anche la metà del regno) a <hi
                rend="i">Mìrtilo</hi> cocchiere di<hi rend="i">Enomao</hi>, lo indusse a toglier
              dall’asse il ferro che riteneva le ruote del cocchio del re ; e così Enomao nella gara
              del corso precipitando a terra morì. <hi rend="i">Pelope</hi> rimase senza contrasto
              vincitore, e divenne sposo di Ippodamia e re di Elide. Quanto poi al premio promesso a
                <hi rend="i">Mirtilo</hi> non solo mise in pratica la massima d’insidiosa
              politica</p>
            <quote>
              <l>« Lunga promessa coll’attender corto, »</l>
            </quote>
            <p><pb n="406" xml:id="p406"/>ma fingendosi irritato delle indiscrete e ardite
              pretenzioni di lui, lo fece gittar nel mare. Per altro nell’ amministrazione del regno
              fu così fortunato e divenne tanto potente che estese il suo dominio su tutta quella
              penisola della Grecia che ora chiamasi <hi rend="i">Morea</hi>, e che dal nome di <hi
                rend="i">Pelope</hi> fu detta dagli antichi <hi rend="i">Peloponneso</hi>.</p>
            <p>Da <hi rend="i">Ippodamia</hi> ebbe sei figli che tutti divennero re, ma i più noti
                <hi rend="i">per fama infame</hi> furono <hi rend="i">Atreo</hi> e <hi rend="i"
                >Tieste</hi>. L’inimicizia e la perfidia impareggiabile di questi due mostruosi
              fratelli furono rese più orribili dalle amplificazioni degli antichi pœti. Basti il
              dire che Atreo sospettando che la sua propria moglie fosse segretamente d’accordo con
              Tieste, uccise i due più giovani figli, <hi rend="i">Tantalo</hi> e <hi rend="i"
                >Plistene</hi>, e ne imbandì le carni a Tieste stesso, e poi perchè sapesse qual
              cibo aveva mangiato gli fece portare in tavola i teschi delle due misere vittime. I
              pœti aggiungono che in quel giorno il Sole inorridito ritornò indietro dal suo corso.
              All’opposto la plebe antica dilettavasi di veder rappresentato sulle scene questo
              ferale spettacolo. <hi rend="sc">Orazio</hi> nella <hi rend="i">Pœtica</hi> dà per
              precetto agli scrittori di tragedie di non far cuocere al nefando Atreo le carni umane
              sul palco scenico alla presenza del pubblico<note place="bottom"><quote><l> « Nec
                    pueros coram populo Medea trucidet,</l><l>« <hi rend="i">Aut humana palam coquat
                      exta nefarius Atreus</hi>. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc">Hor</hi>.,
                    <title>De Arte pœt.</title>, v. 186.)</bibl></note> ; il che fa supporre che sì
              orrendo e ributtante spettacolo fosse dato più volte sui teatri romani ; e <hi
                rend="sc">Cicerone</hi> nel <hi rend="i">De Officiis</hi> riferisce che in una
              tragedia latina si faceva dire ad Atreo : <quote>« È sepolcro ai suoi figli il padre
                  loro<note place="bottom"><quote>« Ut si Æacus aut Minos diceret : <hi rend="i"
                      >Oderint dum metuant</hi> ; aut : <hi rend="i">Natis sepulcro ipse est
                      parens</hi>, indecorum videretur, quod eos fuisse justos accepimus : at, Atreo
                    dicente, plausus excitantur : est enim digna persona oratio. »</quote> — <hi
                    rend="sc">Cic</hi>., <hi rend="i">De Off</hi>. <num>i</num>,
                28.)</note>. »</quote></p>
            <p>L’odio esecrando di Atreo e di Tieste non solo durò finchè vissero questi fratelli,
              ma si comunicò in ambedue le linee <pb n="407" xml:id="p407"/>collaterali ai loro
              discendenti. Di Tieste era figlio <hi rend="i">Egisto</hi>, nato d’illegittime e
              vietate nozze ; e poichè fu <hi rend="i">allattato da una capra</hi> ebbe quel nome
              che in greco indica un tale allattamento. Di <hi rend="i">Atreo</hi> nacquero <hi
                rend="i">Agamennone</hi> e <hi rend="i">Menelao</hi>, e perciò furon chiamati gli
                <hi rend="i">Atridi</hi>. Degli Atridi si dovrà d’ora in poi parlar molto a lungo
              nel rimanente della Mitologia, e spesso troveremo implicato Egisto nei loro domestici
              casi. Infatti occorre prima di tutto di dover dire che Egisto uccise a tradimento <hi
                rend="i">Atreo</hi> suo zio, e quindi con Tieste suo padre s’impadronì del regno di
              Micene e ne cacciò Agamennone e Menelao legittimi eredi. Questi si rifugiarono a
              Sparta nella corte del re <hi rend="i">Tindaro</hi>, di cui sposarono le figlie <hi
                rend="i">Clitennestra</hi> ed <hi rend="i">Elena</hi> ; quindi colle truppe
              ausiliari del suocero ritornarono a Micene e ne cacciarono gl’invasori Tieste ed
              Egisto, ricuperando il paterno regno ; del quale per patto di famiglia divenne re il
              solo Agamennone, essendo Menelao erede del trono di Sparta, poichè eran già morti e
              divenuti Dei ed Astri Castore e Polluce.</p>
            <p>Lasciamo che per pochi anni i due famosi <hi rend="i">Atridi</hi> godano in pace del
              loro regno e del fido coniugio ; ben presto saranno costretti a subire aspri travagli
              e amari disinganni ; e intanto prepariamo alcune altre delle molte fila ond’ è formata
              la lunga epica tela della guerra di Troia.</p>
          </div3>
          <div3 type="chapter">
            <head type="sur">LV</head>
            <head type="main">Gli Antenati di Achille</head>
            <p>Dopo esserci <hi rend="i">contristati gli occhi e ’l petto</hi> nel leggere e
              nell’intendere gli orrori degli Antenati di Agamennone e Menelao, ci sorride la
              speranza di confortarci nel riandar la vita e le gesta degli Antenati di Achille, di
              quell’Erœ che fu invidiato da Alessandro Magno, perchè ebbe per banditore delle sue
              lodi Omero.</p>
            <p><pb n="408" xml:id="p408"/>La prosapia di Achille deriva da Giove : <hi rend="i"
                >genus ab Jove summo</hi> ; poichè <hi rend="i">Eaco</hi> suo avo era figlio di <hi
                rend="i">Giove</hi> e di <hi rend="i">Egina</hi>. Eaco nacque in quell’isola
              dell’Arcipelago che portò anticamente il nome di sua madre, e che ora con poca
              differenza di suono chiamasi <hi rend="i">Engía</hi> o <hi rend="i">Enghía</hi>.
              Quest’isola fu donata da <hi rend="i">Asopo</hi> re di Beozia a sua figlia Egina, e
              perciò divenne il regno di Eaco. Ma la stizzosa e vendicativa Giunone, usa a
              perseguitar sempre famiglie e popoli per cui Giove mostrasse qualche predilezione,
              mandò una sì spaventevole pestilenza in quell’isola, che morirono tutti i sudditi ed
              anche la regina, e vi rimase soltanto il giovinetto Eaco divenuto re senza sudditi.
              Giove per altro, alle preghiere del figlio, ripopolò quel regno in un modo
              miracoloso : fece uscire da un tronco di quercia una gran quantità di grosse formiche,
              le quali appena toccata terra divennero uomini <hi rend="i">tutti di ferro e di valore
                armati</hi>. Così raccontano i pœti, i quali erano in quell’epoca più arditi di <hi
                rend="i">Darwin</hi> e compagni Antropologi a far derivare gli uomini dalle bestie
              senza che alcuno li contraddicesse. E questi guerrieri derivati dalle formiche son
              quei prodi <hi rend="i">Mirmìdoni</hi> sudditi e soldati di Achille all’ assedio di
              Troia. Forse la radicale del loro nome, che in greco significa <hi rend="i"
                >formica</hi>, diede motivo a inventar questa favola della loro origine ; la quale
              però parve sì bella che tutti i pœti l’accettarono, e <hi rend="sc">Dante</hi> stesso
              se ne vale per una bellissima similitudine nel Canto <num>xxix</num> dell’ <hi
                rend="i">Inferno</hi> :</p>
            <quote>
              <l>« Non credo che a veder maggior tristizia</l>
              <l>« Fosse in <hi rend="i">Egina</hi> il popol tutto infermo,</l>
              <l>« Quando fu l’ær sì pien di malizia,</l>
              <l>« Che gli animali, infino al picciol vermo,</l>
              <l>« Cascaron tutti ; e poi le genti antiche</l>
              <l>« Secondo che i pœti hanno per fermo,</l>
              <l>« <hi rend="i">Si ristorâr di seme di formiche</hi> ;</l>
              <l>« Ch’era a veder per quella oscura valle</l>
              <l>« Languir gli spirti per diverse biche. »</l>
            </quote>
            <p><pb n="409" xml:id="p409"/><hi rend="i">Eaco</hi> per la sua bontà e giustizia fu
              posto dopo la morte fra i giudici dell’Inferno, come dicemmo parlando delle regioni
              Infernali. Lasciò due figli, <hi rend="i">Telamone</hi> e <hi rend="i">Peleo.
                Telamone</hi> fu esiliato dal padre per avere ucciso, nel far gli esercizi
              ginnastici, un piccolo fratello chiamato <hi rend="i">Foco</hi>. Di Telamone abbiamo
              già detto che fu uno degli Argonauti ; e di altre sue imprese e vicende, come pure de’
              suoi due celebri figli <hi rend="i">Aiace Telamonio</hi> e <hi rend="i">Teucro</hi>,
              parleremo più opportunamente in appresso. Ora convien dire di <hi rend="i">Peleo</hi>
              che fu il padre di Achille.</p>
            <p><hi rend="i">Peleo</hi> dopo la morte di Eaco abbandonò (non si sa bene per quali
              motivi) l’isola di Egina, e seguìto dai <hi rend="i">Mirmidoni</hi> andò nella Grecia
              continentale, e dopo varie vicende (variamente narrate dai tragici) potè formare un
              piccolo regno in quella parte della Tessaglia che era detta <hi rend="i">Ftiòtide</hi>
              dalla città di <hi rend="i">Ftia</hi> sua capitale. Quantunque piccolo principe meritò
              di sposare una Dea ; e questa fu <hi rend="i">Teti</hi> ninfa marina, dalla quale
              doveva nascere un figlio molto più illustre e potente del padre. Questo decreto del
              Destino essendo conosciuto da Giove e dagli altri Dei, trattenne ciascun di loro dallo
              sposar <hi rend="i">Teti</hi>, e tutti d’accordo convennero di unirla in matrimonio
              con quel mortale che ne fosse più degno per bontà di animo e per parentela coi Numi ;
              e il prescelto fu <hi rend="i">Peleo</hi>, ottimo principe e nipote di Giove. Furono
              queste le più splendide nozze che fossero mai celebrate sulla Terra : al banchetto
              nuziale erano convitati tutti gli Dei e le Dee, esclusa soltanto la <hi rend="i"
                >Discordia</hi>. Ma questa Dea maligna e nemica di pace trovò il modo di spargere
              dissensioni tra i convitati gettando dall’alto sulla mensa un aureo pomo colla
              iscrizione : <hi rend="i">Si dia alla più bella</hi>. Ed ecco subito eccitata la gara
              e l’invidia tra le Dee, e cagionato un grande impæcio agli Dei, nell’esser richiesti
              di pronunziare un <hi rend="i">verdetto</hi> così pericoloso. Giove stesso se ne scusò
              prudentemente, e propose di farne giudice un semplice pastore che <pb n="410"
                xml:id="p410"/>senza prevenzione alcuna dichiarasse qual Dea gli paresse più bella.
              Tre sole Dee si ostinarono nelle loro pretese senza voler cedere, cioè <hi rend="i"
                >Giunone, Minerva</hi> e <hi rend="i">Venere</hi>, e consentirono di starsene al <hi
                rend="i">lodo</hi> dell’arbitro rusticano. Furono dunque condotte da Mercurio in <hi
                rend="i">Frigia</hi> sul monte <hi rend="i">Ida</hi> davanti al pastore <hi rend="i"
                >Alessandro</hi>, in appresso chiamato <hi rend="i">Paride</hi>. Mercurio fece la
              relazione della causa, e ciascuna delle tre Dee perorò a proprio vantaggio, e promise
              al giudice un magnifico premio a causa vinta ; cioè Giunone le maggiori ricchezze del
              mondo, Minerva la più gran sapienza e Venere la più bella donna per moglie. Il pastore
              consegnò l’aureo pomo a Venere. Fu giusto giudice di certo, poichè Venere, come tutti
              sanno, era la Dea della Bellezza : non ostante s’inimicò le altre due Dee. In qual
              modo poi Venere mantenesse a Paride la promessa sarà detto nel parlar dell’origine
              della guerra di Troia.</p>
            <p>Ora è a dirsi che dal matrimonio di <hi rend="i">Peleo</hi> con <hi rend="i"
                >Teti</hi> nacque un figlio che fu chiamato <hi rend="i">Achille</hi>. La madre,
              come Dea, sapeva già dal libro del Fato che questo suo figlio sarebbe un fulmine di
              guerra ; quindi per maggior sicurezza procurò di renderlo invulnerabile tuffandolo
              nelle acque del fiume Stige ; ma poichè nel tuffarlo lo teneva sospeso per un piede,
              rimase vulnerabile soltanto il calcagno che non potè esser bagnato da quelle acque
              infernali. Dipoi, fanciulletto ancora, lo consegnò al Centauro <hi rend="i"
                >Chirone</hi> perchè lo istruisse in tutte le arti necessarie ai Principi ed agli
                Eroi<note place="bottom"><p>Il <hi rend="sc">Machiavelli</hi> non ha creduto indegno
                  dell’alta sua mente il trarre precetti di politica dai <hi rend="i">miti</hi>
                  dell’Antichità pagana e dei tempi eroici. Cade qui in acconcio il riferire
                  com’egli interpretò che i principi e gli eroi antichi erano dati ad educare ed
                  istruire (come noi abbiamo detto di Ercole e di Giasone, ed ora diciamo di
                  Achille) al <hi rend="i">Centauro Chirone</hi>, che era, come tutti gli altri
                  Centauri, mezzo uomo e mezzo bestia. Ecco la spiegazione che ne dà il
                  Machiavelli :</p><p><quote>« Dovete dunque sapere come sono due generazioni di
                    combattere : <hi rend="i">l’una con le leggi, l’altra con la forza : quel primo
                      modo è proprio dell’uomo, quel secondo delle bestie</hi> ; ma perchè il primo
                    spesse volte non basta, convien ricorrere al secondo. Pertanto ad un principe è
                    necessario saper bene usare la bestia e l’uomo. Questa parte è stata <hi
                      rend="i">insegnata a’principi copertamente</hi> dagli antichi scrittori, i
                    quali scrivono come <hi rend="i">Achille</hi> e molti altri di quelli principi
                    antichi furono dati a nutrire a <hi rend="i">Chirone Centauro</hi>, che sotto la
                    sua disciplina li custodisse : <hi rend="i">il che non vuol dire altro l’avere
                      per precettore un mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna ad un principe
                      sapere usare l’una e l’altra natura, e l’una senza l’altra non è
                    durabile</hi>. »</quote> — (<hi rend="i">Il Principe</hi>,
                  cap. <num>xviii</num>.)</p><p>Bisogna però notare che il Machiavelli parlava del
                  principato assoluto o dispotico, che in oggi è divenuto un mestiere fallito ;
                  quindi al principe costituzionale devesi suggerire il precetto opposto, cioè che
                  tenga intorno a sè per consiglieri meno <hi rend="i">Centauri</hi> che sia
                  possibile.</p></note>. Ma quando sentì dichiarata contro i Troiani la guerra,
              l’amor materno la spinse a prendere una nuova precauzione, a trafugare il figlio
              nell’isola di Sciro e nasconderlo in gonna <pb n="411" xml:id="p411"/>femminile tra le
              damigelle di <hi rend="i">Deidamia</hi> figlia del re <hi rend="i">Licomede</hi>. Ivi
              rimase Achille finchè i Greci non lo scuoprirono. <hi rend="sc">Dante</hi> rammenta
              questo fatto in una similitudine nel Canto <num>ix</num> del <hi rend="i"
                >Purgatorio</hi> :</p>
            <quote>
              <l>« Non altrimenti <hi rend="i">Achille</hi> si riscosse,</l>
              <l>« Gli occhi svegliati rivolgendo in giro,</l>
              <l>« E non sapendo là dove si fosse,</l>
              <l>« Quando la madre da <hi rend="i">Chirone</hi> a <hi rend="i">Schiro</hi></l>
              <l>« Trafugò lui dormendo in le sue braccia,</l>
              <l>« Là onde poi gli Greci il dipartiro. »</l>
            </quote>
            <p>E poichè ora siamo giunti col racconto all’ epoca in cui ebbe luogo la famosa guerra
              di Troia, è tempo di parlare di questa città e dei suoi re, come pure della vera causa
              di quella guerra.</p>
            <pb n="412" xml:id="p412"/>
          </div3>
          <div3 type="chapter">
            <head type="sur">LVI</head>
            <head type="main">La città di Troia e i suoi re</head>
            <p>Dalla Grecia convien passare all’Asia Minore, in quella parte che chiamavasi <hi
                rend="i">Frigia</hi>, presso le coste della Propontide, dell’Ellesponto e
              dell’Egeo ; nella qual regione fra l’Ellesponto ed il monte Ida esisteva l’antica e
              famosa città di <hi rend="i">Troia</hi>. Sino al 1870 non si seppe neppur dire con
              sicurezza di non errare : <hi rend="i">qui fu</hi> ; di modo che taluni dubitaron
              perfino se la città di Troia fosse mai esistita. Lo stesso <hi rend="sc">Cantù</hi>
              nelle prime edizioni della sua <hi rend="i">Storia Universale</hi> accennava questo
              dubbio senza risolverlo ; e soltanto si affermò da qualcuno che sopra una parte di
              quel classico terreno sorge un villaggio turco chiamato <hi rend="i"
              >Bunar-Basci</hi>.</p>
            <p>In questi ultimi anni però, un erudito grecista tedesco, il Dott. <hi rend="i"
                >Schliemann</hi> avendo fatte escavazioni in quella regione perfino alla profondità
              di 14 metri, è giunto a dissotterrare una gran parte delle rovine di quella celebre
              città, ed asserisce pubblicamente per le stampe nel suo libro intitolato <hi rend="i"
                >Antichità Troiane</hi> di essere stato il primo a scuoprire l’identità di posizione
              della esistente <hi rend="i">Hissarlik</hi> con l’antica e distrutta città di Troia. E
              poichè un inglese di nome Frank Calvert, da molti anni abitante e possidente di
              terreni nella regione asiatica presso lo stretto dei Dardanelli, reclamò la priorità
              di tale scoperta, questa è pel mondo letterario una conferma che sia ora finalmente
              accertata non solo l’esistenza, ma anche la precisa ubicazione della famosa città di
                Troia<note place="bottom">Chi fosse vago di conoscere le particolarità relative a
                questa scoperta ed alla questione di priorità fra il dott. Schliemann e il Calvert,
                può leggere la lettera di quest’ultimo riportata nell’ <hi rend="i">Atheneum</hi>,
                del 7 novembre 1874, celebre periodico inglese che si pubblica in Londra, ed è
                diffuso per tutto.</note>.</p>
            <p><pb n="413" xml:id="p413"/>Il nome di <hi rend="i">Troia</hi>, con cui questa città è
              passata ai posteri, consacrata all’immortalità dai più sublimi pœti, non era il solo
              nè il primo che essa ebbe ; e si trova anche chiamata <hi rend="i">Dardania, Teucria,
                Ilio</hi> e <hi rend="i">Pergamo</hi>. Anche <hi rend="sc">Dante</hi> in una stessa
              terzina la chiama <hi rend="i">Troia</hi> ed <hi rend="i">Ilio</hi>, o <hi rend="i"
                >Ilion</hi>, secondo la terminazione greca e latina ; come nel Canto <num>i</num>
                dell’<hi rend="i">Inferno</hi>, facendo dire a Virgilio :</p>
            <quote>
              <l>« Pœta fui e cantai di quel giusto</l>
              <l>« Figliuol d’Anchise che venne da <hi rend="i">Troia</hi></l>
              <l>« Poi che ‘l superbo <hi rend="i">Ilïòn</hi> fu combusto. »</l>
            </quote>
            <p>Ed inoltre ripete ambedue questi stessi termini anche in una terzina del C.
                <num>xii</num> del <hi rend="i">Purgatorio</hi>, dicendo in propria persona :</p>
            <quote>
              <l>« Vedeva <hi rend="i">Troia</hi> in cenere e caverne :</l>
              <l>« O Ilïòn come te basso e vile</l>
              <l>« Mostrava il segno che lì si discerne ! »</l>
            </quote>
            <p>Chiunque sa quanto sia conciso l’Alighieri non potrà creder ch’egli abbia usato
              oziosamente questi due vocaboli come se fossero perfettamente sinonimi, e dovrà
              dedurre dalla Mitologia e dai classici antichi la differenza di significato di quei
              due termini per intendere il preciso concetto espresso da Dante : il che noi faremo
              ben tosto nel dar la spiegazione degli altri nomi della stessa città.</p>
            <p>I vocaboli di <hi rend="i">Dardania, Teucria, Ilio</hi> e <hi rend="i">Troia</hi>
              adoprati comunemente come sinonimi della stessa città, derivano dal nome di
              altrettanti re Troiani : e, se di questi fosse accertata la cronologia e la Storia,
              sarebbe molto facile determinare l’epoca di quelle denominazioni e la diversa
              estensione della città in quelle diverse epoche. Ma lo stesso Cantù nella sua <hi
                rend="i">Storia Universale</hi> non ha potuto dare un giudizio sicuro sulla
              genealogia dei re di Troia e sulla verità dei fatti che di loro si raccontano.
              Dovendosi quindi ricorrere alle <pb n="414" xml:id="p414"/>antiche tradizioni non bene
              accertate, io preferirò per lo scopo del mio racconto mitologico le splendide
              asserzioni di Omero, di Virgilio e di Dante alle sparute anatomie o analisi critiche
              di certi antichi eruditi e di taluni moderni filologi.</p>
            <p>Ed ecco prima di tutto la genealogia dei re Troiani quale <hi rend="sc">Omero</hi> fa
              dirla da Enea ad Achille :</p>
            <quote>
              <l>« Ma se più brami di mia stirpe udire</l>
              <l>« Al mondo chiara, primamente Giove</l>
              <l>« <hi rend="i">Dàrdano</hi> generò, che fondamento</l>
              <l>« Pose qui poscia alle <hi rend="i">Dardanie mura</hi>.</l>
              <l>« Perocchè non ancora allor nel piano</l>
              <l>« Sorgean le sacre <hi rend="i">iliache torri</hi>, e il molto</l>
              <l>« Suo popolo le <hi rend="i">Idèe</hi> falde cuopriva.</l>
              <l>« Di Dardano fu nato il re d’ogni altro« Più opulente <hi rend="i"
                >Erittonio</hi>…….</l>
              <l>« ……. D’Erittonio nacque</l>
              <l>« <hi rend="i">Trœ</hi> re de’<hi rend="i">Troiani</hi>, e poi di Trœ</l>
              <l>« Generosi tre figli <hi rend="i">Ilo</hi> ed <hi rend="i">Assaraco</hi></l>
              <l>« E il deiforme <hi rend="i">Ganimede</hi>, al tutto</l>
              <l>« De’mortali il più bello, e dagli Dei</l>
              <l>« Rapito in cielo, perchè fosse a Giove</l>
              <l>« Di coppa mescitor per sua beltade,</l>
              <l>« Ed abitasse cogli Eterni. Ad Ilo</l>
              <l>« Nacque l’alto figliuol <hi rend="i">Laomedonte</hi> ;</l>
              <l>« <hi rend="i">Titone</hi> a questo e <hi rend="i">Priamo</hi> e <hi rend="i"
                  >Lampo</hi> e <hi rend="i">Clizio</hi></l>
              <l>« E l’alunno di Marte <hi rend="i">Icetaone</hi> ;</l>
              <l>« Assaraco ebbe <hi rend="i">Capi</hi> e Capi <hi rend="i">Anchise</hi></l>
              <l>« Mio genitore, e Priamo il divo <hi rend="i">Ettorre</hi>. »</l>
            </quote>
            <bibl>(<title>Iliad.</title> lib. <num>xx</num>, traduz. del Monti).</bibl>
            <p>In questi versi è considerato <hi rend="i">Dardano</hi> come fondatore e primo re
              della città che da lui prese il nome di <hi rend="i">Dardania</hi>. Egli era figlio di
                <hi rend="i">Giove</hi> e di <hi rend="i">Elettra</hi> una delle 7 figlie di <pb
                n="415" xml:id="p415"/>Atlante. In tutto ciò concorda anche Virgilio, che spesse
              volte rammenta Dardano come autore della regia stirpe troiana<note place="bottom"
                    ><quote><l> « ………….. hinc <hi rend="i">Dardanus</hi> ortus,</l><l>« Jasiusque
                    pater, genus a quo principe nostrum. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc"
                  >Virg</hi>., <title>Æneid.</title>, <num>iii</num>,
                    v. 167.)</bibl><quote><l>« Epiro, Hesperia (quibus idem <hi rend="i">Dardanus
                      auctor</hi>,</l><l>« Aque idem
                    casus.) »</l></quote><bibl>(<title>Ibid.</title>, v. 503.)</bibl></note>. <hi
                rend="sc">E Dante</hi> nel narrare quali degli <hi rend="i">spiriti magni</hi> egli
              vide nel <hi rend="i">Limbo</hi>, comincia dalla troiana prosapia dicendo :</p>
            <quote>
              <l>« Io vidi <hi rend="i">Elettra</hi> con molti compagni,</l>
              <l>« Tra’ quai conobbi ed <hi rend="i">Ettore</hi> ed <hi rend="i">Enea</hi>,</l>
              <l>« <hi rend="i">Cesare</hi> armato con gli occhi grifagni ; »</l>
            </quote>
            <p>poichè anche Giulio Cesare dittatore discendeva dai Troiani, e il suo nome di <hi
                rend="i">Giulio</hi> derivava da quello di Giulo Ascanio figlio di Enea, come
              asserisce Virgilio<note place="bottom"><quote><l> « Nascetur pulchra Troianus origine
                    Cæsar,</l><l>« Imperium Oceano, famam qui terminet astris,</l><l>« Julius a
                    magno demissum nomen Julo. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc">Virg</hi>.,
                    <title>Æneid.</title>
                  <num>i</num>, v. 286…..)</bibl></note>.</p>
            <p>Nella Cronologia Greca, riportata dal Cantù tra i <hi rend="i">Documenti</hi> della
              sua <hi rend="i">Storia Universale</hi>, è posto il regno di Dardano dal 1568 al 1537
              avanti G. C. ; ma sono ivi registrati due altri re anteriori a Dardano, cioè <hi
                rend="i">Scamandro</hi> e <hi rend="i">Teucro</hi> ; e da questo re si fa derivare
              il nome di <hi rend="i">Teucria</hi> dato alla città ed anche al territorio Troiano :
              tutti gli altri re per altro son quegli stessi rammentati da Omero.</p>
            <p>Di <hi rend="i">Erittonio</hi> figlio di Dardano i mitologi non raccontano alcun
              fatto notabile ; e molti danno questo nome ad <hi rend="i">Eretteo</hi> re di Atene
              che fu figlio di Vulcano. Anche Omero, come abbiam veduto, lo dice soltanto <hi
                rend="i">il più opulento di ogni altro re</hi>.</p>
            <p>Da Erittonio nacque <hi rend="i">Trœ</hi>, o <hi rend="i">Troo</hi>, onde vennero i
              nomi di <hi rend="i">Troia</hi> e di <hi rend="i">Troiani</hi>, come dal nome del
              figlio suo <hi rend="i">Ilo</hi> derivò <pb n="416" xml:id="p416"/>quello di <hi
                rend="i">Ilion</hi> (in italiano <hi rend="i">Ilio</hi>) alla città stessa. Omero
              preferisce il vocabolo <hi rend="i">Ilion</hi> ; ma gli altri pœti usano per lo più
              indiscriminatamente i diversi nomi di Troia : solo alcuni intendono per <hi rend="i"
                >Ilio</hi> l’interno della città e i cittadini<note place="bottom">Anche nella
                lingua latina vi sono i due vocaboli <hi rend="i">Urbs</hi> e <hi rend="i"
                  >Civitas</hi>, il primo dei quali significa propriamente il materiale della città,
                ed il secondo i cittadini ed anche il diritto di cittadinanza ; come pure dei due
                appellattivi <hi rend="i">Romani</hi> e <hi rend="i">Quirites</hi> il primo aveva
                una significazione più estesa, riferibile non solo alle relazioni interne, ma anche
                alle esterne colle altre nazioni, mentre il secondo si riferiva soltanto all’
                interno, ossia ai diritti civili. Per la stessa ragione distinguevasi l’<hi rend="i"
                  >lus Romanum</hi> dall’<hi rend="i">lus Quiritarium</hi> o <hi rend="i"
                  >Quiritium</hi>.</note>, e per <hi rend="i">Troia</hi> il fabbricato della città
              ed anche il territorio. Questa distinzione che riconoscesi più d’una volta nelle
              espressioni di Virgilio fu adottata dall’Alighieri nelle due terzine citate di
              sopra.</p>
            <p>Il nome poi di <hi rend="i">Pèrgamo</hi> era dato soltanto alla parte più alta e più
              fortificata della città, ov’era anche il palazzo del re<note place="bottom"><quote><l>
                    « ………….. Si <hi rend="i">Pergama</hi> dextra</l><l>« Defendi possent, etiam hac
                    defensa fuissent. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc">Virg</hi>.,
                    <title>Æneid.</title>, <num>ii</num>, v. 291…..)</bibl></note> ; poichè
              nell’antico linguaggio Jonico quel vocabolo <hi rend="i">Pergamon</hi> significava
              appunto <hi rend="i">luogo od oggetto elevato</hi> ; e per questa stessa etimologia
                <hi rend="i">pergamo</hi> in italiano è sinonimo di <hi rend="i">pulpito</hi>.</p>
            <p>Tra i figli di <hi rend="i">Trœ</hi> o <hi rend="i">Troo</hi> è da notarsi non solo
                <hi rend="i">Ilo</hi> che fu re di Troia dopo la morte del padre, ma anche <hi
                rend="i">Assàraco</hi> e <hi rend="i">Ganimede</hi>.</p>
            <quote>
              <l>« Assàraco ebbe Capi e Capi Anchise, »</l>
            </quote>
            <p>che fu genitore di <hi rend="i">Enea</hi>, come fa dire Omero da Enea stesso ; quindi
                <hi rend="i">Assàraco</hi> è lo stipite della stirpe e della discendenza di Enea, e
              perciò i Romani, discendenti dai Troiani, oltre ad esser chiamati <hi rend="i"
                >Eneidi</hi> da Virgilio, son detti ancora <hi rend="i">Gens Assaraci</hi>, ossia
              discendenti di Assaraco. Quanto poi a <pb n="417" xml:id="p417"/><hi rend="i"
                >Ganimede</hi> dicemmo già nel N° XV che fu rapito dall’aquila di Giove e
              trasportato in cielo per far da coppiere invece della Dea <hi rend="i">Ebe</hi>.</p>
            <p>Di Ganimede hanno fatto parola quasi tutti i pœti ; ed anche nella prosa del volgo il
              nome di <hi rend="i">Ganimede</hi> è usato per indicare un giovane azzimato e lezioso.
              Dagli Antichi per altro ebbe anche l’onore di esser posto nella Costellazione detta
              dell’ <hi rend="i">Aquario</hi>, che è uno dei dodici segni del Zodiaco e rifulge di
              127 stelle.</p>
            <p><hi rend="sc">Dante</hi> non si è già dimenticato di rammentar Ganimede. Nel Canto
                <num>ix</num> del <hi rend="i">Purgatorio</hi> ne ricorda il ratto :</p>
            <quote>
              <l>« In sogno mi parea veder sospesa</l>
              <l>« Un’aquila nel ciel con penne d’oro,</l>
              <l>« Con l’ale aperte ed a calare intesa :</l>
              <l>« Ed esser mi parea là dove foro</l>
              <l>« Abbandonati i suoi da <hi rend="i">Ganimede</hi></l>
              <l>« Quando <hi rend="i">fu ratto</hi> al sommo concistoro. »</l>
            </quote>
            <p>Inoltre nel Canto <num>xxiv</num> dell’<hi rend="i">Inferno</hi> nomina la
              costellazione o segno del Zodiaco in cui fu cangiato Ganimede :</p>
            <quote>
              <l>« In quella parte del giovinett’anno</l>
              <l>« Che ‘lSole i crin sotto l’I]Aquario tempra,</l>
              <l>« E già le notti al mezzo dì sen vanno. »</l>
            </quote>
            <p><hi rend="i">Laomedonte</hi> fu l’unico figlio di <hi rend="i">Ilo</hi> e il
              penultimo re di Troia ; e di lui parlano più a lungo i Mitologi che di tutti i suoi
              predecessori ; ma lo rappresentano con caratteristiche poco favorevoli, cioè come un
              gran mancator di fede, non però impunemente. L’ultima cinta delle mura di Troia fu
              ordinata da Laomedonte, ed i pœti aggiungono eseguita da Nettuno e da Apollo, esuli
              entrambi dal soggiorno degli Dei, privati del diritto della Divinità e ridotti alla
              condizione degli uomini. Compiute che furon le mura, il re spergiuro negò la pattuita
              mercede. Non Apollo e Nettuno soltanto, <pb n="418" xml:id="p418"/>ma tutti gli Dei ne
              furono irritati, e mandarono una inondazione ed una pestilenza nella Troade. Così
              accadde anche allora, come avvien quasi sempre, che son puniti i popoli dei peccati
              del loro re<note place="bottom"><p>Così diceva anche <hi rend="sc"
                    >Orazio</hi> :</p><quote><l>« Quidquid delirant reges, plectuntur
                  Achivi. »</l></quote></note>. Consultato l’Oracolo, rispose che i Troiani per
              liberarsi da questi mali dovevano tutti gli anni esporre a un mostro marino una
              fanciulla di lor nazione per esser divorata come vittima espiatoria. Sulla scelta di
              questa decideva la sorte, la quale dopo qualche anno cadde sopra <hi rend="i"
                >Esìone</hi> figlia dello stesso Laomedonte. Allora soltanto il re si scosse dalla
              sua noncuranza, e per salvar la propria figlia promise un gran premio a chi uccidesse
              l’orca marina che dovea divorarla. In quell’anno stesso aveva Ercole abbandonato gli
              Argonauti sulle coste della Misia, come dicemmo, e percorreva quella regione limitrofa
              alla Troade. Avuta notizia dell’editto di Laomedonte, s’impegnò col re di uccidere
              l’orca, a patto però che gli desse in premio quelle polledre figlie del vento, le
              quali, come dice <hi rend="sc">Omero</hi>,</p>
            <quote>
              <l>« Correan sul capo delle bionde ariste</l>
              <l>« Senza pur sgretolarle ; e se co’salti</l>
              <l>« Prendean sul dorso a lascivir del mare,</l>
              <l>« Sulle spume volavano de’flutti</l>
              <l>« Senza toccarli. »</l>
            </quote>
            <p>Laomedonte promise ; ma, uccisa che fu l’orca, non volle mantener la promessa ; ed
              Ercole non stette a pregar gli Dei che punissero il re spergiuro e mancator di
              parola ; ma col proprio braccio e coll’aiuto di Telamone e di pochi altri compagni
              s’impadronì di Troia, la saccheggiò, uccise Laomedonte, prese <hi rend="i">Esione</hi>
              liberata dal mostro e la diè per isposa a <hi rend="i">Telamone</hi> suo amico, e
              portò seco in ostaggio <hi rend="i">Podarce</hi> principe ereditario, che dopo il suo
              riscatto fu chiamato <hi rend="i">Priamo</hi>.</p>
            <p><pb n="419" xml:id="p419"/>Questo vocabolo, secondo gli antichi etimologisti,
              significa <hi rend="i">riscattato</hi> : è dunque un soprannome col quale quest’ultimo
              ed infelicissimo re Troiano passò alla posterità.</p>
            <p>Degli altri figli di Laomedonte rammentati da Omero nei versi sopracitati è notabile
              soltanto <hi rend="i">Titone</hi> che sposò l’Aurora, come dicemmo. Ora è da
              aggiungersi che avendo l’Aurora ottenuto per esso dagli Dei l’immortalità, si
              dimenticò di chiedere ad un tempo la perpetua giovinezza del suo sposo ; e perciò
              Titone invecchiò tanto che venne in uggia a sè stesso, e desiderò di morire. Gli Dei
              lo cangiarono in <hi rend="i">cicala</hi>, trasformazione a bella posta inventata dai
              poeti per significare quanto egli fosse divenuto querulo nell’estrema sua
              vecchiezza.</p>
            <p>Riscattato che fu <hi rend="i">Priamo</hi> e proclamato re di Troia, sposò <hi
                rend="i">Ècuba</hi> figlia di <hi rend="i">Dimante</hi> re di Tracia, e da essa ebbe
              molti figli, di ciascuno dei quali dovrà parlarsi nel raccontare le estreme sventure
              della loro patria ; e prima converrà dire di quello che ne fu causa, cioè di <hi
                rend="i">Paride</hi>. I poeti si fanno dalla lontana, e veramente <hi rend="i">ab
                ovo</hi>, narrando che Ecuba quand’era incinta di questo figlio sognò di aver
              partorito una fiamma che incendiava tutta l’Asia. Gl’interpreti dei sogni dichiararono
              che il figlio nascituro sarebbe stato causa della rovina della patria. Perciò appena
              nato i genitori lo fecero esporre in un bosco, perchè perisse di disagio, o fosse
              divorato da qualche fiera ; ma invece avvenne di lui come di Edipo, che fu trovato
              vivo da un pastore ed allevato come suo figlio sul monte Ida. Quivi egli crebbe ignaro
              della sua origine, e fu tra i pastori chiamato <hi rend="i">Alessandro</hi> ; ed egli
              è quel desso che fu eletto per giudice della bellezza delle tre Dee, come dicemmo. In
              qual modo poi egli desse causa alla guerra di Troia si dirà subito nel prossimo
              capitolo.</p>
            <pb n="420" xml:id="p420"/>
          </div3>
          <div3 type="chapter">
            <head type="sur">LVII</head>
            <head type="main">Origine della guerra di Troia <lb/>e preparativi per la
              medesima</head>
            <p>Dopo che Venere ebbe riportato pel giudizio di Paride il più splendido trionfo nel
              vanto della bellezza sopra tutte le Dee, convenne pure che pensasse a mantener la
              promessafatta al giudice, di procurargli cioè per moglie la più bella donna del mondo.
              Ma la più bella donna che allor vivesse era la spartana <hi rend="i">Elena</hi>,
              rapita prima da Teseo, e poi divenuta moglie del re Menelao, come dicemmo : e questa
              stessa, secondo le promesse di Venere, doveva divenir moglie dell’umile pastore del
              monte Ida. Era un tal nodo gordiano da non potersi sciogliere facilmente neppur da una
              Dea. In quanto al pastore fu trovato il modo di farlo riconoscere per figlio di Priamo
              e di Ecuba in un torneo in cui Paride vinse tutti i figli del re ; e in tale occasione
              investigando essi l’origine di lui, scuoprirono che egli era il loro fratello esposto
              da bambino nelle selve, e per tale lo riconobbero senza pensar più al sogno di Ecuba e
              all’interpretazione di quello.</p>
            <p>Così Paride divenne principe reale, e perciò di nascita pari a quella di Elena ; e
              come fanno tutti i giovani principi andò a viaggiare negli altri Stati e a visitare le
              altre corti</p>
            <quote>
              <l>« ….. per divenir del mondo esperto</l>
              <l>« E degli vizii umani e del valore. »</l>
            </quote>
            <p>Se allora fosse morto Menelao, nessun ostacolo esser vi poteva perchè il real
              principe troiano sposasse la regina vedova spartana. Ma poichè Menelao non volle morir
              così presto, e <pb n="421" xml:id="p421"/>Venere era tutt’altro che una Dea
              sanguinaria e micidiale, ricorse alle arti sue, ed ispirò ad Elena un fatale
              aborrimento pel marito, talchè la dispose a ripudiarlo e fuggire da esso e seguire
              spontaneamente Paride a Troia. Elena inoltre, per non andar senza dote al suo nuovo
              marito, portò via tutti i più preziosi tesori della corte spartana. Menelao, che
              allora era assente, conosciuto questo fatto molto spiacevole, si affrettò a reclamare
              la moglie e i tesori : a quel che pare, si sarebbe poi contentato anche dei tesori
              soltanto, perchè vide bene che la moglie sarebbe stato meglio perderla che
              riacquistarla. Ma i Troiani non vollero rendere nè l’una nè gli altri. Ecco la vera
              causa della guerra di Troia, perchè Menelao offeso nei sentimenti di amor proprio e
              nell’interesse, giurò vendetta e l’ottenne.</p>
            <p>D’accordo col suo fratello Agamennone, di lui più potente e più ardito, rappresentò a
              tutti i principi greci l’offesa dei Troiani come un insulto nazionale, come un’ onta
              all’intera Grecia ; e la maggior parte di questi principi accorse ad un generale
              congresso in Argo, ove mossi dalle parole e dall’autorità di Agamennone consentirono a
              portar guerra di esterminio ai Troiani, ed elessero Agamennone stesso Duce supremo di
              quell’impresa nazionale e capo di tutti i principi collegati. Ecco perchè egli è
              chiamato dagli Antichi <hi rend="i">re dei re</hi>, e da Dante <hi rend="i">lo Gran
                Duca dei Greci</hi>. Fu risoluto che il luogo di convegno per far tutti insieme il
              passaggio per mare nella Troade sarebbe il porto di <hi rend="i">Aulide</hi> nella
              Beozia in faccia all’isola di Eubea. Vi accorsero infatti principi ed armati da quasi
              tutte le parti della Grecia, ma non tanto in fretta, perchè molti ebbero bisogno di
              prender tempo per prepararsi ; altri pensandovi meglio sembravano pentiti della
              promessa e indugiavano a bella posta, e mancavano fra gli altri quei due famosi Eroi
              che meritarono in appresso, per le loro grandi gesta in quell’impresa, di esser fatti
              da Omero i protagonisti dei suoi due poemi l’<hi rend="i">Iliade</hi> e l’<hi rend="i"
                >Odissea</hi>. E <pb n="422" xml:id="p422"/>veramente di Achille non sapevasi dove
              fosse, ed Ulisse dicevasi divenuto pazzo</p>
            <quote>
              <l>« D’uom che sì saggio era stimato prima. »</l>
            </quote>
            <p>Fortunatamente essendo venuto in Aulide tra i primi <hi rend="i">Palamede</hi> figlio
              di <hi rend="i">Nauplio</hi>, re della vicina isola di Eubea, egli, ingegnosissimo
              qual era, sospettò accortamente che Ulisse fingesse di esser pazzo per non andare alla
              guerra e non lasciare la sua Penelope e il suo Telemaco ; e recatosi in Itaca scuoprì
              la finzione di lui e lo indusse a seguirlo. Ulisse poi si diede ad investigare dove
              fosse Achille, e il modo che tenne per trovarlo (poichè dubitava che si nascondesse in
              abito femminile) fu questo : Si travestì da mercante di gioie, e andò ad offrirle
              nelle corti alle principesse ed alle loro ancelle ; ed avendo fra i monili donneschi
              portato ancora una finissima armatura da guerrieri, fu questa che fece palese
              Achille ; il quale dimenticando il suo travestimento, su di essa fissò il suo sguardo,
              e a quella diè di piglio, quando appositamente Ulisse fingendo un improvviso assalto,
              fe’ suonare la tromba di guerra. Fu allora deciso dei futuri destini di Achille.
              All’eloquente invito di Ulisse s’infiammarono gli spiriti guerreschi del giovane Eroe,
              e ad una lunga vita effemminata ed oscura preferì una breve esistenza terrena, ma
              piena di gloria immortale ; nè valse a ritardarlo e trattenerlo in Sciro l’affetto di
              Deidamia figlia del re, che egli aveva segretamente sposata ; e dalla mollezza e dagli
              agi della corte di Licomede partì con Ulisse per i duri travagli della guerra.</p>
            <p>Intanto in Aulide si erano raccolti tanti guerrieri, che per quanto fece dire <hi
                rend="sc">Dante</hi> a Virgilio,</p>
            <quote>
              <l>« ……. Grecia fu di maschi vota</l>
              <l>« Sì, che appena rimaser per le cune ; »</l>
            </quote>
            <p><pb n="423" xml:id="p423"/>ed eran già da 1200 le navi pronte per fare il passaggio
              nella Troade ; ma il vento spirava sempre contrario alla loro partenza. Allora
              gl’indovini <hi rend="i">Eurìpilo</hi> e <hi rend="i">Calcante</hi> dissero che per
              ottenere favorevoli i venti conveniva placar gli Dei con una vittima umana ; e tanto
              poteva le superstizione a quei tempi, che lo stesso Agamennone re dei re consentì ad
              immolare la propria figlia <hi rend="i">Ifigenía</hi>, e la immolò difatti, secondo
              che scrivono i più, e tra questi anche <hi rend="sc">Dante</hi>, che rammentando nel
              Canto v del <hi rend="i">Paradiso</hi> questo barbaro sacrifizio, soggiunge :</p>
            <quote>
              <l>« Onde pianse Ifigènia il suo bel volto</l>
              <l>« E fe’ pianger di sè i folli e i savi</l>
              <l>« Che udîr parlar di così fatto cólto. »</l>
            </quote>
            <p>Secondo altri però la Dea Diana impedì <hi rend="i">così fatto cólto</hi>, cioè <hi
                rend="i">questo culto</hi> o <hi rend="i">sacrifizio</hi>, e trasportò altrove
              Ifigenia, e in quella vece sostituì per vittima una cerva.</p>
            <p>Finalmente dopo avere i Greci aspettato per un anno il vento favorevole, e dopo il
              sacrifizio o d’Ifigenia o della cerva, gli Dei rimasero placati, i venti spirarono
              favorevoli, ed <hi rend="i">Euripilo</hi></p>
            <quote>
              <l>« ……. diede il punto con <hi rend="i">Calcante</hi></l>
              <l>« In <hi rend="i">Aulide</hi> a tagliar la prima fune. »</l>
            </quote>
          </div3>
          <div3 type="chapter">
            <head type="sur">LVIII</head>
            <head type="main">Decenne assedio <lb/>e battaglie intorno alle mura di Troia</head>
            <p>Nel tempo che i Greci si preparavano per la guerra, i Troiani non stavano inoperosi :
              fabbricavano armi e addestravano armati ; rafforzavano le antiche alleanze e ne
              contraevano delle nuove. <hi rend="i">Priamo</hi> era già vecchio ; ma aveva un <pb
                n="424" xml:id="p424"/>gran numero di figli esercitati tutti nelle armi, e più
              valente degli altri Ettore, il più rispettabile Eroe dell’antichità, poichè a lui non
              si rimprovera alcun difetto, e gli si attribuiscono in sommo grado tutte le virtù
              pubbliche e private, militari e civili.</p>
            <p>Quando l’armata greca con prospera navigazione fu giunta in vista delle coste della
              Troade, scorse in diversi punti di quelle schierato l’esercito troiano, o ad impedire
              lo sbarco, o a far costar cara l’invasione. Nessuno dei Greci osava scendere a terra,
              perchè credevasi che primo perirebbe chi primo scendesse ; e così avvenne infatti a
                <hi rend="i">Protesilao</hi>, il quale, come dice <hi rend="sc">Omero</hi>,</p>
            <quote>
              <l>« Primo ei balzossi dalle navi, e primo</l>
              <l>« Trafitto cadde dal dardanio ferro, »</l>
            </quote>
            <p>e come altri poeti aggiungono, per mano dello stesso Ettore. È ricordata con somme
              lodi <hi rend="i">Laodamia</hi> moglie di lui affettuosissima, la quale desiderando di
              veder l’ombra del marito e poi morire, fu trovata estinta nel suo letto e fu detto che
              era morta dopo averlo veduto in sogno, come desiderava. Molti altri perirono in quel
              primo scontro, che non ebbero ugual fama, e colla loro morte pagarono il primo tributo
              di sangue al Dio della guerra. Ma, finalmente, respinti i Troiani, poterono i Greci,
              tirate a terra le navi, avanzarsi nella Troade.</p>
            <p>Ora convien dire che ai tempi nostri non si capisce facilmente qual genere di guerra
              intendessero i Greci di fare ai Troiani, ossia qual fosse la loro tattica e il loro
              disegno, o, come suol dirsi francescamente, il <hi rend="i">piano di guerra</hi>,
              perchè non cinsero mai la città di Troia in modo che non potesse ricever di fuori e
              viveri e truppe ausiliarie, nè mai, per nove anni, assaltarono la città ; e invece
              facevano scorrerie sulle terre vicine, saccheggiavano le altre città e ne menavano
              schiavi gli abitanti ; e solo nel decimo anno tutti i loro sforzi <pb n="425"
                xml:id="p425"/>si diressero contro Troia. Trovarono forse degli ostacoli che non
              avevano preveduti : la mancanza di provvisioni li costringeva a sbandarsi per
              vettovagliare, e non potevano perciò cingere talmente d’assedio la città da <hi
                rend="i">bloccarla</hi> ; nè fino al decimo anno osarono di assaltarla ; nè i
              Troiani di abbandonare il sistema difensivo. I fatti perciò e gli avvenimenti di quei
              primi nove anni si riducono a pochi : la noia e la stanchezza divenivano sempre più
              generali ed intollerabili ; e perciò inventarono giuochi, fatalità e superstizioni per
              tenere a bada i soldati, e pascere di speranze la loro credulità. Attribuivasi infatti
              a <hi rend="i">Palamede</hi> l’invenzione del giuoco degli scacchi e dei dadi, della
              tessera o contrassegno, delle sentinelle e delle evoluzioni militari ; e si aggiunge
              inoltre di quattro lettere dell’alfabeto greco. Il suo ingegno straordinario meritava
              però miglior sorte, poichè di lui si racconta che fu condannato a morte dai Greci per
              falso sospetto di tradimento ; e questo giudizio fu dichiarato iniquo da Platone
              stesso nel discorso che ei riferisce come fatto da Socrate ai giudici che lo
              condannarono <note place="bottom"><hi rend="sc">Cicerone</hi>, nel libro <num>i</num>
                delle <hi rend="i">Tusculane</hi>, riporta tradotta da lui stesso in latino questa
                parlata di Socrate ; della quale il punto riferibile a Palamede è il seguente :
                « Quanta delectatione autem afficerer, quum <hi rend="i">Palamedem</hi>, quum
                Ajacem, quum alios <hi rend="i">judicio iniquo circumventos</hi>
                convenirem. »</note>. Fu un infame delitto di Ulisse quello di far comparir reo
              Palamede per mezzo di falsi documenti di corrispondenza col nemico, sotterrati a bella
              posta nella tenda di esso. Anche <hi rend="sc">Virgilio</hi> nel libro <num>ii</num>
                dell’<hi rend="i">Eneide</hi> parla di Palamede, e ne fa da Sinone attribuire la
              morte all’invidia e al tradimento di Ulisse in questi termini, secondo la traduzione
              di Annibal Caro :</p>
            <quote>
              <l>« Non so se, ragionandosi, agli orecchi</l>
              <l>« Ti venne mai di Palamede il nome,</l>
              <l>« Che nomato e pregiato e glorïoso,</l>
              <l><pb n="426" xml:id="p426"/>« E da Belo altamente era disceso ;</l>
              <l>« Se ben con falso e scellerato indizio</l>
              <l>« Di tradigion, per detestar la guerra,</l>
              <l>« Ei fu da’Greci indegnamente ucciso :</l>
              <l>« Com’or che ne son privi, i Greci stessi</l>
              <l>« Lo piangon tutti. A questo Palamede,</l>
              <l>« A cui per parentela era congiunto,</l>
              <l>« Il pover padre mio ne’miei prim’anni</l>
              <l>« Pria per valletto nel mestier dell’armi,</l>
              <l>« Poi per compagno a questa guerra diemmi.</l>
              <l>« Infin ch’ei visse, e fu ‘l suo stato in fiore,</l>
              <l>« Fioriro anco i miei giorni ; e l’opre e’l nome</l>
              <l>« E’l grado mio ne fur talvolta in pregio.</l>
              <l>« Estinto lui (chè per invidia avvenne,</l>
              <l>« Come ognun sa, del traditore Ulisse),</l>
              <l>« Amaramente il piansi. »</l>
            </quote>
            <p>Ma che Ulisse avesse ciò fatto per vendicarsi di Palamede, che aveva scoperto la sua
              simulazione d’insania e costrettolo a partir per la guerra, non è facile dimostrarlo,
              in quanto che Omero non ne parla, e perciò appunto Cicerone non lo crede, e stima
              invece che sia questa una invenzione dei Tragici <note place="bottom">« Utile
                videbatur Ulixi, ut quidem pœtæ tragici prodiderunt (nam apud Homerum optimum
                auctorem talis de Ulixe nulla suspicio est), sed insimulant eum tragædiæ simulatione
                insaniæ militiam subterfugere voluisse. » — (<hi rend="sc">Cic</hi>., <hi rend="i"
                  >De Off</hi>., <num>iii</num>, 26, 97.)</note>. Se però il fatto esiste, qualunque
              ne fosse il motivo, nessuno scusa nè assolve Ulisse di avere inventato una sì nera
              calunnia.</p>
            <p>Immaginarono poi certe <hi rend="i">fatalità</hi>, come le chiamano i Mitologi, cioè
                <hi rend="i">decreti del fato</hi>, che dovevano avverarsi o compiersi affinchè
              Troia potesse esser presa dai Greci ; e perciò furono dette <hi rend="i">le fatalità
                di Troia</hi>. Se ne contano sei : <lb/><pb n="427" xml:id="p427"/>1ª <hi rend="i"
                >Fatalità</hi>. — Doveva prender parte alla guerra di Troia <hi rend="i">un
                discendente di Eaco</hi> ; e questa fatalità si avverò la prima colla venuta di <hi
                rend="i">Achille</hi>, che era figlio di <hi rend="i">Peleo</hi> e nipote di <hi
                rend="i">Eaco</hi>, e perciò chiamato dai poeti il <hi rend="i">Pelìde</hi> e l’<hi
                rend="i">Eàcide</hi>.</p>
            <p>2ª <hi rend="i">Fatalità</hi>. — Dovevano aversi nel campo greco <hi rend="i">le
                freccie d’Ercole</hi>, che quest’Eroe morendo lasciò a <hi rend="i">Filottete</hi>
              coll’obbligo di non manifestarle ad alcuno, come dicemmo. I Greci pregarono tanto
              Filottete che ei le portò in Aulide ; ma in pena di aver mancato alla promessa fatta
              ad Ercole, nel maneggiar quelle freccie che erano tinte nel sangue dell’Idra di Lerna,
              glie ne cadde una in un piede, e gli cagionò una piaga così fetente, che i Greci
              nell’andare a Troia lo abbandonarono solo nell’isola di Lenno. In appresso però avendo
              bisogno di quelle freccie, lo andarono a riprendere e lo fecero curare dai medici
              dell’armata <hi rend="i">Macaone</hi> e <hi rend="i">Podalirio</hi>, figli di
              Esculapio, che lo guarirono.</p>
            <p>3ª <hi rend="i">Fatalità</hi>. — Doveva divenire amico un nemico ; e questi era <hi
                rend="i">Tèlefo re di Misia</hi>. Telefo, quantunque di sangue greco per parte di
              padre perchè era figlio di Ercole, essendo divenuto re di <hi rend="i">Misia</hi>,
              regione limitrofa alla Troade, dovè, <hi rend="i">per ragion di Stato</hi>, fare
              alleanza con Priamo contro i Greci ; e l’esercito greco per assicurarsi i fianchi e le
              spalle, prima d’investir Troia invase gli Stati limitrofi. Telefo vinto in battaglia
              fu costretto a fuggir dal suo regno ; e per maggiore sciagura rimase colpito dall’asta
              di Achille, le cui ferite erano insanabili. Consultato l’Oracolo, gli rispose che
              l’asta sola che lo aveva ferito poteva sanarlo. Dovè dunque, se volle ricuperar la
              salute e conservarsi in vita, raccomandarsi ai nemici e sottostare a qualunque
              condizione. Guarito colla limatura del ferro di quell’asta rimase nel campo greco in
              adempimento dei patti, e divenne amico dei Greci per sentimento di gratitudine. <hi
                rend="sc">Dante</hi> rammenta questa virtù dell’asta di Achille nei seguenti versi
              del Canto <num>xxx</num> dell’<hi rend="i">Inferno</hi> :</p>
            <quote>
              <l><pb n="428" xml:id="p428"/>« Così od’io che soleva <hi rend="i">la lancia</hi></l>
              <l>« <hi rend="i">D’Achille</hi> e del suo padre esser cagione</l>
              <l>« Prima di trista e poi di buona mancia. »</l>
            </quote>
            <p>4ª <hi rend="i">Fatalità</hi>. — Bisognava impedire che <hi rend="i">i cavalli di
                Reso</hi> re di Tracia, bevessero le acque del fiume <hi rend="i">Xanto</hi> ; il
              che significava di impedire a Reso di recar soccorsi a Troia ; ed era questa non già
              una superstizione, ma una necessaria precauzione di guerra. Ulisse e Diomede
              provvidero che si avverasse questa <hi rend="i">fatalità</hi>, uccidendo Reso prima
              che arrivasse a Troia e portando nelle greche trinciere i cavalli di lui.</p>
            <p>5ª <hi rend="i">Fatalità</hi>. — Dovevano i Greci impadronirsi del <hi rend="i"
                >Palladio</hi> che era nel tempio di Pallade dentro alla rocca di Troia. Ulisse e
              Diomede essendo penetrati in Troia travestiti da mendici, uccisero alla sprovvista i
              custodi della fortezza e rapirono il <hi rend="i">Palladio</hi> e lo portarono nel
              campo greco. Questo fatto straordinario è rammentato da <hi rend="sc">Virgilio</hi> ne
              lib. <num>ii</num> dell’<hi rend="i">Eneide</hi>
              <note place="bottom"><quote><l> « <hi rend="i">Tydides</hi> sed enim scelerumque
                    inventor Ulysses,</l><l>« <hi rend="i">Fatale</hi> aggressi sacrato avellere
                    templo</l><l>« <hi rend="i">Palladium</hi>, cæsis summæ custodibus
                    arcis,</l><l>« Corripuere sacram effigiem, manibusque cruentis</l><l>« <hi
                      rend="i">Virgineas</hi> ausi <hi rend="i">Divœ</hi> contingere <hi rend="i"
                      >vittas</hi>. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc">Virg</hi>.,
                    <title>Æneid.</title>, <num>ii</num>, v. 164…..)</bibl></note>, e da <hi
                rend="sc">Dante</hi> nel C. <num>xxvi</num> dell’<hi rend="i">Inferno</hi>.</p>
            <p>Dante pose nel <hi rend="i">Limbo</hi></p>
            <quote>
              <l>« ………. il grande Achille</l>
              <l>« Che con amore alfine combatteo ; »</l>
            </quote>
            <p>ma nell’<hi rend="i">Inferno</hi> il fraudolento Ulisse col suo compagno Diomede
              circondati ambedue dalle fiamme :</p>
            <quote>
              <l>« ……… e così insieme</l>
              <l>« Alla vendetta corron come all’ira ;</l>
              <l>« E dentro dalla lor fiamma si geme</l>
              <l>« L’aguato del caval che fe’ la porta</l>
              <l>« Ond’uscì de’Romani il gentil seme.</l>
              <l><pb n="429" xml:id="p429"/>« Piangevisi entro l’arte, perchè morta</l>
              <l>« <hi rend="i">Deidamia</hi> ancor si duol d’<hi rend="i">Achille</hi>,</l>
              <l>« <hi rend="i">E del Palladio pena vi si porta</hi>. »</l>
            </quote>
            <p>6ª <hi rend="i">Fatalità</hi>. — Dovevasi abbattere il <hi rend="i">sepolcro di
                Laomedonte</hi> : e questa fatalità fu compiuta per opera dei Troiani stessi il
              giorno avanti l’eccidio della loro città, come vedremo.</p>
            <p>Nel decimo anno del lungo e lento assedio di Troia avvennero intorno alle mura di
              essa le più memorabili battaglie, che furono narrate maravigliosamente da Omero. L’<hi
                rend="i">Iliade</hi> ne contiene la lunga serie ; e perciò per traslato suol dirsi
                <hi rend="i">un’iliade di sventure</hi> a significare una lunga serie di esse.
              Sebbene il titolo d’<hi rend="i">Iliade</hi> che diede Omero al suo poema, derivando
              da <hi rend="i">Ilio</hi>, appelli in generale alle vicende di Troia, il <hi rend="i"
                >poeta sovrano</hi> ne ristrinse così i limiti nella proposizione del soggetto :</p>
            <quote>
              <l>« Cantami, o Diva, <hi rend="i">del Pelìde Achille</hi></l>
              <l>« <hi rend="i">L’ ira funesta</hi> che infiniti addusse</l>
              <l>« Lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco</l>
              <l>« Generose travolse alme d’eroi,</l>
              <l>« E di cani e di augelli orrido pasto</l>
              <l>« Le salme abbandonò (così di Giove</l>
              <l>« L’alto consiglio s’adempia), da quando</l>
              <l>« Primamente disgiunse aspra contesa</l>
              <l>« Il re de’prodi <hi rend="i">Atride</hi> e il divo <hi rend="i"
                >Achille</hi>. »</l>
            </quote>
            <p><hi rend="sc">Omero</hi> dunque cantò nell’<hi rend="i">Iliade</hi> l’ira di Achille
              e le funeste conseguenze di quella. Il poema comincia dal narrare la causa che
              produsse l’inimicizia fra Achille ed Agamennone, e termina con la morte e le esequie
              di Ettore. Il tempo in cui avvennero tutti i fatti ivi narrati si estende, secondo i
              computi degli eruditi, tutt’al più a 51 giorno.</p>
            <p>Anche chi non abbia prima d’ora letto l’<hi rend="i">Iliade</hi>, potrà, dopo
              l’introduzione da me fatta di sopra a questa lettura, intender tutto il poema senza
              fatica. Supponendo pertanto <pb n="430" xml:id="p430"/>che quanto prima leggerà questo
              poema chiunque non l’abbia ancor letto, accennerò brevissimamente i fatti principali
              che vi si contengono, per l’obbligo che mi corre di non lasciar lacune nel mio umile
              racconto.</p>
            <p>La causa che inimicò Achille con Agamennone fu una prepotenza del re dei re. Era uso
              comune in quelle antiche guerre da masnadieri devastar prima ed uccidere, e poi rapire
              non solamente le cose ma pur anco le persone e dividersi le prede fra i combattenti.
              Le persone divenivano schiave ed eran trattate come bestie da soma. Finchè durò il
              Paganesimo, tutti i popoli antichi, anche i più civili, e gli stessi Romani,
              consideravano gli schiavi non come persone, ma come cose. — Aveva Agamennone una
              schiava chiamata <hi rend="i">Crisèide</hi> perchè figlia di <hi rend="i">Crisa</hi>
              sacerdote e re ; e venuto il padre a riscattarla con ricchi doni, era stato respinto
              da Agamennone stesso con modi aspri e minacciosi. Poco dopo infierendo una pestilenza
              nel campo greco, fu creduta una vendetta di Apollo per l’insulto fatto al suo
              sacerdote. Ciò disse l’indovino <hi rend="i">Calcante</hi> in pubblico parlamento, e
              quindi incoraggiato e rassicurato da Achille dichiarò che bisognava render <hi
                rend="i">Criseide</hi> al padre con doni ed offerte ad Apollo per placare quel Nume
              e far cessare la pestilenza. Agamennone s’impermalì di trovarsi costretto a render <hi
                rend="i">Criseide</hi>, e imbizzarrito insultò Calcante, e disse di volere un’altra
              schiava in compenso, diversamente toglierebbe a forza quella che più gli piacesse a
              qualunque degli altri capitani, foss’anche lo stesso <hi rend="i">tremendissimo</hi>
              Achille. Seguì allora una tale altercazione con parole e frasi sì poco parlamentari,
              che fu per terminare colla uccisione di Agamennone per mano di Achille, se questi non
              era trattenuto dalle eloquenti esortazioni del vecchio Nestore, e più ancora dalla Dea
              Minerva, che</p>
            <quote>
              <l>« Gli venne a tergo e per la bionda chioma</l>
              <l>« Prese il fiero Pelide, a tutti occulta,</l>
              <l>« A lui sol manifesta, »</l>
            </quote>
            <p><pb n="431" xml:id="p431"/>e gl’impedì di uccidere il re dei re. Obbedì Achille, ma
              giurò per altro di non più combatter per esso. E ritiratosi nelle sue navi con <hi
                rend="i">Patroclo</hi> suo inseparabile amico e coi suoi <hi rend="i">Mirmidoni</hi>
              non si oppose, benchè in cuor suo ne fremesse, a lasciar condur via dagli araldi
              mandati da Agamennone, la sua schiava <hi rend="i">Briseide</hi>, rispettando in essi
              il diritto delle genti, e confidando che farebber le sue vendette i nemici. Infatti i
              Troiani, conosciuta l’ira e la volontaria inazione di Achille, presero coraggio ad
              assaltare i Greci, ed in pochi giorni furon date le più straordinarie e famose
              battaglie che sieno mai state descritte, con vicende così mirabili che furon copiate o
              imitate da tutti i poeti epici. Son però belle e mirabili colla lor veste poetica :
              diverrebbero monotone narrandole in prosa, ora tanto più che le armi da fuoco hanno
              resa inutile la straordinaria forza del braccio, e che il più debole artigliere col
              suo cannone è più potente e più micidiale di Achille e di Diomede colle spade e colle
              lance.</p>
            <p>Convien qui notare quel che i <hi rend="i">rètori</hi> hanno chiamato la <hi rend="i"
                >macchina</hi>, cioè l’intervento personale delle Divinità nelle contese degli
              uomini ; e nella guerra troiana le Divinità che vi prendono parte perdono anzichè
              guadagnare della lor dignità. È facile indovinare che Venere favorirà i Troiani in
              grazia del giudizio di Paride, e che Marte campione di Venere la seconderà in tutto e
              per tutto ; e per le opposte ragioni Giunone e Minerva, per dispetto cioè del giudizio
              di Paride e per invidia di Venere, perseguiteranno i Troiani e favoriranno i Greci ; e
              così altre Divinità, secondo le loro simpatie o antipatie, come fanno i mortali,
              prenderanno parte o per gli uni o per gli altri combattenti <note place="bottom"
                    ><quote><l> « <hi rend="i">Mulciber</hi> in Troiam, pro Troia stabat <hi
                      rend="i">Apollo</hi> ;</l><l>« Æqua <hi rend="i">Venus</hi> Teucris, <hi
                      rend="i">Pallas</hi> iniqua fuit. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc"
                  >Ovid</hi>., <title>Trist.</title>, <num>i</num>, 2ª.)</bibl></note>.</p>
            <p><pb n="432" xml:id="p432"/>Il fatto più strano che si possa immaginare si è che
              Venere e Marte furon feriti in battaglia da Diomede : sangue non uscì dalle loro
              immortali, eppure non invulnerabili membra, ma <hi rend="i">quasi sangue</hi>, cioè un
              certo umore che i celesti, per quanto ci assicura <hi rend="sc">Omero</hi>, chiamano
                <hi rend="i">icòre</hi>,</p>
            <quote>
              <l>« Qual corre de’beati entro le vene ;</l>
              <l>« Ch’essi nè frutto cereal gustando,</l>
              <l>« Nè rubicondo vino, esangui sono,</l>
              <l>« E quindi han nome d’Immortali. »</l>
            </quote>
            <p>Per quanto i capitani greci facessero prodigi di valore a gara con Diomede, la sorte
              era contraria al loro esercito, il quale rimaneva quasi sempre perdente e respinto :
              ad ogni battaglia cresceva il numero dei morti e dei feriti in grandi proporzioni, e
              per conseguenza lo scoraggiamento dei superstiti ed illesi. Si notò allora con dolore
              l’assenza di Achille, e sorse vivissimo in tutti i cuori il desiderio di lui : lo
              stesso Agamennone si pentì di averlo insultato. E Achille intanto nelle sue sicure
              tende godeva delle sconfitte dei Greci ; e per quanto Agamennone gli offrisse per
              mezzo dei più illustri personaggi della sua armata, oltre la restituzione di Briseide,
              i più ricchi doni ed una delle proprie figlie in isposa, Achille stette fermo al niego
              e respinse sdegnosamente qualunque proposta di conciliazione. Qualche giorno dopo,
              peggiorando sempre le condizioni del greco esercito,</p>
            <quote>
              <l>« ………… chè quanti</l>
              <l>« Eran dianzi i miglior, tutti alle navi</l>
              <l>« Giacean feriti, quale di saetta,</l>
              <l>« Qual di fendente : di saetta il forte</l>
              <l>« Tidìde Diomede, e di fendente</l>
              <l>« L’inclito Ulisse e Agamennòn ; »</l>
            </quote>
            <p>si presentò Patroclo piangendo ad Achille, e lo pregò di permettergli almeno di
              combatter egli con le divine armi <pb n="433" xml:id="p433"/>di lui per trattenere
              alquanto l’impeto dei Troiani che stavano per irrompere nelle greche trincee.
              L’ottenne ; ma la sua pietà gli costò cara, perchè dopo aver dato prove di mirabil
              valore facendo strage dei nemici, quand’era già stanco incontrò Ettore, e combattendo
              con lui rimase ucciso. Il tristo annunzio colpì talmente Achille, che dopo aver con
              gemiti e con pianto sfogato il suo immenso affanno rivolse contro Ettore, per vendicar
              l’amico estinto, tutta l’ira che aveva prima contro Agamennone. Non voleva aspettare
              un sol giorno le nuove armi che la madre Teti gli fece far da Vulcano (poichè delle
              antiche, imprestate a Patroclo, erasi impadronito Ettore) ; e appena l’ebbe indossate
              si mischiò tra i combattenti spingendo furiosamente il suo cocchio in cerca
              dell’uccisore di Patroclo. Trovatolo e costringendolo subito a combattere non volle
              udir patti, neppur di render la salma ai parenti e al sepolcro ; con impeto
              irrefrenabile lo investì, lo ferì, lo abbattè, l’uccise ; e spogliatolo delle armi e
              legatigli i piedi al suo carro, lo trascinò per tre volte nella polvere intorno alle
              mura di Troia ; e poi tornato alle sue tende lo trascinò altre volte intorno al
              cadavere di Patroclo, quasi che l’estinto amico dovesse esultar degli strazii del
              cadavere del suo uccisore. Compiuti poi solennemente i funebri onori e raccolte le
              ceneri del fido amico nell’urna stessa destinata ad accoglier le sue, aveva risoluto
              di lasciar pasto alle fiere dell’aria e della terra il corpo di Ettore ; quando la
              sera vede comparire nella sua tenda il vecchio re Priamo, che inginocchiatosi davanti
              a lui gli bacia piangendo quella mano che gli uccise il figlio, e lo prega
              singhiozzando di rendergli il corpo di Ettore per dargli sepoltura, offrendo per
              riscatto ricchissimi doni che seco aveva recati. A questa vista Achille si sente
              commosso e diventa un altr’uomo ; fa alzare da terra il vecchio re, lo vuol seco a
              mensa, lo costringe a prender seco qualche cibo e bevanda, pietosamente piange al suo
              pianto, e gli accorda il corpo del suo figlio senza alcun <pb n="434" xml:id="p434"
              />riscatto. Anzi per aver tempo di far lavare e sparger di balsami quel deformato
              cadavere, obbliga Priamo a dormir quella notte nella sua tenda, e la mattina gli fa
              trovare imbalsamata la salma di Ettore in un funebre carro coperto di un ricchissimo
              manto e gli assegna un drappello di Mirmidoni che lo accompagnino sino a Troia. Colla
              descrizione dei funebri onori resi ad Ettore in Troia termina l’<hi rend="i"
                >Iliade</hi>, la quale chiudesi con le seguenti semplicissime parole :</p>
            <quote>
              <l>« Questi furo gli estremi onor renduti</l>
              <l>« Al domatore di cavalli Ettorre. »</l>
            </quote>
            <p>Anche <hi rend="sc">Ugo Foscolo</hi> termina il suo celebre Carme sui <hi rend="i"
                >Sepolcri</hi> con le lodi di quest’Eroe Troiano morto in difesa della patria :</p>
            <quote>
              <l>« E tu onore di pianti, Ettore, avrai</l>
              <l>« Ove fia santo e lagrimato il sangue</l>
              <l>« Per la patria versato, e finchè il Sole</l>
              <l>« Risplenderà sulle sciagure umane <note place="bottom"><p>È famigerato ed
                    assiomatico il bel verso di <hi rend="sc">Orazio</hi> :</p><quote><l>« Dulce et
                      decorum est pro patria mori. »</l></quote></note>. »</l>
            </quote>
            <p>Parrebbe che dopo la morte di Ettore, che era il più formidabil guerriero Troiano, e
              sopravvivendo tuttora Achille, dovesse Troia esser presa e disfatta dai Greci in pochi
              giorni ; ma non fu così. Apparisce invece che per la stanchezza delle precedenti
              battaglie e per le gravi ferite che avevano tocche i più dei capitani di ambe le
              parti, vi fosse, senza bisogno di pattuirla, una tregua necessaria indispensabile. È
              da credersi ancora che Achille dopo essersi intenerito per <hi rend="i">Priamo</hi>
              s’intenerisse non meno per <hi rend="i">Polissena</hi> figlia di lui, poichè aderì
              alla proposta fattagli di sposarla, e per trattarne andò nel tempio di Apollo, ove
              Paride a tradimento lo ferì nel calcagno, sola parte del suo corpo in cui egli era <pb
                n="435" xml:id="p435"/>vulnerabile, e tagliatogli quel <hi rend="i">tendine</hi>,
              che d’allora in poi fu chiamato <hi rend="i">di Achille</hi>, gli cagionò la morte.
              Dolenti i Greci di aver perduto il loro principal sostegno, gli resero onori divini,
              gli eressero un monumento sul promontorio <hi rend="i">Sigèo</hi>, e chiusero le sue
              ceneri nella stessa urna ov’eran quelle di Patroclo, com’egli avea desiderato.</p>
            <p>Insorse quindi una grave contesa per decidere chi dovesse possedere quelle armi che
              furono opra di Vulcano, impareggiabili per tempra e per lavoro. Rimasero i più
              ostinati a contrastarsele <hi rend="i">Aiace Telamonio</hi> ed <hi rend="i"
                >Ulisse</hi> ; quegli più prode di braccio, questi più valente di consiglio. In
              pubblico parlamento esposero entrambi i loro titoli ad avere la preferenza, ma vinse
              Ulisse col fascino della sua facondia ; e Aiace ne rimase così indignato che perdè il
              senno, e divenuto furibondo, mentre errava per la campagna incontrò una mandra di
              porci, e credendoli altrettanti greci li uccise tutti : quindi in un lucido intervallo
              accortosi del suo errore e della sua sventura intellettuale si tolse da sè stesso la
              vita colla propria spada.</p>
            <p>Per la morte di Achille veniva a mancare nel campo greco la presenza di un <hi
                rend="i">Eacide</hi>, e perciò la prima delle <hi rend="i">fatalità di Troia</hi>,
              di cui abbiamo parlato. Ma Ulisse sapeva bene che di Achille esisteva un figlio nato
              da Deidamia, e vivente anche allora alla corte dell’avo suo Licomede in Sciro : quindi
              andò ad invitarlo a recarsi al campo di Troia per vendicar la morte del padre ; e <hi
                rend="i">Pirro</hi>, degno figlio di Achille, non ebbe mestieri di altre parole per
              seguire Ulisse ; e quantunque giunto appena alla pubertà,</p>
            <quote>
              <l>« Tra giovane e fanciullo età confine,</l>
              <l>« L’età precorse e la speranza : e presti</l>
              <l>« Pareano i fior quando n’usciro i frutti. »</l>
            </quote>
            <p>I Greci gli posero il soprannome di <hi rend="i">Neottòlemo</hi>, che significa il
              nuovo venuto alla guerra, il nuovo guerriero.</p>
            <p><pb n="436" xml:id="p436"/>Al tempo stesso Ulisse, al suo ritorno con Pirro, passò
              per l’isola di Lenno per ricondurre al campo greco <hi rend="i">Filottete</hi>,
              abbandonato, come dicemmo, in quell’isola, ove pel dolor della sua ferita, di cui non
              era ancora guarito, condusse una vita piena di affanni e di privazioni. Non fu già in
              Ulisse commiserazione per la disgrazia di Filottete, ma calcolo di politica per aver
              nuovamente nel campo greco le <hi rend="i">freccie d’Ercole</hi> in adempimento di una
              delle fatalità di Troia. Filottete infatti non si fidava di Ulisse, e solo consentì e
              si risolse di andar con lui, rassicurato che fu dalle parole del giovinetto Pirro che
              tanto somigliava il leale e generoso Achille. Giunto nel campo greco fu guarito da <hi
                rend="i">Macaone</hi> e <hi rend="i">Podalirio</hi> figli di Esculapio ; e allora
              mise in opera subito una di quelle freccie saettando Paride, che di quella ferita
              morì. La qual morte del rapitore di Elena diede la maggior soddisfazione all’offeso
              Menelao, e tolse di mezzo un altro ostacolo a terminar finalmente in qualche modo la
              lunga e disastrosa guerra.</p>
            <p>Prima però di raccontare l’eccidio di Troia, convien far parola, almeno
              incidentalmente, di quei principi e guerrieri, amici ed alleati dei Troiani che
              recaron loro soccorso personalmente e perderon per essi la vita in battaglia. Fra
              questi v’eran due <hi rend="i">Semidei</hi>, cioè <hi rend="i">Sarpèdone</hi> figlio
              di Giove e di Laodamia, e <hi rend="i">Mènnone</hi> figlio dell’Aurora e di Titone.
              Essendo ambedue re, il primo della Licia ed il secondo dell’Etiopia, andarono alla
              guerra con una schiera di lor gente, e furono entrambi uccisi in battaglia da Achille,
              o secondo altri da Ulisse. Dopo la loro morte accaddero dei miracoli : il corpo di <hi
                rend="i">Sarpèdone</hi> fu trasportato invisibilmente (si dice da Apollo per ordine
              di Giove) nel suo regno di Licia perchè i suoi popoli gli rendessero solennemente i
              funebri onori.</p>
            <p>Dal rogo di Mènnone, mentre il suo corpo ardeva uscirono degli uccelli di una nuova
              specie non prima veduta, che furon chiamati uccelli <hi rend="i">Mennònidi</hi> ; ma
              non v’è stato mai <pb n="437" xml:id="p437"/>da sapere a qual classe appartenessero,
              secondo la nomenclatura degli Ornitologi. Si racconta ancora un altro miracolo, che
              dalla statua di <hi rend="i">Mènnone</hi>, quando era percossa dai raggi del Sole,
              uscivano suoni musicali come quelli di una cetra : i sacerdoti facevan credere al
              volgo che lo spirito di Mènnone animando quella statua tramandasse quei suoni per
              salutare il Sole suo avo quando la irradiava ; ed erano essi che penetrando per
              occulti accessi nella cavità della statua suonavano a quelle date ore una cetra.</p>
            <p>Non convien passar sotto silenzio la regina delle Amazzoni <hi rend="i"
                >Pentesilèa</hi>, che Virgilio e Ovidio asseriscono essere accorsa in aiuto dei
              Troiani con una schiera delle sue compagne e che fu uccisa da Achille. <hi rend="sc"
                >Virgilio così</hi> la descrive nel lib. <num>i</num> dell’<hi rend="i"
              >Eneide</hi> :</p>
            <quote>
              <l>« Scorge d’altronde di lunati scudi</l>
              <l>« Guidar <hi rend="i">Pentesilèa</hi> l’armate schiere</l>
              <l>« Dell’Amazzoni sue : guerriera ardita</l>
              <l>« Che succinta, e ristretta in fregio d’oro</l>
              <l>« L’adusta mamma, ardente e furïosa</l>
              <l>« Tra mille e mille, ancor che donna e vergine,</l>
              <l>« Di qual sia cavalier, non teme intoppo. »</l>
            </quote>
            <bibl>(Traduzione del Caro).</bibl>
            <p><hi rend="sc">E Dante</hi> asserisce di averla veduta nel <hi rend="i">Limbo</hi>
              colle Eroine :</p>
            <quote>
              <l>« Vidi Camilla e la <hi rend="i">Pentesilea</hi></l>
              <l>« Dall’altra parte. »</l>
            </quote>
          </div3>
          <div3 type="chapter">
            <head type="sur">LIX</head>
            <head type="main">Eccidio di Troia</head>
            <p>L’invenzione del cavallo di legno per prender la città di Troia è non solo di nuovo
              genere, ma unica nel suo genere. Omero dice che fu uno <hi rend="i">stratagemma</hi>,
              Virgilio un’<hi rend="i">insidia</hi> e Dante un <hi rend="i">aguato</hi>. Dante,
              secondo il solito, ne fa soltanto un <pb n="438" xml:id="p438"/>cenno, perchè sempre
              suppone noto ai suoi lettori tutto ciò che hanno scritto i classici greci e latini, e
              principalmente Omero e Virgilio, mentre questi non pensano e non rivolgono mai il
              discorso ai loro lettori, e narrano o descrivono a lungo quanto suggerisce o ispira
              loro la Musa, senza curarsi se a chi legge sia noto o no quel che essi dicono, o sono
              per dire.</p>
            <p><hi rend="sc">Omero</hi> nel libro <num>viii</num> dell’<hi rend="i">Odissea</hi>,
              parlando del cavallo di legno, lo chiama</p>
            <quote>
              <l>« ……………. l’edifizio</l>
              <l>« Del gran cavallo che d’inteste travi</l>
              <l>« Con <hi rend="i">Pallade</hi> al suo fianco <hi rend="i">Epeo</hi> costrusse,</l>
              <l>« E <hi rend="i">Ulisse</hi> penetrar feo nella rôcca</l>
              <l>« Dardania, pregno (<hi rend="i">stratagemma</hi> insigne !)</l>
              <l>« Degli eroi per cui Troia andò in faville. »</l>
            </quote>
            <bibl>(Traduz. di Pindemonte.)</bibl>
            <p><hi rend="sc">E Virgilio</hi> nel libro <num>ii</num> dell’ <hi rend="i">Eneide</hi>
              facendo narrare da Enea la presa e l’incendio di Troia palesa pur anco il motivo per
              cui ricorsero i Greci a questa <hi rend="i">insidia</hi> :</p>
            <quote>
              <l>« ……….. Sbattuti e stanchi</l>
              <l>« Di guerreggiar tant’anni, e risospinti</l>
              <l>« Ancor da’ fati i greci condottieri</l>
              <l>« All’<hi rend="i">insidie</hi> si diero ; e da <hi rend="i">Minerva</hi></l>
              <l>« Divinamente instrutti un gran cavallo</l>
              <l>« Di ben contesti e ben confitti abeti</l>
              <l>« In sembianza d’un monte edificaro.</l>
              <l>« Poscia finto che ciò fosse per vóto</l>
              <l>« Del lor ritorno, di tornar sembiante</l>
              <l>« Fecero tal che se ne sparse il grido.</l>
              <l>« Dentro al suo cieco ventre e nelle grotte,</l>
              <l>« Che molte erano e grandi in sì gran mole,</l>
              <l>« Rinchiuser di nascoso arme e guerrieri</l>
              <l>« A ciò per sorte e. per valore eletti. »</l>
            </quote>
            <bibl>(Traduz. del Caro.)</bibl>
            <p><pb n="439" xml:id="p439"/>Veramente benchè il cavallo contenesse molti armati
              (dicono trecento), e questi fossero i più prodi guerrieri capitanati dall’accortissimo
              Ulisse, fu un grande azzardo chiudersi come in una torre di legno nelle vicinanze di
              Troia, mentre il rimanente dell’esercito era già partito sulle navi e ritiratosi
              dietro l’isola di <hi rend="i">Tènedo</hi>, venti e più miglia distante. Nè mancò fra
              i Troiani chi proponesse d’incendiar quel cavallo di legno, o gettarlo nel mare, o
              farlo a pezzi, sospettandovi dentro un inganno dei Greci ; e per quanto gli Antichi si
              sieno affaticati a scusar l’opposta deliberazione, inventando superstizioni, miracoli
              e frodi di <hi rend="i">Sinone</hi>, non son mai riusciti a far creder perdonabile la
              cecità dei Troiani ; i quali non solo rispettarono come un voto sacro a Minerva quel
              cavallo, ma lo trasportarono nella loro fortezza, abbandonandosi spensieratamente alla
              gioia per la partenza dei Greci, ai conviti, all’ebbrezza ed al sonno. E nella notte
              usciti dal cavallo i guerrieri che vi si erano racchiusi, e tornati indietro da Tenedo
              i soldati della greca flotta, invadono la città sepolta nel sonno e nel vino, come
              dice Virgilio<note place="bottom"><quote><l> Invadunt Urbem somno vinoque
                    sepultam. »</l></quote><bibl>(<title>Æneid.</title>, <num>ii</num>,
                265.)</bibl></note>, la incendiano e distruggono, uccidendo chi resisteva e facendo
              schiavi gl’ inermi, gl’ imbelli e le donne che non furono in tempo a mettersi in salvo
              altrove. Ecco in poche parole il tragico avvenimento della presa di Troia ; ma gli
              episodii son tanti che empirebbero un volume, e conviene almeno accennarne i
              principali e più famigerati.</p>
            <p>L’episodio di <hi rend="i">Laocoonte</hi> fu reso celebre non solo da Virgilio, ma
              anche dalla greca scultura. Laocoonte sacerdote di Apollo fu uno di quei Troiani che
              volevano incendiare o in qualunque altro modo distruggere il cavallo di legno, e
              inoltre gli scagliò un dardo che rimase confitto nel fianco e fece risuonare le
              interne cavità. Poco dopo avvenne (vero o <pb n="440" xml:id="p440"/>falso che sia)
              che due grossi serpenti si avvinghiarono a lui e a due suoi figli e li strangolarono
              tutti e tre. Fu detto subito che questo era un castigo di Minerva, perchè Laocoonte
              aveva violato quel dono a lei offerto in voto dai Greci. Questo fatto orribile fu
              rappresentato dal greco scalpello in un gruppo (esistente tuttora nella galleria del
              Vaticano) nel quale vedesi Laocoonte con i due suoi figli in atto di fare i supremi
              sforzi per liberarsi da quelli spaventevoli serpenti che li cingono con le loro spire.
              Può vedersene anche una copia in marmo (fatta da Baccio Bandinelli) nella galleria
              degli Uffizi in Firenze.</p>
            <p>Delle astuzie poi e delle frodi del greco <hi rend="i">Sinone</hi> per farsi credere
              nemico dei Greci e indurre i Troiani a portare in Troia il cavallo di legno, oltre al
              farne la più eloquente narrazione Virgilio, ne parla anche <hi rend="sc">Dante</hi>,
              che mette Sinone nell’Inferno tra i fraudolenti, e fa che un altro dannato altercando
              con esso gli rimproveri le sue frodi, dicendogli :</p>
            <quote>
              <l>« Ma tu non fosti sì ver testimonio</l>
              <l>« Là ‘ve del ver fosti a Troia richiesto.</l>
              <l>« Ricorditi, spergiuro, del cavallo,</l>
              <l>« E sieti reo, chè tutto il mondo sallo. »</l>
            </quote>
            <p>Quanto ai principali guerrieri che entrarono nel cavallo sarà bene di conoscerne i
              nomi riferiti da <hi rend="sc">Virgilio</hi>, per intendere qual grave perdita sarebbe
              stata per l’esercito greco se fossero periti tutti questi illustri Eroi,</p>
            <quote>
              <l>« Che fur Tessandro e Stenelo ed Ulisse,</l>
              <l>« Acamante e Toante e Macaone</l>
              <l>« E Pirro e Menelao con lo scaltrito</l>
              <l>« Fabbricator di quest’inganno, Epeo. »</l>
            </quote>
            <bibl>(Traduz. del Caro.)</bibl>
            <p>Virgilio racconta ancora con qual facilità trasportarono i Troiani in poche ore
              quell’immenso e pesantissimo cavallo <pb n="441" xml:id="p441"/>pieno d’armi e
              d’armati dal campo greco fin dentro Troia, ed anche nell’alto della rôcca ; il qual
              racconto è da far maravigliare tutti i moderni Ingegneri e Meccanici, se lo credessero
              vero. Non ostante non sarà male il sentir come fecero i Troiani, secondo quel che <hi
                rend="sc">Virgilio</hi> fa dire da Enea :</p>
            <quote>
              <l>« Ruiniamo la porta, apriam le mura,</l>
              <l>« Adattiamo al cavallo ordigni e travi,</l>
              <l>« E ruote e curri ai piedi e funi al collo.</l>
              <l>« Così mossa e tirata agevolmente</l>
              <l>« La macchina fatale, il muro ascende</l>
              <l>« D’armi pregna e d’armati. Ella per mezzo</l>
              <l>« Tratta della città, mentre si scuote,</l>
              <l>« Mentre che nell’andar cigola e freme,</l>
              <l>« Sembra che la minacci. »</l>
            </quote>
            <p>Fu in quel giorno che si avverò l’ultima <hi rend="i">fatalità di Troia</hi>, che
              consisteva, come dicemmo, nell’atterrare il sepolcro di Laomedonte ; il qual sepolcro
              essendo addossato alle mura della città in quel punto stesso ove fu necessario
              rovinarle per farvi passare il cavallo, venne così ad essere atterrato dai Troiani
              stessi.</p>
            <p>Ma più che all’insidia del cavallo di legno è probabile che dovessero i Greci la
              presa di Troia al tradimento. Tal ne corse la fama che fu accolta come nunziatrice del
              vero anche da celebri scrittori, e tra questi dall’Alighieri. Fu detto
              antichissimamente che <hi rend="i">Antènore</hi> nipote di Priamo <hi rend="i">ex
                sorore</hi> tradisse i Troiani, e che perciò potè uscire illeso di mezzo alle argive
              schiere e trasportarsi in Italia, ove fondò <hi rend="i">Padova</hi>. Che anche Dante
              avesse di lui questa opinione lo dimostrò coll’aver dato il nome di <hi rend="i"
                >Antenòra</hi> a quella divisione dell’Inferno in cui son puniti i traditori della
              patria, tra i quali trovò il Conte Ugolino. Ma gli scrittori greci per non menomare il
              merito dei loro Eroi nascosero più che <pb n="442" xml:id="p442"/>poterono il
              tradimento, talchè a noi di quel fatto così remoto</p>
            <quote>
              <l>« Debil’aura di fama appena giunge. »</l>
            </quote>
            <p>Il sospetto di tradimento cresce ancora dal sapersi che Elena dopo la morte di
              Paride, pur restando nella corte troiana, aveva saputo trovare il modo di persuader
              Menelao a riprenderla per moglie al suo ritorno in Grecia, come difatti avvenne. Anche
              di Enea fu detto da qualche scrittore di minor conto che egli fosse stato in qualche
              modo d’accordo coi Greci ; ma oltre che di sì grave accusa non si trova traccia alcuna
              in Omero, egli è poi sì altamente encomiato come il <hi rend="i">pio Enea</hi> nel
              poema epico di Virgilio, che lo stesso <hi rend="sc">Dante</hi> ha detto di lui :</p>
            <quote>
              <l>« Ch’ei fu dell’alma Roma e del suo impero</l>
              <l>« Nell’empireo Ciel per padre eletto. »</l>
            </quote>
            <p>Di Enea dunque sarà necessario parlare a lungo in un capitolo a parte.</p>
            <p>Fra gli episodii però dell’eccidio di Troia uno dei più lagrimevoli è quello della
              morte del vecchio re Priamo, che dopo aver veduti spenti i suoi più prodi e più cari
              figli, oltre una gran parte dei suoi sudditi, e presa e incendiata dai Greci la sua
              città, fu ucciso per mano di <hi rend="i">Pirro</hi>. Nè qui si arrestò la vendetta
              del giovane guerriero, che impadronitosi di <hi rend="i">Polissèna</hi>, causa
              innocente della morte di Achille, la uccise sulla tomba del padre, in sacrifizio di
              espiazione all’ombra di lui. Nè meno miseranda è la fine di Ecuba. Fu allora che</p>
            <quote>
              <l>« Ecuba trista, misera e cattiva,</l>
              <l>« Poscia che vide <hi rend="i">Polissena</hi> morta</l>
              <l>« E del suo <hi rend="i">Polidoro</hi> in su la riva</l>
              <l>« Del mar si fu la dolorosa accorta,</l>
              <l>« Forsennata latrò siccome cane ;</l>
              <l>« Tanto il dolor le fe’ la mente torta. »</l>
            </quote>
            <p><pb n="443" xml:id="p443"/>Gli Antichi dissero che Ecuba per aver provato tante
              sciagure, piangendo sempre ed urlando per disperato dolore, fu cangiata dagli Dei per
              compassione in cagna ; ma parve a Dante poco dignitosa per Ecuba questa metamorfosi, e
              pietosamente la modificò dicendo, come abbiam riportato di sopra :</p>
            <quote>
              <l>« Forsennata latrò siccome cane, »</l>
            </quote>
            <p>e con tale espressione mentre alludeva alla mitologica invenzione, la interpretò al
              tempo stesso secondo le più comuni leggi dell’umana natura, che cioè Ecuba, oppressa
              in sì breve tempo da tanti atroci dolori d’animo, avesse perduto la ragione e finito i
              suoi giorni gemendo ed urlando. Tutti gli altri e figli e parenti di ambo i sessi
              della famiglia di Priamo divennero schiavi dei Greci, e principalmente di Pirro e di
              Agamennone : e delle loro vicende parleremo in appresso secondo l’ordine cronologico
              degli avvenimenti.</p>
            <p>Le incomparabili sciagure di questa regia famiglia hanno sempre ispirato gli artisti
              antichi e i moderni a rappresentarle in tele e in marmi ; ed anche il vivente scultore
                <hi rend="sc">Pio Fedi</hi> col suo mirabil gruppo di quattro statue, chiamato
              volgarmente <hi rend="i">il ratto di Polissena</hi> (ratto ben diverso pel significato
              della parola, e negli effetti, da quello delle Sabine), ha dimostrato che non è
              inutile neppure ai giorni nostri lo studio dei Classici e della Mitologia. In quel <hi
                rend="i">gruppo</hi> vedesi <hi rend="i">Pirro</hi> che si è impadronito di <hi
                rend="i">Polissena</hi> e la sostiene col braccio sinistro sollevata da terra e
              stretta al suo fianco, mentre colla destra alzando la spada minaccia Ecuba che
              inginocchiata e supplicante tenta invano di trattenerlo e di commuoverlo a rendergli
              la figlia ; e sul suolo fra i piedi di Pirro giace moribondo <hi rend="i">Polite</hi>,
              uno dei figli di Priamo. <note place="bottom"><quote><l> « Ecce autem elapsus Pyrrhi
                    de cæde <hi rend="i">Polites</hi></l><l>« <hi rend="i">Unus natorum Priami</hi>,
                    per tela, per hastes,</l><l>« Porticibus longis fugit, et vacua atria
                    lustrat</l><l>« Saucius. Illum ardens infesto vulnere
                    Pyrrhus</l><l>« Insequitur, jam jamque manu tenet, et premit hasta.</l><l>« Ut
                    tandem <hi rend="i">ante oculos</hi> evasis <hi rend="i">et ora
                    parentum</hi></l><l>« <hi rend="i">Concidit</hi>, ac multo vitam cum sanguine
                    fudit. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc">Virg</hi>., <title>Æ-neid.</title>
                  <num>ii</num>, 525-532.)</bibl></note>.</p>
            <pb n="444" xml:id="p444"/>
          </div3>
          <div3 type="chapter">
            <head type="sur">LX</head>
            <head type="main">Ritorno dei Greci in patria</head>
            <p>Incendiata la città di Troia, e divise fra i vincitori le prede, nessun’altra maggior
              premura ebbero i Greci che di ritornare in patria dopo tanti anni, tanti pericoli e
              tante fatiche, ora finalmente lieti della vittoria e paghi della più tremenda e
              memorabil vendetta. Le prede non eran soltanto di schiavi e di schiave, ma anche di
              ricchi tesori che i Greci non avevan dimenticato di rapire dai troiani palagi prima
              che vi giungesser le fiamme. Furon tutti contenti della lor parte di preda ; ma la
              dissenzione si manifestò tra loro per decidere della partenza. Compiuta l’impresa e
              cessato il pericolo, ognuno si credè sciolto da qualunque vincolo di subordinazione al
              comandante supremo ; e lo stesso Menelao che sempre era stato così concorde col
              fratello Agamennone, in questo discordò da lui, e volle partire con pochi altri il
              secondo giorno dopo la presa di Troia. Si unirono ad esso il vecchio Nestore, Ulisse e
              Diomede, e veleggiarono insieme sino all’isola di Tenedo. Costì nuovamente si
              divisero : Ulisse tornò indietro alle spiaggie di Troia, e gli altri si diressero
              verso la patria, ognuno con le proprie navi ed i proprii sudditi superstiti senza
              dipender più dagli altrui consigli o deliberazioni.</p>
            <p><pb n="445" xml:id="p445"/>Agamennone era rimasto accampato intorno alle fumanti
              rovine di Troia insieme con Pirro figlio di Achille e gli altri capitani che non
              vollero partire con Menelao. Nel tempo che ivi si trattenevano per placare con
              sacrifizii e rendersi propizia la Dea Minerva, accadde un altro fatto tragico e molto
              compassionevole in uno dei superstiti della infelicissima famiglia di Priamo. Tra gli
              schiavi di Pirro v’era <hi rend="i">Andròmaca</hi>, vedova del famoso <hi rend="i"
                >Ettore</hi>. Questa aveva un figlio chiamato <hi rend="i">Astianatte, bambin
                leggiadro come stella</hi>, dice Omero, unica speranza della madre, unico rampollo
              di quell’eroe. La madre al primo romore della presa di Troia lo mandò a nascondere nel
              sepolcro di Ettore fuori della città ; e poi divenuta schiava di Pirro andava
              segretamente a portar cibo al piccolo Astianatte rimasto solo in quella tomba, e si
              tratteneva con lui più che poteva per fargli compagnia ed avvertirlo del pericolo che
              correva, se fosse scoperto. Ma Pirro se ne accorse, e salito nella tomba ov’era
              nascosto il bambino, lo afferrò per un piede e lo scagliò lontano nella sottoposta
              campagna ove morì sul colpo. Un figlio dell’ucciso Ettore che sopravvivesse al padre
              era sempre un imminente pericolo pel figlio dell’uccisore.</p>
            <p>Anche questo tragico fatto fu espresso in marmo dal celebre scultore <hi rend="sc"
                >Lorenzo Bartolini</hi> in un gruppo in cui si rappresenta Pirro che tiene sospeso
              in aria il piccolo Astianatte, ed è in atto di scagliarlo lontano da sè, mentre
              l’infelice madre inginocchiata ai piè di lui lo supplica indarno per la salvezza del
                figlio<note place="bottom"><p>Il <hi rend="sc">Giusti</hi>, che bene a ragione
                  ammirava le opere del Bartolini, vivente a tempo suo, scrisse di lui nella <hi
                    rend="i">Terra dei Morti</hi> :</p><quote><l>« E tu, giunto a
                      compieta,</l><l>« <hi rend="i">Lorenzo</hi>, come mai</l><l>« Infondi nella
                    creta</l><l>« La vita che non hai ? »</l></quote></note>.</p>
            <p><pb n="446" xml:id="p446"/>Quando Agamennone credè opportuno di partire, tutti i
              principi greci che erano rimasti con esso salparono contemporaneamente dalle spiaggie
              di Troia e insieme navigarono verso la Grecia finchè la tempesta non li divise ; la
              quale piombò loro addosso vicino all’isola di Eubea. Ivi viveva ancora <hi rend="i"
                >Nauplio</hi> padre dell’infelice <hi rend="i">Palamede</hi> che fu calunniato da
              Ulisse ed ucciso ingiustamente dai Greci ; e perciò per vendicar la morte del figlio
              aveva Nauplio sempre cercato di nuocere in ogni modo alle famiglie ed agli Stati di
              quei Greci che erano andati alla guerra di Troia. Egli dunque all’avvicinarsi della
              greca flotta fece accendere dei fuochi sopra gli scogli Cafarei (al sud-ovest dell’
              Eubea) perchè i Greci li credessero segnali di un porto amico ove ripararsi dalla
              tempesta, ed invece percuotendovi naufragassero ; ma non vi perì che <hi rend="i"
                >Aiace</hi> figlio di Oileo, e tutti gli altri si salvarono, con gran dispiacere di
              Nauplio, principalmente perchè ne seppe scampato Ulisse, contro il quale era maggiore
              l’ira sua e il desiderio di vendetta. <hi rend="i">Aiace</hi> stesso <hi rend="i"
                >Oilèo</hi> (detto anche il <hi rend="i">minore Aiace</hi> per distinguerlo
              dall’altro <hi rend="i">Aiace Telamonio</hi> che si uccise da sè stesso), perì,
              anzichè per l’insidia di Nauplio, per l’ira di Minerva e di Nettuno : Minerva sdegnata
              che nel tempio di lei avesse egli insultato la profetessa <hi rend="i">Cassandra</hi>
              figlia di Priamo ; Nettuno, perchè Aiace sbattuto dalle onde si vantò di scampare dal
              naufragio ad onta degli Dei e dello stesso Nettuno. Tutti gli altri guerrieri che
              partirono dalla Troade o con Menelao o con Agamennone, giunsero salvi nella Grecia. E
              qui finisce il racconto delle vicende che provò l’armata greca nel suo ritorno ; e
              resta solo a sapersi se questi reduci divenuti così famosi furon pur anco felici nel
              rimanente dei loro giorni. Alla narrazione storica generale subentrano dunque
              necessariamente i cenni biografici dei principali guerrieri.</p>
            <p>E incominciando dal <hi rend="i">re dei re</hi>, troviamo che a lui più funesto che
              agli altri fu il ritorno in patria. Nel tempo della <pb n="447" xml:id="p447"/>sua più
              che decenne assenza, <hi rend="i">Egisto</hi> suo cugino e figlio di <hi rend="i"
                >Tieste</hi> continuando a nutrire l’odio del padre contro gli <hi rend="i"
                >Atridi</hi>, si era insinuato nella corte di Agamennone e nell’animo di
              Clitennestra ; ed avendo fatto sparger voce che Agamennone fosse morto, avea persuaso
              la regina a sposarlo. Agamennone invece non solo era vivo, ma poco dopo, presa e
              distrutta Troia, si disponeva a ritornar nel suo regno. Tra le sue schiave eravi <hi
                rend="i">Cassandra</hi> figlia di Priamo, profetessa veridica in tutte le sue
              predizioni, ma per volere di Apollo con essa adirato, non mai creduta da alcuno. Non
              solo ai Troiani essa presagì le loro sventure, ma pur anco ad Agamennone, e neppur
              egli vi prestò fede ; e quindi non potè schivare la trista fine che lo attendeva nella
              sua propria reggia. L’iniquo Egisto sentendo imminente l’arrivo di lui, raggirò
              talmente il debole e corrotto animo di Clitennestra, da renderla convinta che per
              evitare di essere uccisi entrambi da Agamennone non v’era altro riparo che uccider
              lui. E il re dei re scampato da mille pericoli, il giorno stesso che giunse nel suo
              regno e nella sua reggia, in mezzo alle finte accoglienze, quand’era per assidersi a
              mensa fu ucciso a tradimento da Egisto, e Cassandra da Clitennestra, non chè tutti i
              più fidi compagni di Agamennone ivi presenti, dagli sgherri dell’usurpatore
              tiranno.</p>
            <p>Egisto, il quale molto prima di Machiavelli sapeva che <quote>« è necessario
                all’usurpatore di un trono estirpare tutti i « rampolli della famiglia che regnava
                prima di lui, »</quote> avea tese insidie alla vita del piccolo Oreste figlio di
              Agamennone e di Clitennestra ; ma la sorella Elettra, più assennata e pietosa della
              madre, lo aveva segretamente posto in salvo nella corte di <hi rend="i">Strofio</hi>
              re della <hi rend="i">Fòcide</hi>. Questa saggia precauzione di Elettra, congiunta
              alla voce che in appresso fece spargere della morte del fratello, rese possibile la
              ben meritata punizione di Egisto e di Clitennestra, perchè Oreste giunto appena alla
              pubertà, essendo impaziente di ricuperare <pb n="448" xml:id="p448"/>il trono di suo
              padre e vendicarne la morte, accompagnato dall’incomparabile amico suo <hi rend="i"
                >Pilade</hi>, figlio di <hi rend="i">Strofio</hi>, ritornò nascostamente nella sua
              reggia, e non senza incontrar gravi pericoli, da cui fecero a gara a sottrarlo
              l’affetto della sorella e dell’amico, potè uccidere Egisto, e nel furore della
              vendetta, incontrata la madre che veniva in soccorso del tiranno, uccise anch’essa
              collo stesso pugnale grondante del sangue di Egisto. Ma accortosi di avere ecceduto
              nella vendetta fu invaso dalle Furie, e andò errando per lungo tempo in preda ai
              rimorsi, sempre accompagnato dal fidissimo Pilade, che più e più volte espose la
              propria vita per salvar quella dell’amico. Spinti dalla tempesta nella <hi rend="i"
                >Taurica Chersoneto</hi> (ora <hi rend="i">Crimea</hi>) furon consegnati a <hi
                rend="i">Toante</hi> re e sacerdote di quella regione, il quale sacrificava
              all’idolo di Diana vit time umane, scelte tra i forestieri che vi approdavano nel suo
              Stato. Quei Mitologi i quali dicono che invece di Ifigenia fosse sacrificata una
              cerva, asseriscono che Diana trasportò Ifigenia a far da ministra in questi
              sacrifizii, e che essa, quando vi giunsero Oreste e Pilade, riconobbe il fratello, e
              quindi si accordò con esso e coll’amico di lui ad uccider Toante. Ciò fatto, portaron
              via la statua di Diana e tornarono insieme in Grecia, ove Oreste liberato finalmente
              dalle Furie sposò <hi rend="i">Ermìone</hi> figlia di Menelao e di Elena, e regnò non
              solo in Argo e in Micene, ma ancora nella maggior parte del Peloponneso. Egli ebbe un
              figlio chiamato <hi rend="i">Tisamène</hi>, che fu re dopo di lui ; e l’amico Pilade
              sposando l’eroica Elettra unì ai vincoli dell’amicizia quelli della affinità. Le
              vicende di <hi rend="i">Agamennone</hi> e di <hi rend="i">Oreste</hi> diedero ampio
              argomento a molte tragedie antiche e moderne, e tra le altre a quelle due di Alfieri
              che hanno per titolo il nome del gran re dei re e quello del figlio di lui <note
                place="bottom"><p><hi rend="sc">Cicerone</hi> nel <hi rend="i">De Amicitia</hi> e
                  nel libro <num>ii</num>
                  <hi rend="i">De Finibus</hi>, narra quanto fosse ammirata ed applaudita dal
                  pubblico quella scena della tragedia di Pacuvio, in cui Oreste e Pilade gareggiano
                  a dar la vita per salvare quella dell’amico, quando Egisto voleva sapere chi di
                  loro due fosso Oreste, ed entrambi si affaticavano a dire : <hi rend="i">Io sono
                    Oreste</hi>. Riporto le precise parole di Cicerone :</p><p><quote>« Qui clamores
                    tota cavea nuper in hospitis et amici mei M. Pacuvii fuerunt nova fabula, quum,
                    ignorante rege, uter eorum esset Orestes, Pylades Orestem se esse diceret, ut
                    pro illo necaretur ; Orestes autem, ita ut erat, Orestem se esse
                    perseveraret ? »</quote> — (<hi rend="i">De Amic</hi>.,
                  <num>vii</num>.)</p><p>Ritorna pure sullo stesso argomento in un altro libro
                  filosofico :</p><quote><p>« Qui clamores vulgi atque imperitorum excitantur in
                    theatris, quum illa dicuntur :</p><l>« <hi rend="i">Ego sum Orestes</hi> ;
                    contraque ab altero :</l><l>« <hi rend="i">Immo enimvero, ego sum, inquam,
                      Orestes</hi> !</l><p>« Quum autem etiam exitus ab utroque datur conturbato
                    errantique regi : <hi rend="i">Ambo ergo una necarier precamur</hi>, quoties hoc
                    agitur, ecquando nisi admirationibus maximis ? »</p></quote><p> — (<hi rend="i"
                    >De Finib</hi>. v, 22.)</p><p>Questa scena fu imitata egregiamente dall’<hi
                    rend="sc">Alfieri</hi> nell’atto <num>iv</num> del suo <hi rend="i">Oreste</hi>,
                  e produce sempre grandissimo effetto. Anche <hi rend="sc">Dante</hi> alluse a
                  questo fatto, concissimamente com’è solito, facendo pronunziare nel Canto
                    <num>xiii</num> del <hi rend="i">Purgatorio</hi> queste parole : <hi rend="i">Io
                    sono Oreste</hi>, come un esempio sublime di amor del prossimo, conosciuto anche
                  dai Pagani.</p></note>.</p>
            <p><pb n="449" xml:id="p449"/><hi rend="i">Menelao</hi> ed <hi rend="i">Elena</hi> dopo
              esser partiti da Tenedo erano stati spinti dalla tempesta sino in Egitto ; e di là
              tornati a Sparta vissero insieme in pace più anni. Ma Elena, morto che fu Menelao,
              essendo odiata da tutti come causa della disastrosa guerra di Troia, fu costretta a
              fuggire dal regno di Sparta che era il regno dei suoi antenati, e ricoveratasi presso
              una sua parente a cui era morto il marito in quella guerra, fu, per ordine di essa,
              soffocata in un bagno da tre sue ancelle travestite da Furie.</p>
            <p><hi rend="i">Neottolemo</hi>, ossia <hi rend="i">Pirro</hi> figlio di Achille,
              tornando in Grecia co’ suoi <hi rend="i">Mirmidoni</hi>, condusse seco tra gli altri
              schiavi <hi rend="i">Eleno</hi> figlio di Priamo e <hi rend="i">Andromaca</hi> vedova
              di Ettore. Di schiava la fece divenire sua moglie, ed ebbe da essa un figlio a cui
              alcuni Mitologi antichi danno il nome di <hi rend="i">Molosso</hi> ; poi la <pb
                n="450" xml:id="p450"/>ripudiò e la fece sposare ad <hi rend="i">Eleno</hi>, e diede
              ad entrambi la libertà ed una parte del regno dell’Epiro che era divenuto suo, non si
              sa bene se per volontà della nazione, o per conquista. Quindi sposò <hi rend="i"
                >Lanassa</hi> nipote di Ercole, ed ebbe da essa più figli. La fine però di
              quest’eroe fu poco gloriosa, e non per disgrazia, ma per colpa sua. Volle rapire <hi
                rend="i">Ermione</hi> promessa sposa di Oreste, ed Oreste venuto alle mani con esso
              lo uccise.</p>
            <p>I suoi figli e discendenti si mantennero per molti secoli nel regno di Epiro, e
              formarono la dinastia detta dei <hi rend="i">Pirridi</hi> o <hi rend="i"
                >Eàcidi</hi><note place="bottom"><p>Perciò nella famosa ambigua risposta dell’
                  Oracolo :</p><quote><l>« Ajo te, Æacida, Romanos vincere
                  posse, »</l></quote><p>Pirro è chiamato <hi rend="i">Eacide</hi>, alludendosi allo
                  stipite di quella dinastia, che fu <hi rend="i">Eaco</hi>, avo di
                Achille.</p></note>, fra i quali il più celebre è quel Pirro re di Epiro che venne
              in Italia cogli elefanti a combattere contro i Romani in difesa dei Tarentini.</p>
            <p>Il vecchio <hi rend="i">Nestore</hi> ritornato in <hi rend="i">Pilo</hi> sua patria e
              suo regno (sulle coste della Messenia nel Peloponneso) visse ancora alcuni anni in
              seno alla sua famiglia, in cui però mancava il figlio <hi rend="i">Antìloco</hi>,
              ucciso sotto le mura di Troia per mano di Ettore, o, secondo altri, di Mennone.</p>
            <p><hi rend="i">Diomede</hi>, il più prode guerriero dopo Achille, arrivò salvo in Argo,
              ma non volle ritornare nel suo regno di <hi rend="i">Etolia</hi>, perchè seppe
              alienato da lui l’animo di sua moglie <hi rend="i">Egialèa</hi>, ed ebbe forse paura
              di far la fine di Agamennone. Venne invece in Italia nella Puglia, ove sposò la figlia
              del re <hi rend="i">Dauno</hi> che gli diede per dote una parte del suo regno, ed ivi
              fondò la città di <hi rend="i">Arpi</hi>, e, secondo altri, anche <hi rend="i"
                >Siponto</hi>, presso il monte Gargano. Egli era ancor vivo sette anni dopo,
              allorquando giunse in Italia <hi rend="i">Enea</hi>, ed essendo allora richiesto da
              Turno di unirsi con lui per distruggere quest’ultimo avanzo di Troia, ricusò dicendo
              che la guerra con quella nazione era stata dannosa agli stessi vincitori.</p>
            <p>Anche <hi rend="i">Filottete</hi> invece di tornare nella sua patria venne <pb
                n="451" xml:id="p451"/>in Italia e fondò nella Magna Grecia la città di <hi rend="i"
                >Petilia</hi>, alla quale credesi corrispondere ora <hi rend="i">Policastro</hi> sul
              golfo di questo nome. Alcuni attribuiscono a <hi rend="i">Idomeneo</hi> re di Creta e
              nipote di Minosse la fondazione di questa città ; ma <hi rend="sc">Omero</hi> che
              parla più volte con gran lode del valore di Idomeneo, quanto al suo ritorno dice
              soltanto che</p>
            <quote>
              <l>« …………. in Creta</l>
              <l>« Rimenò <hi rend="i">Idomeneo</hi> quanti compagni</l>
              <l>« Con la vita gli uscîr fuori dell’arme :</l>
              <l>« Un sol non ne inghiottì l’onda vorace. »</l>
            </quote>
            <bibl>(<title>Odiss.</title>, <num>iii</num>.)</bibl>
            <p>È una invenzione dei successivi Mitologi che Idomeneo avesse fatto un voto imprudente
              come quello di <hi rend="i">Jefte</hi> ; e che volendo adempierlo coll’uccidere il
              figlio che era stato il primo a venirgli incontro, fu cacciato dai suoi sudditi e si
              rifugiò nella Magna Grecia, ove fondò il regno di <hi rend="i">Salento</hi>.</p>
            <p>Resta ora soltanto a parlare del ritorno di Ulisse ; ma poichè sulle straordinarie e
              mirabili vicende di quest’Eroe dopo l’eccidio di Troia, Omero trovò da scrivere un
              intero poema di ventiquattro Canti, converrà almeno accennarne le principali in un
              capitolo separato.</p>
          </div3>
          <div3 type="chapter">
            <head type="sur">LXI</head>
            <head type="main">I Viaggi di Ulisse</head>
            <quote>
              <l>« Già tutti i Greci che la nera Parca</l>
              <l>« Rapiti non avea, ne’loro alberghi</l>
              <l>« Fuor dell’orme sedeano e fuor dell’onde.</l>
              <l>« Sol dal suo regno e dalla casta donna</l>
              <l>« Rimanea lungi Ulisse. »</l>
            </quote>
            <bibl>(<hi rend="sc">Om</hi>., <title>Odiss.</title>, <num>i</num>. Trad. di
              Pindemonte.)</bibl>
            <p><pb n="452" xml:id="p452"/>E lungi rimase dieci anni dopo la presa di Troia senza che
              di lui giungesse alla sua famiglia novella alcuna. E sì che vi sarebbe stato bisogno
              quanto prima della sua presenza e del suo forte braccio per discacciar dalla sua
              reggia una turba di principi greci delle <hi rend="i">Isole Ionie</hi>, che credendolo
              estinto pretendevano che Penelope sua moglie si risolvesse a sposare uno di loro.
              Erano questi i <hi rend="i">Proci</hi> (cioè i pretendenti) di cui tanto a lungo
              favella <hi rend="sc">Omero</hi> nell’<hi rend="i">Odissea</hi><note place="bottom">La
                parola <hi rend="i">Odissea</hi> deriva da <hi rend="i">Odisseo</hi>, che era il
                greco nome di <hi rend="i">Ulisse</hi> ; e perciò quel poema potrebbe in italiano
                chiamarsi <hi rend="i">Ulissea</hi> ; ma nella nostra lingua per lo più si seguono i
                Latini e non si fa altro che tradurli. Essi conservarono al poema di Omero il greco
                titolo di <hi rend="i">Odissea</hi>, e diedero al protagonista di esso il nome di
                  <hi rend="i">Ulisse</hi> ; e così fecero e fanno gl’Italiani.</note>, narrando che
              divoravano le sostanze di Ulisse e passavano il tempo in conviti, in canti e in balli
              nella reggia di lui. Penelope, sperando sempre nel ritorno del marito, differiva di
              giorno in giorno a sposare qualcuno di loro ; e trovandosi finalmente costretta a
              determinare il tempo, promise di far la scelta di uno dei Proci dopo di aver finito un
              tela che avea incominciata ; ma di giorno la tesseva e di notte la distesseva, e la
              tela non finiva mai. Quindi passò in proverbio <hi rend="i">la tela di Penelope</hi> a
              significare un lavoro che non ha mai termine. In tal modo l’accorta ed affettuosa
              moglie tenne a bada i Proci sino al ritorno di Ulisse.</p>
            <p>Intanto <hi rend="i">Telemaco</hi> impaziente di aver qualche notizia di suo padre,
              partì segretamente da Itaca accompagnato da Minerva sotto la figura di Mentore e andò
              a <hi rend="i">Pilo</hi> da Nestore e a <hi rend="i">Sparta</hi> da Menelao e da Elena
              a dimandarne ; ma dopo la tempesta che avea divisa la flotta greca nessuno seppe più
              nulla di Ulisse. V’ era però speranza che egli vivesse, perchè nessuno aveva detto o
              sentito dire che ei fosse morto. Infatti <hi rend="sc">Omero</hi> dice di Ulisse,</p>
            <quote>
              <l><pb n="453" xml:id="p453"/>« ….. che molto errò, poi ch’ebbe a terra</l>
              <l>« Gittate d’Ilïon le sacre mura ;</l>
              <l>« Che città vide molte e delle genti</l>
              <l>« L’indol conobbe ; che sovr’esso il mare</l>
              <l>« Molti dentro del cor sofferse affanni,</l>
              <l>« Mentre a guardar la cara vita intende</l>
              <l>« E i suoi compagni a ricondur ; ma indarno</l>
              <l>« Ricondur desiava i suoi compagni,</l>
              <l>« Che delle colpe lor tutti periro. »</l>
            </quote>
            <bibl>(<title>Odiss.</title>, <num>i</num>. Trad. di Pindemonte.)</bibl>
            <p>I viaggi di Ulisse dopo la guerra di Troia si trovano chiamati ancora gli <hi
                rend="i">errori di Ulisse</hi>, perchè egli, come dice Omero, <hi rend="i">molto
                errò</hi>, cioè andò molto vagando senza saper dove, sospinto dalla forza del vento
              e delle tempeste. Solamente dall’<hi rend="i">isola dei Feaci</hi> (ora di <hi
                rend="i">Corfù</hi>) andò direttamente ad <hi rend="i">Itaca</hi> sua patria, com’
              egli volle e desiderò da lunghi anni ; ma prima era andato sempre errando contro il
              suo desiderio e per necessità o forza maggiore.</p>
            <p>Chi sente dir per la prima volta che Ulisse errò per dieci anni, crederà che egli in
              quel lungo spazio di tempo fosse stato chi sa quante volte agli antipodi e ritornato,
              e fatta più e più volte la circumnavigazione del nostro globo. Invece la navigazione
              di Ulisse in dieci anni non si estese al di là delle acque del Mediterraneo, qualunque
              sia il nome speciale che prende dallo stretto di Gibilterra alle foci del <hi rend="i"
                >Don</hi> nel <hi rend="i">Mar d’ Azof</hi>. Ma non è da farne le maraviglie, quando
              sappiamo che Ulisse, come gli fa dire anche <hi rend="sc">Dante</hi>, stette con <hi
                rend="i">Circe più d’un anno là presso Gaeta</hi></p>
            <quote>
              <l>« Prima che sì Enea la nominasse ; »</l>
            </quote>
            <p>e poi fu trattenuto dalla Ninfa <hi rend="i">Calipso</hi> per più di sette anni <pb
                n="454" xml:id="p454"/>nell’isola di <hi rend="i">Ogige</hi>
              <note place="bottom">Quest’isola di <hi rend="i">Ogige</hi> dicevasi e credevasi che
                fosse situata nel mar Tirreno presso le coste dell’Italia meridionale ; ma nessuno
                ha detto precisamente a quale delle esistenti isole corrisponda : perciò taluni la
                credono un’isola favolosa, come la Dea che vi risiedeva.</note>, talchè restano meno
              di due anni per tutte le navigazioni e traversate dall’una all’altra isola o sulle
              coste marittime dei continenti. Nè osta a tal conclusione il viaggio che fece Ulisse
              all’Inferno, perchè quello fu opera d’incanto della maga Circe, ed era piuttosto uno
              scongiuro da Negromanti, ossia evocazione delle anime degli estinti che un’impresa
              propria di Ulisse. Infatti egli stesso così narra quel suo miracoloso viaggio :</p>
            <quote>
              <l>« Là dal crin crespo e dal canoro labbro</l>
              <l>« Dea veneranda un gonfiator di vele</l>
              <l>« Vento in poppa mandò, che fedelmente</l>
              <l>« Ci accompagnava per l’ondosa via :</l>
              <l>« Tal che oziosi nella ratta nave</l>
              <l>« Dalla cerulea prua giacean gli arnesi,</l>
              <l>« E noi tranquilli sedevam, la cura</l>
              <l>« Al timonier lasciandone ed al vento. »</l>
            </quote>
            <bibl>(<title>Odiss.</title>,<num>xi</num>. Trad. di Pindemonte.)</bibl>
            <p>E questo viaggio fu compiuto in un sol giorno prima che Ulisse abbandonasse l’isola
              di Circe, mentre a compierlo con mezzi umani, dove pone Omero l’Inferno, cioè ai
              gelidi confini dell’Oceano,</p>
            <quote>
              <l>« Là ‘ve la gente de’Cimmerii alberga</l>
              <l>« Cui nebbia e buio sempiterno involve, »</l>
            </quote>
            <p>non sarebbe bastato a quei tempi un anno per andare e tornare.</p>
            <p>Ristretti dunque <hi rend="i">gli errori di Ulisse</hi> dentro i loro veri limiti di
              tempo e di spazio, determiniamo i luoghi che, <pb n="455" xml:id="p455"/>secondo
              Omero, egli toccò, e dove più o meno si trattenne, e poi noteremo i più mirabili casi
              ai quali trovossi esposto.</p>
            <p>Lasciate le spiagge troiane col rimanente della flotta greca capitanata da
              Agamennone, e diviso da quella per violenza di una tempesta, Ulisse fu spinto ad <hi
                rend="i">Ismaro</hi>, città dei <hi rend="i">Ciconi</hi> nella Tracia, e poi nella
              terra dei <hi rend="i">Lotòfagi</hi> sulla costa settentrionale dell’Affrica ; quindi
              nel paese dei <hi rend="i">Ciclopi</hi> fra l’Affrica e la Sicilia ; di là nell’<hi
                rend="i">Eolia</hi>, ossia in una delle isole Eolie fra la Sicilia e l’Italia, e
              inoltre nel territorio dei <hi rend="i">Lestrìgoni</hi>, che non si trova ben
              determinato dove fosse precisamente. Giunto poi ad <hi rend="i">Ea</hi>, isola della
              maga <hi rend="i">Circe</hi>, presso il promontorio <hi rend="i">Circello, là sovra
                Gaeta</hi>, come dice anche Dante, tornò indietro e passò davanti all’isola delle
                <hi rend="i">Sirene</hi> lungo la costa di Napoli, e poi fra <hi rend="i">Scilla e
                Cariddi</hi> nello stretto di Messina, e si fermò alquanto nella <hi rend="i"
                >Trinacria</hi>, ossia in Sicilia. Partito da quell’isola e perduti tutti i compagni
              che perirono in una tempesta, arrivò Ulisse nuotando all’isola di <hi rend="i"
                >Ogige</hi>, e di là salpando in una nave da lui stesso costruita ebbe a soffrire
              un’altra tempesta, dalla quale con gran fatica e pericolo scampato a nuoto, giunse
              nell’isola dei Feaci, ultimo termine <hi rend="i">de’ suoi errori</hi> e de’suoi
              travagli ; poichè ivi accolto onorevolmente dal re Alcinoo e con larghissimi doni
              ricompensato di tutti i danni sofferti, ritornò di là comodamente in Itaca su di una
              nave dei Feaci stessi.</p>
            <p>Tra i casi più straordinari e mirabili avvenuti ad Ulisse in questi diversi luoghi,
                <hi rend="sc">Orazio</hi> chiamò <hi rend="i">speciosa miracula</hi> (splendidi
              prodigi)</p>
            <p><quote>« Antiphatem Scyllamque et cum Cyclope Charybdim, »</quote> cioè quel che
              avvenne ad Ulisse nel paese dei Lestrìgoni di cui era re <hi rend="i">Antifate</hi>,
              poi fra <hi rend="i">Scilla</hi> e <hi rend="i">Cariddi</hi> e nella caverna del <hi
                rend="i">Ciclope Polifemo</hi>.</p>
            <p>Qual fosse <hi rend="i">Antifate</hi> re dei Lestrìgoni e qual sorte incontrassero i
              compagni di Ulisse nella città e nella reggia di quello, sarà bene sentirlo narrare da
                <hi rend="sc">Omero</hi> stesso :</p>
            <quote>
              <l><pb n="456" xml:id="p456"/>« Ei s’abbattero a una real fanciulla,</l>
              <l>« Del Lestrìgone Antifate alla figlia,</l>
              <l>« Che del fonte d’Artacia, onde costuma</l>
              <l>« Il cittadino attignere, in quel punto</l>
              <l>« Alle pure scendea linfe d’argento.</l>
              <l>« Le si fero d’appresso, e chi del loco</l>
              <l>« Re fosse, e su qual gente avesse impero</l>
              <l>« La domandaro ; ed ella pronta l’alto</l>
              <l>« Loro additò con man tetto del padre.</l>
              <l>« Tocco ne aveano il limitare appena,</l>
              <l>« Che femmina trovâr di sì gran mole,</l>
              <l>« Che rassembrava una montagna ; e un gelo</l>
              <l>« Si sentiro d’orror correr pel sangue.</l>
              <l>« Costei di botto Antifate chiamava</l>
              <l>« Dalla pubblica piazza, il rinomato</l>
              <l>« Marito suo, che disegnò lor tosto</l>
              <l>« Morte barbara e orrenda. Uno afferronne,</l>
              <l>« Che gli fu cena ; gli altri due con fuga</l>
              <l>« Precipitosa gionsero alle navi.</l>
              <l>« Di grida la cittade intanto empiea</l>
              <l>« Antifate. I Lestrigoni l’udiro,</l>
              <l>« E accorrean chi da un lato e chi dall’altro,</l>
              <l>« Forti di braccio, in numero infiniti</l>
              <l>« E giganti alla vista. Immense pietre</l>
              <l>« Così dai monti a fulminar si diero,</l>
              <l>« Che d’uomini spiranti e infranti legni</l>
              <l>« Sorse nel porto un suon tetro e confuso.</l>
              <l>« Ed alcuni infilzati eran con l’aste,</l>
              <l>« Quali pesci guizzanti, e alle ferali</l>
              <l>« Mense future riserbati. Mentre</l>
              <l>« Tal seguia strage, io, sguainato il brando,</l>
              <l>« E la fune recisa, a’miei compagni</l>
              <l>« Dar di forza nel mar co’remi ingiunsi,</l>
              <l>« Se il fuggir morte premea loro ; e quelli</l>
              <l><pb n="457" xml:id="p457"/>« Di tal modo arrancavano, che i gravi</l>
              <l>« Massi, che piovean d’alto, il mio naviglio</l>
              <l>« Lietamente schivò : m’a gli altri tutti</l>
              <l>« Colà restaro sfracellati e spersi. »</l>
            </quote>
            <bibl>(<title>Odiss.</title>, <num>x</num>. Trad. di Pindemonte.)</bibl>
            <p>Di <hi rend="i">Scilla</hi> e di <hi rend="i">Cariddi</hi> ho già parlato nel Cap.
              XXVIII, trattando dei <hi rend="i">Mostri marini mitologici e poetici</hi> ; e qui
              aggiungo soltanto l’omerica narrazione dei pericoli nei quali incorsero, nel passarvi
              framezzo, e Ulisse e i suoi compagni :</p>
            <quote>
              <l>« Navigavamo addolorati intanto</l>
              <l>« Per l’angusto sentier : <hi rend="i">Scilla</hi> da un lato,</l>
              <l>« Dall’altro era l’orribile <hi rend="i">Cariddi</hi>,</l>
              <l>« Che del mare inghiottia l’onde spumose.</l>
              <l>« Sempre che rigettavale, siccome</l>
              <l>« Caldaia in molto rilucente foco,</l>
              <l>« Mormorava bollendo ; e i larghi sprazzi,</l>
              <l>« Che andavan sino al cielo in vetta d’ambo</l>
              <l>« Gli scogli ricadevano. Ma quando</l>
              <l>« I salsi flutti ringhiottiva, tutta</l>
              <l>« Commoveasi di dentro, ed alla rupe</l>
              <l>« Terribilmente rimbombava intorno,</l>
              <l>« E, l’onda il seno aprendo, una azzurigna</l>
              <l>« Sabbia parea nell’imo fondo : verdi</l>
              <l>« Le guance di paura a tutti io scôrsi.</l>
              <l>« Mentre in <hi rend="i">Cariddi</hi> tenevam le ciglia,</l>
              <l>« Una morte temendone vicina,</l>
              <l>« Sei de’compagni, i più di man gagliardi,</l>
              <l>« <hi rend="i">Scilla</hi> rapimmi dal naviglio. Io gli occhi</l>
              <l>« Torsi, e li vidi che levati in alto</l>
              <l>« Braccia e piedi agitavano, ed Ulisse</l>
              <l>« Chiamavan, lassi ! per l’estrema volta.</l>
              <l>« Qual pescator che su pendente rupe</l>
              <l>« Tuffa di bue silvestre in mare il corno</l>
              <l><pb n="458" xml:id="p458"/>« Con lunghissima canna, un’infedele</l>
              <l>« Esca ai minuti abitatori offrendo,</l>
              <l>« E fuor li trae dell’onda, e palpitanti</l>
              <l>« Scagliali sul terren : non altrimenti</l>
              <l>« <hi rend="i">Scilla</hi> i compagni dal naviglio alzava,</l>
              <l>« E innanzi divoravali allo speco,</l>
              <l>« Che dolenti mettean grida, e le mani</l>
              <l>« Nel gran disastro mi stendeano indarno.</l>
              <l>« Fra i molti acerbi casi, ond’io sostenni</l>
              <l>« Solcando il mar la vista, oggetto mai</l>
              <l>« Di cotanta pietà non mi s’offerse. »</l>
            </quote>
            <bibl>(<title>Odiss.</title>, <num>xii</num>. Trad. di Pindemonte.)</bibl>
            <p>Ma se Ulisse nell’andare in Sicilia potè passare fra Scilla e Cariddi con la perdita
              soltanto di 6 compagni, nel ritorno li perdè tutti, e si trovò spinto dalla tempesta
              nel vortice di Cariddi. In qual modo strano e mirabile ei ne scampasse è prezzo
              dell’opera udirlo raccontare a lui stesso secondo che lo fa parlare <hi rend="sc"
                >Omero</hi> :</p>
            <quote>
              <l>« Io pel naviglio su e giù movea,</l>
              <l>« Finchè gli sciolse la tempesta i fianchi</l>
              <l>« Della carena che rimase inerme.</l>
              <l>« Poi la base dell’albero l’irata</l>
              <l>« Onda schiantò : ma di taurino cuoio</l>
              <l>« Rivestialo una striscia, ed io con questa</l>
              <l>« L’albero e la carena in un legai,</l>
              <l>« E sopra mi v’assisi ; e tale i venti</l>
              <l>« Esizïali mi spingean sull’onde.</l>
              <l>« Zefiro a un tratto rallentò la rabbia :</l>
              <l>« Se non che sopraggiunse un Austro in fretta,</l>
              <l>« Che, noiandomi forte, in vêr Cariddi</l>
              <l>« Ricondur mi volea. L’intera notte</l>
              <l>« Scorsi sui flutti ; e col novello Sole</l>
              <l>« Tra la grotta di Scilla e la corrente</l>
              <l><pb n="459" xml:id="p459"/>« Mi ritrovai della fatal vorago,</l>
              <l>« Che in quel punto inghiottia le salse spume.</l>
              <l>« Io slanciandomi in alto a quel selvaggio</l>
              <l>« M’aggruppai fico eccelso ; e mi v’attenni,</l>
              <l>« Qual vipistrello ; chè nè dove i piedi</l>
              <l>« Fermar, nè come ascendere, io sapea,</l>
              <l>« Tanto eran lungi le radici, e tanto</l>
              <l>« Remoti dalla mano i lunghi, immensi</l>
              <l>« Rami, che d’ombra ricoprian Cariddi.</l>
              <l>« Là dunque io m’attenea, bramando sempre</l>
              <l>« Che rigettati dall’orrendo abisso</l>
              <l>« Fosser gli avanzi della nave. Al fine</l>
              <l>« Dopo un lungo desio vennero a galla.</l>
              <l>« Nella stagion che il giudicante, sciolte</l>
              <l>« Varie di caldi giovani contese,</l>
              <l>« Sorge dal foro e per cenar s’avvia,</l>
              <l>« Dall’onde usciro i sospirati avanzi.</l>
              <l>« Le braccia apersi allora, e mi lasciai</l>
              <l>« Giù piombar con gran tonfo all’onde in mezzo,</l>
              <l>« Non lunge da que’ legni, a cui m’assisi</l>
              <l>« Di sopra e delle man remi io mi feci.</l>
              <l>« Ma degli uomini il padre e dei Celesti</l>
              <l>« Di rivedermi non permise a Scilla ;</l>
              <l>« Chè toccata sariami orrida morte.</l>
              <l>« Per nove dì mi trabalzava il fiotto,</l>
              <l>« E la decima notte i Dei sul lido</l>
              <l>« Mi gettâr dell’Ogigia isola, dove</l>
              <l>« Calipso alberga, la divina Ninfa,</l>
              <l>« Che raccoglieami amica, e in molte guise</l>
              <l>« Mi confortava. »</l>
            </quote>
            <bibl>(<title>Odiss.</title>, <num>xii</num>. Trad. di Pindemonte).</bibl>
            <p>Da questa descrizione, che è una delle quattro più maravigliose rammentate da <hi
                rend="sc">Orazio</hi> nella Poetica, apparisce, <pb n="460" xml:id="p460"/>che a
              tempo di Omero, o non era stata ancora inventata l’altra favola che Cariddi fosse un
              mostro marino, come abbiamo accennato nel Cap. XXVIII, o che egli non l’adottò, e
              preferì soltanto di abbellire poeticamente quel vortice tanto temuto dagli Antichi,
              come ora il Maelstrom sulle coste della Norvegia.</p>
            <p>Di quel che avvenne ad Ulisse e ai suoi compagni nell’antro del <hi rend="i">Ciclope
                Polifemo</hi> la narrazione è troppo lunga in Omero, ed occuperebbe troppo spazio a
              riportarla qui tutta ; ma se ne trova il compendio in <hi rend="sc">Virgilio</hi>, che
              ne pone il racconto sulle labbra di <hi rend="i">Achèmene</hi>, uno dei compagni di
              Ulisse :</p>
            <quote>
              <l>« ……….. È questo un antro</l>
              <l>« Opaco, immenso, che macello è sempre</l>
              <l>« D’umana carne, onde ancor sempre intriso</l>
              <l>« È di sanie e di sangue. Ed è il Ciclopo</l>
              <l>« Un mostro spaventoso, un che col capo</l>
              <l>« Tocca le stelle (o Dio, leva di terra</l>
              <l>« Una tal peste), chè a mirarlo solo,</l>
              <l>« Solo a parlarne, orror sento ed angoscia.</l>
              <l>« Pascesi delle viscere e del sangue</l>
              <l>« Della misera gente ; ed io l’ho visto</l>
              <l>« Con gli occhi miei, nel suo speco, rovescio</l>
              <l>« Stender le branche, e due presi de’ nostri</l>
              <l>« Rotargli a cerco, e sbattergli e schizzarne</l>
              <l>« In fra quei tufi le midolle e gli ossi.</l>
              <l>« Vist’ ho quando le membra de’ meschini</l>
              <l>« Tiepide, palpitanti e vive ancora,</l>
              <l>« Di sanguinosa bava il mento asperso,</l>
              <l>« Frangea co’ denti a guisa di maciulla.</l>
              <l>« Ma nol soffrì senza vendetta Ulisse,</l>
              <l>« Nè di sè stesso in sì mortal periglio</l>
              <l>« Punto obliossi ; chè non prima steso</l>
              <l>« Lo vide ebbro e satollo, a capo chino</l>
              <l>« Giacer nell’antro, e sonnacchioso e gonfio</l>
              <l><pb n="461" xml:id="p461"/>« Ruttar pezzi di carne e sangue e vino,</l>
              <l>« Che ne restrinse. Ed invocati in prima</l>
              <l>« I santi Numi, divisò le veci</l>
              <l>« Sì, che parte il tenemmo in terra saldo,</l>
              <l>« Parte con un gran palo al foco aguzzo</l>
              <l>« Sopra gli fummo ; e quel ch’unico avea</l>
              <l>« Di targa e di febea lampade in guisa</l>
              <l>« Sotto la torva fronte occhio rinchiuso,</l>
              <l>« Gli trivellammo : vendicando al fine</l>
              <l>« Col tor la luce a lui l’ombre de’ nostri. »</l>
            </quote>
            <bibl>(<title>Eneid.</title>, <num>iii</num>. Traduz. del Caro).</bibl>
            <p>Non è già che sien questi soli gli splendidi miracoli della poetica facoltà, o
              vogliam dire del genio inventivo di Omero : nè Orazio intese di far l’enumerazione di
              tutti, ma soltanto di citarne alcuni dei più straordinarii e mirabili a conferma della
              sua tesi :</p>
            <quote>
              <l>« Non fumum ex fulgore, sed ex fumo dare lucem. »</l>
            </quote>
            <p>E dovendo io riferirne qualcuno, ho preferito quelli citati da Orazio. Anzi nel
              parlar dei <hi rend="i">Mostri marini</hi> (V. il N° XXIII) ho detto ancora delle <hi
                rend="i">Sirene</hi>, ed ho riferito che lo stesso Dante trovò il modo d’inserire
              nella <hi rend="i">Divina Commedia</hi> il canto di una Sirena, alla quale fa dire,
              tra le altre cose, ch’ell’era quella stessa che attirò Ulisse a passarle vicino per
              udirla cantare.</p>
            <p>Mi affretto dunque a terminar la biografia di Ulisse dicendo che, secondo Omero,
              Ulisse fu ricondotto dai Feaci nella sua isola nativa dopo venti anni di assenza ; ed
              ivi poste in opera tutte le sue più mirabili astuzie, potè finalmente coll’aiuto del
              figlio e di alcuni suoi sudditi che gli erano rimasti fedeli, vendicarsi dei Proci
              uccidendoli tutti, e poi viver tranquillo nel suo regno con la fida Penelope, <pb
                n="462" xml:id="p462"/>il saggio figlio e il vecchio suo padre <hi rend="i"
                >Laerte</hi> (chè la madre <hi rend="i">Anticlèa</hi> era già morta prima del suo
              ritorno <note place="bottom">Essendo Ulisse figlio di Laerte e di Anticlea ambedue
                mortali, non appartenne al numero dei Semidei, ma soltanto degli Eroi ; nè fu
                considerato dopo la morte come un <hi rend="i">Indigete Dio</hi>, e perciò non gli
                furono resi onori divini.</note>.</p>
            <p>Non tutti però gli antichi autori si accordano con Omero a dire che Ulisse tornò in
              Itaca ; anzi alcuni asseriscono che egli fu ucciso prima di giungervi, ed altri che
              non tornò più in patria e perì insieme co’ suoi compagni in una tempesta. E
              quest’ultima opinione è quella che segue Dante nella <hi rend="i">Divina
              Commedia</hi>. Anzi è qui da notarsi una gran diversità di opinione fra Omero e Dante
              rispetto alla stima da aversi dell’indole e delle imprese di Ulisse non meno che di
              Achille. Omero poeta pagano e cantore di Eroi mezzi barbari, ammira la <hi rend="i"
                >forza</hi> e <hi rend="i">l’astuzia</hi>, e sceglie per protagonisti dei suoi due
              poemi <hi rend="i">il più forte e il più astuto</hi> dei personaggi della guerra di
              Troia, e giudicando soltanto dagli effetti, come soglion fare gli uomini politici, non
              attribuisce alcun demerito agli eccessi della forza e dell’astuzia, che le fanno
              divenire <hi rend="i">barbarie</hi> e <hi rend="i">frode</hi>. Ma <hi rend="sc"
                >Dante</hi> poeta e filosofo cristiano dopo aver dichiarato che</p>
            <quote>
              <l>« D’ogni malizia ch’odio in Cielo acquista</l>
              <l>« Ingiuria è il fine, ed ogni fin cotale</l>
              <l>« O <hi rend="i">per forza</hi> o <hi rend="i">per frode</hi> altrui
                contrista, »</l>
            </quote>
            <p>non poteva esser così indulgente come <hi rend="sc">Omero</hi> per gli eccessi di
              Achille e di Ulisse. Ma…. (com’egli giustamente osserva),</p>
            <quote>
              <l>« Ma poichè <hi rend="i">frode</hi> è dell’uom proprio male</l>
              <l>« Più spiace a Dio ; »</l>
            </quote>
            <p>dovè esser perciò assai meno indulgente con Ulisse che con Achille. Infatti gli
              eccessi di Achille dipendevano dall’impeto <pb n="463" xml:id="p463"/>degli affetti,
              che anche nei tribunali umani sono una causa attenuante che induce i giudici a
              minorare la pena ; ma la malignità e la premeditazione del delitto attirano sopra il
              reo tutto il rigor delle Leggi. Quindi <hi rend="sc">Dante</hi>, mentre condanna
              ambedue questi Omerici Eroi all’<hi rend="i">Inferno</hi>, assegna loro giustamente
              una pena molto diversa, secondo le diverse colpe : pone Achille nel cerchio della <hi
                rend="i">bufera</hi> con Francesca da Rimini, e Ulisse tra <hi rend="i">i rei del
                fuoco furo</hi> col Conte Guido da Montefeltro, il più grande ingannatore del Medio
              Evo. Di Achille dice soltanto :</p>
            <quote>
              <l>« …… e vidi il <hi rend="i">grande Achille</hi></l>
              <l>« Che con amore alfine combatteo. »</l>
            </quote>
            <p>Ma di Ulisse ragiona a lungo nel Canto <num>xxvi</num> dell’<hi rend="i"
              >Inferno</hi>, e fa raccontare a lui stesso la sua fine (molto diversa da quella che
              narra Omero), affinchè sembri più vera ; ed è questa : che Ulisse volle passar le <hi
                rend="i">colonne d’Ercole</hi>, ossia lo stretto di Gibilterra, per andare in cerca
              di nuove regioni nell’Oceano atlantico ; e, quel che è più notabile, tenne presso a
              poco la stessa direzione di Colombo, 2600 anni prima di lui, ma piegando un poco più
              al <hi rend="i">sud</hi> ; e dopo 5 mesi lunari aveva già passata la linea, ossia
              l’equatore, quando vide in distanza una <hi rend="i">montagna bruna</hi> più alta di
              quante mai ne avesse vedute, e da quella <hi rend="i">nuova terra</hi> nacque un tal
              turbine, che fece affondar nel mare la sua nave con esso lui e tutti i suoi compagni.
              Queste particolarità, che son tutte d’invenzione di Dante, dimostrano che egli quasi
              due secoli prima di Colombo e di Paolo Toscanella supponeva l’esistenza di <hi
                rend="i">nuove terre</hi> in mezzo all’Oceano, ma credeva che non fossero abitate,
              poichè le chiama il <hi rend="i">mondo senza gente</hi>. Tutto il suddetto Canto
                <num>xxvi</num> è mirabile in ogni sua parte, e non merita meno di quelli della
              Francesca da Rimini e del Conte Ugolino di essere studiato e imparato a memoria. Io ne
              riporto soltanto le ultime terzine che contengono la narrazione della <pb n="464"
                xml:id="p464"/>fine di Ulisse posta da <hi rend="sc">Dante</hi> sulle labbra di
              Ulisse stesso ; e ciò per dimostrazione e conferma di quanto ho accennato di
              sopra :</p>
            <quote>
              <l>« E volta nostra poppa nel mattino,</l>
              <l>« De’remi facemmo ala al <hi rend="i">folle volo</hi><note place="bottom"><p>Anche
                    nel Canto <num>xxvii</num> del <hi rend="i">Paradiso</hi> conferma l’opinione
                    che Ulisse fosse annegato nell’Oceano Atlantico, e ripete l’epiteto di <hi
                      rend="i">folle</hi> applicandolo parimente all’ardire di
                      quell’eroe :</p><quote><l>« Si ch’io vedea di là da Gade <hi rend="i">il
                        varco</hi></l><l>« <hi rend="i">Folle</hi> d’Ulisse, »
                  ecc.</l></quote></note></l>
              <l>« Sempre acquistando dal lato mancino.</l>
              <l>« Tutte le stelle già dell’altro polo</l>
              <l>« Vedea la notte, e il nostro tanto basso,</l>
              <l>« Che non usciva fuor del marin suolo.</l>
              <l>« Cinque volte racceso e tanto casso</l>
              <l>« Lo lume era di sotto della luna,</l>
              <l>« Poi ch’entrati eravam nell’alto passo,</l>
              <l>« Quando n’apparve <hi rend="i">una montagna bruna</hi></l>
              <l>« Per la distanza, e parvemi alta tanto,</l>
              <l>« Quanto veduta non n’aveva alcuna.</l>
              <l>« Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,</l>
              <l>« Chè dalla <hi rend="i">nuova terra</hi> un turbo nacque,</l>
              <l>« E percosse del legno il primo canto.</l>
              <l>« Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,</l>
              <l>« Alla quarta levar la poppa in suso,</l>
              <l>« E la prora ire in giù, come altrui piacque,</l>
              <l>« In fin che ‘l mar fu sopra noi richiuso. »</l>
            </quote>
          </div3>
          <div3 type="chapter">
            <head type="sur">LXII</head>
            <head type="main">Venuta di Enea in Italia</head>
            <p>Per quanto <hi rend="sc">Omero</hi> parli onorevolmente di <hi rend="i">Enea</hi>
                nell’<hi rend="i">Iliade</hi>, e ne rammenti gl’illustri natali, dicendolo figlio
              della Dea Venere e di Anchise principe troiano, e divenuto in appresso <pb n="465"
                xml:id="p465"/>genero di Priamo per averne sposata la figlia <hi rend="i"
                >Creusa</hi>, e inoltre ne celebri pur anco le pugne e il valore sotto le mura di
              Troia, non ostante Enea, secondo Omero, è sempre un Eroe secondario, molto inferiore
              ad Ettore, il solo antagonista che potesse stare a fronte di Achille. Tutta la fama
              che rese uno dei più illustri il nome di Enea e degno di poema e d’istoria ei
              l’acquistò dopo l’eccidio di Troia, perchè venne in Italia e fondò un regno nel Lazio,
              dal quale derivò Roma che fu poi dominatrice del Mondo. Quindi <hi rend="sc"
                >Virgilio</hi> lo scelse per protagonista nel suo poema epico intitolato perciò
              appunto l’<hi rend="i">Eneide</hi> ; e <hi rend="sc">Dante</hi> disse lui</p>
            <quote>
              <l>« Ch’ei fu dell’alma Roma e del suo Impero</l>
              <l>« Nell’empireo ciel per padre eletto. »</l>
            </quote>
            <p>Ma poichè noi troviamo ad un tempo in Enea l’Eroe mitologico e lo stipite del
              fondatore di Roma, l’ufficio del Mitologo è compiuto dove di Enea s’impadronisce lo
              Storico per narrar di lui ciò che crede conforme alla verità, o almeno alla morale
              certezza. Noi dunque ne diremo principalmente ciò che ne tace T. Livio, e poi
              accenneremo brevemente quello in che egli concorda coi Mitologi e coi poeti.</p>
            <p><hi rend="i">Enea</hi> ebbe il titolo di <hi rend="i">Pio</hi> per aver salvato
              dall’incendio di Troia il vecchio suo padre <hi rend="i">Anchise</hi> portandolo sulle
              spalle e conducendo per mano il figlio <hi rend="i">Ascanio</hi>, mentre la moglie <hi
                rend="i">Creusa</hi> che li seguiva d’appresso disparve, nè mai si seppe che ne
              fosse avvenuto : e sebbene Enea si trattenesse alquanti mesi sul monte Ida per
              costruir le navi e per raccoglier compagni che lo seguissero nella sua emigrazione,
              non potè averne notizia alcuna. Dipoi con una flotta di 20 navi partì dalle spiaggie
              della Troade in cerca di nuove terre per fondarvi un regno ; e nel suo corso marittimo
              toccò, per quanto affermano i poeti e principalmente Virgilio, diverse terre e diverse
              isole, cioè la Tracia, l’isola di Delo, l’isola di Creta, le isole Strofadi, l’isola
              di Leucate, l’Epiro, la Sicilia, le coste <pb n="466" xml:id="p466"/>settentrionali
              dell’Affrica, di nuovo la Sicilia e finalmente giunse in Italia. In questi viaggi
              impiegò sette anni, essendosi però fermato a lungo in più luoghi. T. Livio per altro
              dice soltanto che Enea profugo dalla patria dopo l’eccidio di Troia andò prima nella
              Macedonia, poi nella Sicilia e di là nel territorio di Laurento. Tutto ciò che di
              maraviglioso raccontasi di questo viaggio sino all’arrivo di Enea in Italia è dunque
              totalmente d’invenzione poetica, e perciò appartiene alla Mitologia, e noi dobbiamo,
              sia pur brevemente, parlarne.</p>
            <p>Il prodigio di cui Enea fu testimone in Tracia è il primo non solo cronologicamente,
              ma pur anco per la sua importanza, poichè fu creduto degno di essere imitato
              dall’Alighieri, dall’Ariosto e dal Tasso. Converrà dunque prima di tutto sentirlo
              narrare da <hi rend="sc">Virgilio</hi> stesso, o almeno dal suo classico
              traduttore :</p>
            <quote>
              <l>« ………….. Era nel lito</l>
              <l>« Un picciol monticello, a cui sorgea</l>
              <l>« Di mirti in sulla cima e di cornioli</l>
              <l>« Una folta selvetta. In questa entrando</l>
              <l>« Per di frondi velare i sacri altari,</l>
              <l>« Mentre de’suoi più teneri e più verdi</l>
              <l>« Arbusti or questo or quel diramo e svelgo,</l>
              <l>« Orribilè a veder, stupendo a dire</l>
              <l>« M’apparve un mostro ; chè divelto il primo</l>
              <l>« Dalle prime radici, uscîr di sangue</l>
              <l>« Luride goccie, e ne fu il suolo asperso.</l>
              <l>« Ghiado mi strinse il core ; orror mi scosse</l>
              <l>« Le membra tutte, e di paura il sangue</l>
              <l>« Mi si rapprese. lo le cagioni ascose</l>
              <l>« Di ciò cercando, un altro ne divelsi ;</l>
              <l>« Ed altro sangue usciane : onde confuso</l>
              <l>« Vie più rimasi ; e nel mio cor diversi</l>
              <l><pb n="467" xml:id="p467"/>« Pensier volgendo, or dell’agresti Ninfe,</l>
              <l>« Or del scitico Marte i santi Numi</l>
              <l>« Adorando, porgea preghiere umili,</l>
              <l>« Che di sì fiera e portentosa vista</l>
              <l>« Mi si togliesse, o si temprasse almeno</l>
              <l>« Il diro annunzio. Ritentando ancora,</l>
              <l>« Vengo al terzo virgulto, e con più forza</l>
              <l>« Mentre lo scerpo, e i piedi al suolo appunto,</l>
              <l>« E lo scuoto e lo sbarbo (il dico o il taccio ?)</l>
              <l>« Un sospiroso e lagrimabil suono</l>
              <l>« Dall’imo poggio odo che grida e dice :</l>
              <l>« Ah perchè sì mi laceri e mi scempi ?</l>
              <l>« Perchè di così pio, così spietato</l>
              <l>« Enea ver me ti mostri ? a che molesti</l>
              <l>« Un ch’è morto e sepolto ? a che contamini</l>
              <l>« Col sangue mio le consanguinee mani ?</l>
              <l>« Chè nè di patria, nè di gente esterno</l>
              <l>« Son io da te ; nè questo atro liquore</l>
              <l>« Esce da sterpi, ma da membra umane.</l>
              <l>« Ah ! fuggi, Enea, da questo empio paese :</l>
              <l>« Fuggi da questo abbominevol lito ;</l>
              <l>« Chè Polidoro io sono, e qui confitto</l>
              <l>« M’ha nembo micidiale e ria semenza</l>
              <l>« Di ferri e d’aste, che dal corpo mio</l>
              <l>« Umor preso e radici han fatto selva. »</l>
            </quote>
            <p>Che Polidoro fosse figlio di Priamo e di Ecuba lo abbiamo accennato parlando della
              trista fine di questa infelice regina ; ma poichè <hi rend="sc">Virgilio</hi> ne fa
              dare da Enea un’ampia spiegazione, io qui la riporto colle parole del suo
              traduttore :</p>
            <quote>
              <l>« A cotal suon da dubbia tema oppresso</l>
              <l>« Stupii, mi raggricciai, muto divenni,</l>
              <l>« Di Polidoro udendo. Un de’figliuoli</l>
              <l>« Era questi del re, che al tracio rege</l>
              <l><pb n="468" xml:id="p468"/>« Fu con molto tesoro occultamente</l>
              <l>« Accomandato, allor che da’Troiani</l>
              <l>« Incominciossi a diffidar dell’armi,</l>
              <l>« E temer dell’assedio. Il rio tiranno</l>
              <l>« Tosto che a Troia la fortuna vide</l>
              <l>« Volger le spalle, anch’ei si volse, e l’armi</l>
              <l>« E la sorte seguì dei vincitori ;</l>
              <l>« Sì che dell’amicizia e dell’ospizio</l>
              <l>« E dell’umanità rotta ogni legge,</l>
              <l>« Tolse al regio fanciul la vita e l’oro.</l>
              <l>« Ahi dell’oro empia ed esecrabil fame !</l>
              <l>« E che per te non osa, e che non tenta</l>
              <l>« Quest’umana ingordigia ?<note place="bottom"><p>Questi due ultimi versi e mezzo
                    sono la traduzione un po’amplificata del famoso</p><quote><l>« ….. Quid non
                      mortalia pectora cogis,</l><l>« Auri sacra fames ? »</l></quote><p>che
                    Virgilio proferì</p><quote><l>« Crucciato quasi all’umana
                    natura ; »</l></quote><p>come dice <hi rend="sc">Dante</hi> nel Canto
                      <num>xxii</num> del <hi rend="i">Purgatorio</hi>, ove ne dà la seguente
                    traduzione :</p><quote><l>« Perchè non reggi tu, o sacra fame</l><l>« Dell’oro,
                      l’appetito dei mortali ? »</l></quote><p>Alle quali parole il can. Bianchi fa
                    la seguente annotazione : <quote>« È inutile che io osservi che il virgiliano
                        <hi rend="i">Quid non mortalia pectora cogis</hi> ecc. non ha propriamente
                      il senso a cui è tirato qui. »</quote> È vero, io soggiungo, che Dante voleva
                    applicare il detto virgiliano ai prodighi e non agli avari, e potrebbe darsi che
                    lo avesse interpretato come gli faceva comodo ; ma forse è più probabile che
                    nelle copie di Virgilio vedute da Dante fosse scritto <hi rend="i">Cur</hi>
                    invece di <hi rend="i">Quid</hi>, come dicesi che si trovi tuttora in qualche
                    antico manoscritto dell’<hi rend="i">Eneide</hi>.</p></note></l>
            </quote>
            <p>Dante ha gareggiato mirabilmente con Virgilio estendendo il virgiliano prodigio di un
              solo albero ad un’intera selva <pb n="469" xml:id="p469"/>infernale, immaginando cioè
              che in ciascun albero di quella selva fosse chiusa come nel proprio corpo l’anima di
              un dannato suicida. Questa scena dolorosa e funesta occupa tutto il Canto
                <num>xiii</num> dell’<hi rend="i">Inferno</hi> ; e quanto desta orrore la
              descrizione della selva, altrettanto muove a compassione il racconto del famoso Pier
              delle Vigne, Segretario dell’Imperator Federigo II, che essendo calunniato
              dagl’invidiosi cortigiani e imprigionato si uccise per disdegno<note place="bottom"
                  ><p>Son queste le parole che <hi rend="sc">Dante</hi> fa dire a Pier delle
                  Vigne :</p><quote><l>« L’animo mio per disdegnoso gusto,</l><l>« Credendo col
                    morir fuggir disdegno,</l><l>« Ingiusto fece me contro me
                giusto. »</l></quote></note>. Ma in qual modo si accorgesse <hi rend="sc">Dante</hi>
              che quella selva era animata, e venisse poi a scuoprire in un di quegli alberi l’anima
              di Pier delle Vigne, è pregio dell’opera riferirlo colle sue stesse parole per farne
              il confronto colla virgiliana invenzione, e assicu- rarsi che il nostro sommo poeta
              gareggiando cogli antichi maestri bene spesso li vince :</p>
            <quote>
              <l>« Io sentia d’ogni parte tragger guai,</l>
              <l>« E non vedea persona che ‘l facesse ;</l>
              <l>« Perch’io tutto smarrito m’arrestai.</l>
              <l>« Io credo ch’ei credette ch’io credesse</l>
              <l>« Che tante voci uscisser tra que’bronchi</l>
              <l>« Da gente che per noi si nascondesse.</l>
              <l>« Però disse ‘l Maestro : se tu tronchi</l>
              <l>« Qualche fraschetta d’una d’este piante,</l>
              <l>« Li pensier ch’hai si faran tutti monchi.</l>
              <l>« Allor porsi la mano un poco avante,</l>
              <l>« E colsi un ramoscel da un gran pruno ;</l>
              <l>« E ‘l tronco suo gridò : Perchè mi schiante ?</l>
              <l>« Da che fatto fu poi di sangue bruno,</l>
              <l>« Ricominciò a gridar : Perchè mi scerpi ?</l>
              <l>« Noi hai tu spirto di pietate alcuno ?</l>
              <l><pb n="470" xml:id="p470"/>« Uomini fummo, ed or sem fatti sterpi ;</l>
              <l>« Ben dovrebb’esser la tua man più pia,</l>
              <l>« Se state fossim’ anime di serpi.</l>
              <l>« Come d’un stizzo verde, ch’arso sia</l>
              <l>« Dall’un de’capi che dall’altro geme,</l>
              <l>« E cigola per vento che va via ;</l>
              <l>« Così di quella scheggia usciva insieme</l>
              <l>« Parole e sangue : ond’io lasciai la cima</l>
              <l>« Cadere, e stetti come l’uom che teme. »</l>
            </quote>
            <p>Anche l’Ariosto ha fatto cangiare Astolfo in mirto dalla maga Alcina ; e il Tasso
              molto a lungo ha descritto tutte le diavolerie della selva incantata ; ma conviene
              aver lette le loro descrizioni prima di quella di Dante, affinchè non perdano nulla
              del loro prestigio.</p>
            <p>Un altro fatto straordinario avvenne ad Enea ed ai suoi compagni nelle isole <hi
                rend="i">Strofadi</hi>, e fu di trovarvi le <hi rend="i">Arpie</hi>. Noi descrivemmo
              questi mostri nei Cap. XLV e XLVIII, ed accennammo che oltre gli antichi poeti ne
              avevan parlato anche Dante e l’Ariosto. Virgilio racconta che i Troiani per non morir
              di fame furon costretti a cacciare le Arpie colle lancie e coi dardi, perchè sempre,
              com’eran solite di far dovunque, rapivano quante vivande potevano afferrare, e
              infettavano le rimanenti ; e aggiunge che <hi rend="i">Celeno</hi><note place="bottom"
                >I poeti ci hanno conservato il nome anche di due altre Arpie, che eran chiamate <hi
                  rend="i">Occìpete</hi> e <hi rend="i">Aello</hi>. Il numero ternario si trova
                spesso nella Mitologia, incominciando dai tre figli di Saturno, sino alle tre Arpie
                ora rammentate.</note>, la maggiore di esse, presagì ai Troiani che in pena di
              averle offese soffrirebbero talmente la fame da divorarsi le stesse mense. La quale
              strana predizione si avverò poi blandamente, perchè le mense che i Troiani divorarono
              furono le focacce che servivan loro di piatto e di tavola quando nelle <pb n="471"
                xml:id="p471"/>spedizioni mangiavano sulla nuda terra. <hi rend="sc">Dante</hi>
              confina questi mostruosi e sozzi volatili nella selva delle anime dei suicidi, ed
              accresce colla loro presenza l’orrore di quella, negli alberi della quale</p>
            <quote>
              <l>« Non frondi verdi, ma di color fosco</l>
              <l>« Non rami schietti, ma nodosi e involti,</l>
              <l>« Non pomi v’eran, ma stecchi con tosco. »</l>
            </quote>
            <p>Inoltre le Arpie sono ivi destinate a far l’ufficio di demòni, a tormentar cioè
              quegli zoofiti infernali, come <hi rend="sc">Dante</hi> fa raccontare allo stesso Pier
              delle Vigne :</p>
            <quote>
              <l>« Quando si parte l’anima feroce</l>
              <l>« Dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta,</l>
              <l>« Minos la manda alla settima foce.</l>
              <l>« Cade in la selva, e non l’è parte scelta ;</l>
              <l>« Ma là dove fortuna la balestra,</l>
              <l>« Quivi germoglia come gran di spelta ;</l>
              <l>« Surge in vermena ed in pianta silvestra ;</l>
              <l>« <hi rend="i">Le Arpie pascendo poi delle sue foglie</hi></l>
              <l>« <hi rend="i">Fanno dolore ed al dolor finestra</hi><note place="bottom"><p><hi
                      rend="sc">Dante</hi> non dimentica neppure di far cenno della funesta
                    predizione delle Arpie ai Troiani :</p><quote><l>« Quivi le brutte Arpie lor
                      nido fanno,</l><l>« Che cacciar delle Strofade i Troiani</l><l>« <hi rend="i"
                        >Con tristo annunzio di futuro danno</hi>. »</l></quote></note>. »</l>
            </quote>
            <p>Un ingegnosissimo episodio fu inventato da Virgilio, che cioè Enea sospinto dalla
              tempesta sulle coste di Barberia, avesse trovato in quel territorio, ove ora è <hi
                rend="i">Tunisi</hi>, la regina Didone che facea fabbricare la città di Cartagine.
              Secondo i Cronologisti più accreditati, Didone viveva tre secoli dopo la guerra di
              Troia, e perciò era impossibile che avesse conosciuto Enea ; ma per quanto vi sia
              questo non piccolo <pb n="472" xml:id="p472"/><hi rend="i">anacronismo</hi>,
              l’invenzione di Virgilio fu ritenuta per una verità istorica ed ebbe gran fama, perchè
              faceva risalire gli odii dei Cartaginesi contro i Romani sino allo stipite della
              dinastia del fondatore di Roma ed a quei compagni di Enea, dai quali vantavansi
              discesi molti dei più nobili ed illustri Romani.</p>
            <p><hi rend="i">Didone</hi>, chiamata altrimenti <hi rend="i">Elisa</hi>, era figlia di
                <hi rend="i">Belo</hi> re di Tiro e Sidone nella Fenicia ; ed ebbe per marito <hi
                rend="i">Sichèo</hi> che poi fu ucciso da <hi rend="i">Pigmalione</hi> fratello di
              lei, per impadronirsi delle ricchezze e del regno<note place="bottom"><p><hi rend="sc"
                    >Dante</hi> fa la perifrasi del nome di <hi rend="i">Didone</hi> rammentando di
                  chi essa era figlia e la sua malaugurata predilezione per
                    Enea :</p><quote><l>« Che più non arse la figlia di <hi rend="i"
                    >Belo</hi>,</l><l>« Noiando ed a <hi rend="i">Sicheo</hi> ed a <hi rend="i"
                      >Creusa</hi>. »</l></quote><bibl>(<title>Parad.</title>
                  <num>xix</num>, 97.)</bibl><p>Rammenta ancora col biasimo che si merita
                  Pigmalione, fratello di lei :</p><quote><l>« Noi ripetiam <hi rend="i"
                      >Pigmalïone</hi> allotta,</l><l>« Cui traditore e ladro e
                    patricida</l><l>« Fece la voglia sua dell’oro
                    ghiotta. »</l></quote><bibl>(<title>Purgat.</title>
                  <num>xx</num>, 103.)</bibl></note> Ma essa potè fuggir per mare con molti tesori e
              molti compagni o sudditi e fondare la città di <hi rend="i">Cartagine</hi> in Affrica.
              Gettato su quelle coste dalla tempesta, Enea fu accolto umanamente dalla regina, la
              quale offrì ad esso ed ai Troiani di fare un sol popolo coi Tirii, e credendo
              accettata stabilmente la sua offerta, stimò rafforzato il suo nuovo regno, e lasciò
              correr la fama che Enea fosse divenuto sposo di lei che prima avea rifiutato le nozze
              con altri principi per serbar fede <hi rend="i">al cener di Sicheo</hi><note
                place="bottom">Perciò <hi rend="sc">Dante</hi>, parlando di Didone, disse di lei <hi
                  rend="i">che ruppe fede al cener di Sicheo</hi>.</note> Ma Enea chiamato dai Fati
              a fondare un regno in Italia, abbandonò Didone ; ed essa imprecando <pb n="473"
                xml:id="p473"/>ad Enea ed a tutti i Troiani e loro discendenti, per disperazione si
                uccise<note place="bottom"><p>E celebre in <hi rend="sc">Virgilio</hi> (<hi rend="i"
                    >Eneide</hi>, lib.  <num>iv</num>) l’imprecazione di Didone che sembra un
                  presagio delle guerre Puniche e delle tremende battaglie di Annibale che tanta
                  strage fecero dei Romani e misero in forse l’esistenza stessa di
                    Roma :</p><quote><l>« Jam vos, o Tyrii, stirpem et genus omne
                    futurum</l><l>« Exercete odiis, cinerique hæc mittite nostro</l><l>« Munera :
                    nullus amor populis, nec fœdera sunto.</l><l>« <hi rend="i">Exoriare aliquis
                      nostris ex ossibus ultor</hi>,</l><l>« Qui face dardanios ferroque sequare
                    colonos,</l><l>« Nunc, olim, quocumque dabunt se tempore vires.</l><l>« <hi
                      rend="i">Litora litoribus contraria, fluctibus undas</hi></l><l>« <hi rend="i"
                      >Imprecor, arma armis : pugnent ipsique nepotes</hi>. »</l></quote></note></p>
            <p>Ad Enea era già morto in Sicilia il vecchio padre Anchise nella città di <hi rend="i"
                >Drèpano</hi> (ora Trapani), ove regnava Alceste di sangue troiano. <hi rend="sc"
                >L’Ariosto</hi> ha voluto significare questa città facendo una perifrasi allusiva
              alla sepoltura che ivi diede Enea alla salma di suo padre ; e così la rammenta nel
              descrivere un viaggio di uno degli eroi del suo poema :</p>
            <quote>
              <l>« Passa gli Umbri e gli Etrusci, e a Roma scende ;</l>
              <l>« Da Roma ad Ostia ; e quindi si tragitta</l>
              <l>« Per mare alla <hi rend="i">cittade, a cui commise</hi></l>
              <l>« <hi rend="i">Il pietoso figliuol l’ossa d’Anchise</hi><note place="bottom"
                    ><p>Anche <hi rend="sc">Dante</hi>nel Canto <num>xix</num> del <hi rend="i"
                      >Paradiso</hi> rammenta Anchise morto in Sicilia, la quale, alludendo all’<hi
                      rend="i">Etna</hi>, egli chiama</p><quote><l>« ………. l’isola del
                      fuoco,</l><l>« Dove Anchise fini la lunga etate. »</l></quote></note>.</l>
            </quote>
            <p>Prima di andar nel Lazio, Enea si fermò a <hi rend="i">Cuma</hi>,</p>
            <quote>
              <l>« Ove in alto sorgea di Febo il tempio,</l>
              <l>« E là dov’era la spelonca immane</l>
              <l>« Dell’orrenda Sibilla, a cui fu dato</l>
              <l>« Dal gran Delio profeta animo e mente</l>
              <l>« D’aprir l’occulte e le future cose. »</l>
            </quote>
            <p><pb n="474" xml:id="p474"/>La <hi rend="i">Sibilla Cumana</hi>, che era solita dare
              agli altri le sue risposte per mezzo di foglie sparse qua e là geroglificamente nella
              sua caverna, ad Enea fece singolare accoglienza e si offrì di guidarlo nel regno delle
              Ombre per vedere e consultare l’anima di suo padre Anchise. In questo sotterraneo
              viaggio son descritte brevemente le <hi rend="i">Regioni infernali</hi> e lo <hi
                rend="i">Stato delle anime dopo la morte</hi> secondo la religione pagana ; e noi di
              questi soggetti importantissimi per la classica Mitologia abbiamo parlato a lungo nei
              Cap. XXIX, XXX e XXXI. E qui è bene osservare che di questo viaggio, che nell’<hi
                rend="i">Eneide</hi> di <hi rend="sc">Virgilio</hi> è un episodio, <hi rend="sc"
                >Dante</hi> ha fatto il soggetto della <hi rend="i">Divina Commedia</hi>, adattando
              e subordinando le idee pagane di Virgilio alla teologia cristiana, e senza
              allontanarsi dalle dottrine di questa, descrivendo con mirabil fantasia e sapienza
                l’<hi rend="i">Inferno</hi>, il <hi rend="i">Purgatorio</hi> e il <hi rend="i"
                >Paradiso</hi>.</p>
            <p>Prima di narrare come finalmente Enea giunse nel Lazio ed in quel territorio ove dopo
              tre in quattro secoli sorse Roma, sarà opportuno rammentare alcuni luoghi d’Italia,
              che, secondo l’antica tradizione, ebbero il nome, che tuttora conservano, da qualcuno
              dei compagni di Enea. I più notabili sono il <hi rend="i">capo Misèno</hi>
              <note place="bottom">Il capo Miseno resta tra Cuma e Pozzuoli, a 15 miglia da
                Napoli.</note> e la città di <hi rend="i">Gaeta</hi>. E perchè <hi rend="sc"
                >Virgilio</hi> stesso ne dà la spiegazione, qui la riporteremo con le parole del suo
              celebre traduttore A. Caro :</p>
            <quote>
              <l>« Nel secco lito in sull’arena steso</l>
              <l>« Vider <hi rend="i">Miseno</hi> indegnamente estinto ;</l>
              <l>« <hi rend="i">Miseno</hi>, il figlio d’Eolo, che araldo</l>
              <l>« Era supremo, e col suo fiato solo</l>
              <l>« Possente a suscitar Marte e Bellona.</l>
              <l>« Era costui del grand’Ettor compagno,</l>
              <l>« E de’più segnalati intorno a lui</l>
              <l><pb n="475" xml:id="p475"/>« Combattendo, or la tromba ed or la lancia</l>
              <l>« Adoperava : e poi che ‘l fiero Achille</l>
              <l>« Ettore ancise, come ardito e fido</l>
              <l>« Seguì l’orme d’Enea ; chè non fu punto</l>
              <l>« Inferïore a lui. Stava sul mare</l>
              <l>« Sonando il folle con Tritone a gara,</l>
              <l>« Quando da lui ch’aschio sentinne e sdegno,</l>
              <l>« (Se creder dèssi) insidïosamente</l>
              <l>« Tratto giù dallo scoglio, ov’era assiso,</l>
              <l>« Fu nell’onde sommerso. Al corpo intorno</l>
              <l>« Convocati già tutti, amaro pianto</l>
              <l>« Ed alte strida insieme ne gittaro ;</l>
              <l>« E più degli altri Enea. »</l>
            </quote>
            <p>Qui il poeta fa una lunga descrizione dei funebri onori che furon resi a Miseno, e
              termina dicendo :</p>
            <quote>
              <l>« Oltre a ciò fece Enea per suo sepolcro</l>
              <l>« Ergere un’alta e sontuosa mole,</l>
              <l>« E l’armi e ‘l remo e la sonora tuba</l>
              <l>« Al monte appese, che d’<hi rend="i">Aerio</hi> il nome</l>
              <l>« Fino allor ebbe, ed or da lui nomato</l>
              <l>« <hi rend="i">Miseno</hi> è detto, e si dirà mai sempre. »</l>
            </quote>
            <p>E finora almeno, da quasi tremila anni, continua a dirsi così, e <hi rend="i">si dirà
                mai sempre</hi>, come asseriva Virgilio, finchèsarà in onore la lingua latina. Nè
              può credersi che sia questa una mera invenzione di Virgilio, poichè oltre i poeti
              Properzio, Silio Italico e Stazio, anche i geografi Solino e Mèla confermano la stessa
              origine del nome di questo promontorio. Non lungi dal promontorio v’ è il porto
              Miseno, celebre anticamente perchè vi stavan sempre due flotte bene equipaggiate ed
              armate, postevi dall’Imperatore Augusto a guardia dell’Italia.</p>
            <p><pb n="476" xml:id="p476"/>L’altro nome, quello cioè della città di <hi rend="i"
                >Gaeta</hi>, ha pur esso un’origine troiana ; e <hi rend="sc">Virgilio</hi> così
              brevemente l’accenna al principio del libro <num>vii</num> dell’ <hi rend="i"
                >Eneide</hi> :</p>
            <quote>
              <l>« Ed ancor tu d’Enea fida nutrice</l>
              <l>« <hi rend="i">Caieta</hi>, ai nostri liti eterna fama</l>
              <l>« Desti morendo, ed essi anco a te diero</l>
              <l>« Sede onorata, se d’onore a’morti</l>
              <l>« È d’aver l’ossa consecrate e’l nome</l>
              <l>« Nella famosa Esperia. Ebbe <hi rend="i">Caieta</hi></l>
              <l>« Dal suo pietoso alunno esequie e lutto</l>
              <l>« E sepoltura alteramente eretta. »</l>
            </quote>
            <p>Il nome latino <hi rend="i">Caieta</hi> divenne in italiano <hi rend="i">Gaeta</hi>,
              e nello stesso modo l’aggettivo <hi rend="i">Caietanus</hi> divenne <hi rend="i"
                >Gaetano</hi>.</p>
            <p>Anche <hi rend="sc">Dante</hi> ripete che alla città di <hi rend="i">Gaeta</hi> fu
              dato questo nome da Enea, poichè nel Canto <num>xxvi</num> dell’<hi rend="i"
                >Inferno</hi>, facendo dire ad Ulisse :</p>
            <quote>
              <l>« ……………… Quando</l>
              <l>« Mi dipartii da Circe, che sottrasse</l>
              <l>« Me più d’un anno là presso a Gaeta.</l>
              <l>« Prima che sì Enea la nominasse, »</l>
            </quote>
            <p>volle fare intendere che Ulisse avea navigato lungo le coste d’Italia prima che vi
              giungesse Enea, come difatti si deduce dai poemi di Omero e di Virgilio.</p>
            <p>Finalmente Enea entrando nella foce del <hi rend="i">Tevere</hi>, allora chiamato il
              fiume <hi rend="i">Àlbula</hi>, si avanzò in quella regione che doveva divenir sì
              celebre nella storia con la città di Roma e <hi rend="i">il popol di Quirino</hi>. Gli
              storici latini, incominciando da Tito Livio, concordano coi poeti, e principalmente
              con Virgilio, ad asserire che Enea strinse alleanza con <hi rend="i">Latino</hi> re di
                <hi rend="i">Laurento</hi> nel paese dei Latini, e ne sposò la figlia <hi rend="i"
                >Lavinia</hi> ; che sostenne una pericolosissima guerra contro di <hi rend="i"
                >Turno</hi> re dei <hi rend="i">Rutuli</hi>, pretendente e, secondo alcuni, promesso
              sposo di <pb n="477" xml:id="p477"/>Lavinia, e lo vinse ed uccise <note place="bottom"
                  ><p>I poeti latini, e principalmente Virgilio, dicono che la regina <hi rend="i"
                    >Amata</hi> moglie del re <hi rend="i">Latino</hi>, aveva promessa <hi rend="i"
                    >Lavinia</hi> in isposa a <hi rend="i">Turno</hi>, e che quando vide la sorte
                  delle armi favorevole ad Enea si uccise per disperazione. <hi rend="sc">Dante</hi>
                  rammenta questo fatto nel Canto <num>xvii</num> del <hi rend="i">Purgatorio</hi>
                  colle seguenti parole :</p><quote><l>« Surse in mia visïone una
                    fanciulla,</l><l>« Piangendo forte, e diceva : O regina,</l><l>« Perchè per ira
                    hai voluto esser nulla ?</l><l>« Ancisa t’hai per non perder Lavina ;</l><l>« Or
                    m’hai perduta ; i’son essa che lutto,</l><l>« Madre, alla tua pria ch’all’altrui
                    ruina. »</l></quote><p>Dante asserisce ancora di aver veduto nel <hi rend="i"
                    >Limbo</hi></p><quote><l>« ………….il re <hi rend="i">Latino</hi></l><l>« Che con
                      <hi rend="i">Lavina</hi> sua figlia sedea. »</l></quote></note> ; che fondò in
              onor di sua moglie la città di <hi rend="i">Lavinio</hi>, e che in appresso <hi
                rend="i">Ascanio</hi> figlio suo e di Creusa, fabbricò la città di <hi rend="i">Alba
                Lunga</hi>, così chiamata, secondo Tito Livio, perchè si stendeva lungo il dorso del
              colle Albano<note place="bottom">« Novam ipse aliam (<hi rend="i">urbem</hi>) sub
                Albano monte condidit, quæ <hi rend="i">ab situ porrectœ in dorso urbis</hi> Longa
                Alba appellata. » — (<hi rend="sc">Tito Liv</hi>., <hi rend="i">Hist</hi>.,
                  <num>i</num>, 3.)</note> ; e finalmente che Enea morì due anni dopo, e fu adorato
              come un <hi rend="i">Indigete Dio</hi>. Ma dalla morte di Enea sino alla nascita di
              Romolo son molto scarsi di notizie, o vere o inventate, tanto gli storici quanto i
              poeti. Appena appena sono in grado di farci sapere i nomi dei re d’Alba, per ordine di
              successione sino a Numitore padre di Rea Silvia, dalla quale nacquero Romolo e Remo. E
              sebbene a questo punto intenda la Storia di sostituirsi alla Mitologia, la sana
              critica per altro ci fa conoscere che nei primi tre secoli di Roma alla verità
              istorica è quasi sempre frammisto il maraviglioso mitologico ; e lo stesso Tito <hi
                rend="sc">Livio</hi> (come abbiamo osservato anche altrove), nel narrare certi fatti
              poco o nulla credibili, non li garantisce come veri, ma aggiunge sempre <hi rend="i"
                >si crede</hi>, o <hi rend="i">si dice</hi>. Nella Mitologia dunque non solo <pb
                n="478" xml:id="p478"/>trovansi le origini preistoriche dei popoli antichi e delle
              loro credenze religiose o vogliam dire superstiziose, ma pur anco le cause di certi
              usi od abusi od errori dei popoli pagani, anche nei tempi istorici, finchè durò il
              culto dei loro <hi rend="i">Dei falsi</hi> e <hi rend="i">bugiardi</hi>. Perciò nella
              Mitologia convien parlare pur anco delle principali superstizioni del Paganesimo, che
              derivarono dal culto di tali Dei : il che faremo nei seguenti capitoli.</p>
          </div3>
          <div3 type="chapter">
            <head type="sur">LXIII</head>
            <head type="main">Della Divinazione e della Superstizione in generale</head>
            <p>Avevano gli antichi Pagani un irrefrenabile desiderio di conoscere il futuro, e al
              tempo stesso una classica illusione a credere che facilmente se ne potesse squarciare
              il velo. Ma appena vi furono gli stolti che ciò credetter possibile, si trovaron
              subito gl’impostori che asserirono di possederne il privilegio o il segreto. Così
              nacquero ed ebbero credito gli <hi rend="i">Oracoli</hi> ed ogni genere di <hi
                rend="i">Divinazione</hi>. Degli Oracoli ragionammo a lungo nel Cap. XXXII come
              complemento alla spiegazione delle Divinità <hi rend="i">Superiori</hi> ; ora convien
              parlare della <hi rend="i">Divinazione</hi>, che incominciata nei tempi preistorici fu
              il perpetuo corredo della pagana religione e sorgente continua di nuove
              superstizioni.</p>
            <p>La parola <hi rend="i">Divinazione</hi> è di origine latina : deriva a <hi rend="i"
                >divis</hi>, cioè dagli Dei, e sta perciò a significare l’interpretazione della
              volontà di essi. Quindi è fondata sulla credenza che gli Dei manifestino agli uomini
              la loro volontà e le loro intenzioni con certi segni sensibili più o meno evidenti. E
              siccome la volontà e l’intenzione di chiunque si riferisce sempre alle cose da farsi,
              ossia future, perciò la <hi rend="i">Divinazione</hi> fu considerata come l’arte di
              conoscere l’avvenire. Infatti Cicerone <pb n="479" xml:id="p479"/>la definì : il
              presentimento e la prescienza delle cose future ; e subito dopo soggiunge : cosa
              veramente magnifica e salutare, <hi rend="i">se però esiste</hi>, e che avvicina
              l’umana natura all’essenza divina <note place="bottom">« Vetus opinio est jam usque ab
                heroicis ducta temporibus, eaque et populi Romani et omnium gentium firmata
                consensu, versari quamdam inter homines <hi rend="i">divinationem</hi>, quam Græci
                  <hi rend="i">mantichen</hi> appellant, id est <hi rend="i">præsensionem et
                  scientiam</hi> rerum futurarum. Magnifica quidem res et salutaris, si modo est
                ulla, quaque proxime ad deorum vim natura mortalis possit accedere. » — (<hi
                  rend="sc">Cic</hi>., <hi rend="i">De Divinat</hi>., <num>i</num>.)</note>.
              Cicerone argomenta molto a lungo e molto sillogisticamente per dimostrare che la <hi
                rend="i">Divinazione</hi> non esiste <note place="bottom">« Quis negat augurum
                disciplinam esse ? <hi rend="i">Divinationem nego</hi>. » — (<hi rend="sc"
                >Cic</hi>., <hi rend="i">De Divinat</hi>., <num>ii</num>.)</note> ; ma noi non
              avremo bisogno di una simile dimostrazione, dopo quanto abbiam detto parlando degli
                <hi rend="i">Oracoli</hi>, e dopo che gli Dei del Paganesimo furon riconosciuti <hi
                rend="i">falsi</hi> e <hi rend="i">bugiardi</hi>.</p>
            <p>La <hi rend="i">Divinazione</hi> esisteva in Oriente dalla più remota antichità, e
              principalmente nell’India e nella Persia, da tempo immemorabile, e si mantiene tuttora
              anche fra i Chinesi e i Musulmani. Gli Ebrei ne appresero i riti in Egitto e ne
              conservarono segretamente le pratiche ad onta dei divieti della Bibbia. Dall’Asia
              passò in Europa. I Greci la chiamarono in loro linguaggio <hi rend="i">Mantiche</hi>,
              vocabolo che significa <hi rend="i">furore, esaltazione mentale</hi> ; quindi la
              considerarono come spirito profetico, ovvero ispirazione ; e tal significato le fu
              attribuito da Platone stesso<note place="bottom">Itaque ut alia nos melius multa quam
                Græci, sic huic præstantissimæ rei nomen nostri a <hi rend="i">Divis</hi>, Græci, ut
                Plato interpretatur, a <hi rend="i">furore</hi> duxerunt. » — (<hi rend="sc"
                  >Cic</hi>., <hi rend="i">De Divinat</hi>., <num>i</num>.)</note>. Questo greco
              vocabolo in composizione con altri, diede origine a molte altre denominazioni delle
              diverse specie di <hi rend="i">Divinazione</hi>, e principalmente alla <hi rend="i"
                >Negromanzia</hi>, cioè alla pretesa evocazione delle anime degli estinti.</p>
            <p><pb n="480" xml:id="p480"/>In Italia furono primi gli Etruschi a porla in pratica e
              ne divennero solenni maestri : da essi l’appresero i Romani, i quali la estesero e
              l’accreditarono maggiormente applicandola con solenni formalità e pratiche religiose
              alla direzione pur anco ed alle risoluzioni degli affari pubblici ossia del Governo.
              Quindi la distinsero in <hi rend="i">naturale</hi> e <hi rend="i">artificiale</hi>. La
              Divinazione <hi rend="i">naturale</hi> comprendeva soltanto i vaticinii ed i sogni :
                l’<hi rend="i">artificiale</hi> tutte le altre specie di divinazione, che si
              facevano derivare dal canto e dal volo degli uccelli, dalle viscere delle vittime, dal
              tuono, dal lampo, dal fulmine, ecc.</p>
            <p>Quasi tutti i diversi modi creduti efficaci per conoscere il futuro ebbero ancora
              diverse denominazioni. Quindi tra le scienze o arti divinatorie troviamo la <hi
                rend="i">Magìa</hi>, l’<hi rend="i">Astrologìa</hi>, il <hi rend="i"
              >sortilegio</hi>, l’<hi rend="i">interpretazione dei sogni</hi>, gli <hi rend="i"
                >augùrii</hi>, o <hi rend="i">auspicii</hi>, gli <hi rend="i">aruspicii</hi>, la <hi
                rend="i">negromanzia</hi>, ecc.</p>
            <p>A queste e simili pratiche religiose del Paganesimo suol darsi comunemente il titolo
              di <hi rend="i">superstizioni</hi> ; perciò è da vedersi ancora qual’è l’etimologia di
              questa parola e quale estensione di significato le attribuivano i Politeisti
              romani.</p>
            <p>La parola <hi rend="i">superstizione</hi> è di origine latina, e <hi rend="sc"
                >Cicerone</hi> la fa derivare da <hi rend="i">superstite</hi>, dicendo <quote>« che
                tutti coloro i quali ogni giorno pregavano gli Dei e ad essi immolavano vittime per
                ottenere che i loro figli fossero <hi rend="i">superstiti</hi> (cioè sopravvivessero
                ai genitori) furon chiamati <hi rend="i">superstiziosi</hi><note place="bottom"
                    ><quote>« Nam qui totos dies precabantur et immolabant, ut sui liberi sibi <hi
                      rend="i">superstites</hi> essent, <hi rend="i">superstitiosi</hi> sunt
                    appellati. »</quote> — (<hi rend="sc">Cic</hi>., <hi rend="i">De Nat.
                  Deor</hi>., <num>ii</num>.)</note> ; »</quote> ed aggiunge poi che quel vocabolo
              di <hi rend="i">superstizione</hi> ebbe in appresso un più esteso significato,
              riferibile a tutte le stolte e vane pratiche religiose, proprie delle vecchie
              imbecilli che hanno un irrazionale terror degli Dei. Quindi egregiamente Bacone da
              Verulamio asserì che la <hi rend="i">superstizione</hi> altro non è veramente che un
                <hi rend="i">terror pànico</hi>.</p>
            <p><pb n="481" xml:id="p481"/><hi rend="sc">Cicerone</hi> inoltre ci fa sapere che non è
              stato egli il primo a far questa distinzione, e che <hi rend="i">non solo i filosofi,
                ma anche gli antichi romani separarono</hi> la religione <hi rend="i">dalla
                superstizione</hi><note place="bottom">« Non enim philosophi solum, verum etiam
                majores nostri <hi rend="i">su perstitionem</hi> a <hi rend="i">religione</hi>
                  separaverunt. » — (<hi rend="sc">Cic</hi>., <hi rend="i">ibid</hi>.)</note>. E
              quantunque egli non enumeri per filo e per segno tutte le idee e le pratiche del culto
              pagano che egli credeva superstiziose, a noi basta il sapere, per l’argomento di
              questo capitolo, aver egli dichiarata vana e insussistente la <hi rend="i"
                >Divinazione</hi> in tutte le sue parti, specie e distinzioni, come indicammo di
              sopra : il che in altri termini equivale a dire che la <hi rend="i">Divinazione</hi>
              di qualunque genere o specie era una vera <hi rend="i">superstizione</hi>. Ma perchè
              gli scrupolosi politeisti di quel tempo non credessero che dicendo egli così mirasse
              ad abbattere la religione, oltre all’avere accennata la distinzione che facevano non
              solo i filosofi ma ancora i più celebri antichi romani fra religione e superstizione,
              asserisce formalmente che <hi rend="i">col toglier la superstizione non si toglie già
                la religione</hi>, facendo intendere che invece si purifica e si nobilita
              eliminandone ciò che vi sia stato intruso di vano e di irrazionale <hi rend="i">dalla
                imbecillità degli uomini</hi><note place="bottom">« Nam ut vere loquamur, <hi
                  rend="i">superstitio</hi> fusa per gentes oppressit omnium fere animos, atque <hi
                  rend="i">hominum imbecillitatem</hi> occupavit…… Multum enim et nobismet ipsis et
                nostris profuturi videbamur, si eam funditus sustulissemus. <hi rend="i">Nec
                  vero</hi> (id enim diligenter intelligi volo) <hi rend="i">superstitione tollenda
                  religio tollitur</hi>. Nam et majorum instituta tueri sacris cæremoniisque
                retinendis sapientis est, et esse præstantem aliquam æternamque naturam, et eam
                suspiciendam admirandamque hominum generi, pulchritudo mundi ordoque rerum cælestium
                cogit confiteri. Quam ob rem, ut <hi rend="i">religio propaganda etiam est</hi>, quæ
                est juncta cum cognitione naturæ, sic <hi rend="i">superstitionis stirpes omnes
                  ejiciendæ</hi>. » — (<hi rend="sc">Cic</hi>., <hi rend="i">De Divinat</hi>.,
                  <num>ii</num>, 72.)</note>.</p>
            <pb n="482" xml:id="p482"/>
          </div3>
          <div3 type="chapter">
            <head type="sur">LXIV</head>
            <head type="main">Gl’Indovini dei tempi eroici</head>
            <p>Trattandosi in questo capitolo di quel genere di divinazione soltanto che credevasi
              derivare da spirito profetico negl’<hi rend="i">Indovini</hi>, che erano considerati
              come i profeti dei Pagani, basterà parlare di qualcuno dei più celebri dell’Epoca
              eroica. Tra i quali ha maggior fama <hi rend="i">Tiresia</hi>, che era Tebano e viveva
              ai tempi della guerra dei sette Prodi. Di lui si raccontano più mirabili fatti che di
              qualunque altro indovino. Basti il rammentare che fu detto e creduto che egli avendo
              un giorno percosso colla sua verga due serpenti che si battevano, fu cangiato in
              femmina, e che sette anni dopo ritrovando quegli stessi serpenti attortigliati e di
              nuovo percuotendoli, ritornò maschio. Questa favola fu riferita anche dall’<hi
                rend="sc">Alighieri</hi> nel Canto <num>xx</num> dell’<hi rend="i">Inferno</hi>, ove
              Virgilio così gli dice :</p>
            <quote>
              <l>« Vedi <hi rend="i">Tiresia</hi> che mutò sembiante</l>
              <l>« Quando di maschio femmina divenne,</l>
              <l>« Cangiandosi le membra tutte quante ;</l>
              <l>« E prima poi ribatter le convenne<note place="bottom">Si noti come Dante avendo
                  detto di sopra che Tiresia diventò femmina, usa qui il pronome <hi rend="i"
                    >le</hi>, cioè <hi rend="i">a lei</hi>, invece di <hi rend="i">gli</hi>, cioè
                    <hi rend="i">a lui</hi>, perchè Tiresia finchè non ebbe <hi rend="i">ribattuto
                    li due serpenti con la verga</hi> era non più maschio, ma femmina. Perciò usa il
                  pronome di genere femminile.</note></l>
              <l>« Li duo serpenti avvolti colla verga,</l>
              <l>« Che riavesse le maschili penne. »</l>
            </quote>
            <p>La qual favola significa che egli conosceva più d’ogni altro i pregi e i difetti
              delle persone di ambedue i sessi ; e <pb n="483" xml:id="p483"/>perciò appunto
              inventarono i Mitologi antichi, che Tiresia fosse chiamato a decidere una questione
              insorta fra Giove e Giunone, se cioè fosse più felice la condizione dell’uomo o della
              donna ; e poichè egli diede ragione a Giove, che cioè fosse più felice la donna,
              Giunone per dispetto lo acciecò, e Giove in compenso gli concesse l’antiveggenza del
              futuro, o vogliam dire l’occhio profetico. Perciò divenne così famoso, e fu creduto
                <hi rend="i">infallibile</hi>, tanto che niuno osava dubitare della veracità dei
              suoi presagi. Avendo egli detto nel tempo della guerra dei Sette Prodi che Tebe non
              sarebbe vinta, se per la patria avesse sacrificato sè stesso un discendente di Cadmo,
                <hi rend="i">Menèceo</hi> figlio di Creonte udendo questo, non dubitò di uccidersi,
              o gettandosi dalle mura di Tebe, come narrano alcuni, o trafiggendosi colla propria
              spada <note place="bottom">Alcuni credono che quella celebre statua detta comunemente
                il <hi rend="i">Gladiator moribondo</hi> (che vedesi in una delle sale della
                Galleria Capitolina in Roma) rappresenti <hi rend="i">Meneceo</hi>. — E questa una
                di quelle statue che dai primi repubblicani francesi furono portate a Parigi, e dopo
                la caduta di Napoleone I restituite a Roma.</note>. Quando Tiresia presagì che
              sarebbe saccheggiata la città, molti Tebani esularono insiem con lui ed andarono a
              cercar nuove terre ed una nuova patria. Credevasi inoltre che anche dopo la morte egli
              avesse conservato lo spirito profetico ; e Ulissè, secondo Omero, andò nel regno delle
              Ombre, come dicemmo parlando di quest’Eroe, per consultare l’indovino Tiresia, e da
              lui ottenne notizie sicure della sua famiglia, del suo regno e dei suoi futuri
              destini.</p>
            <p>Ebbe Tiresia una figlia chiamata <hi rend="i">Manto</hi>, indovina anche essa, che
              esercitò, finchè visse, l’arti paterne, e dopo aver percorse molte regioni andò a
              fermarsi in un terreno paludoso in mezzo ai laghi formati dal fiume Mincio, e</p>
            <quote>
              <l>« Lì per fuggire ogni consorzio umano</l>
              <l>« Ristette co’suoi servi a far sue arti,</l>
              <l>« E visse, e vi lasciò suo corpo vano.</l>
              <l><pb n="484" xml:id="p484"/>« Gli uomini poi che intorno erano sparti</l>
              <l>« S’accolsero a quel luogo ch’era forte</l>
              <l>« Per lo pantan che avea da tutte parti.</l>
              <l>« Fer la città sovra quell’ossa morte ;</l>
              <l>« E per colei che il luogo prima elesse,</l>
              <l>« <hi rend="i">Mantova</hi> l’appellar senz’altra sorte. »</l>
            </quote>
            <p>Tale è l’origine di <hi rend="i">Mantova</hi>, che <hi rend="sc">Dante</hi> fa
              raccontare a Virgilio stesso, ed assicurare che questa è la verità, e che qualunque
              altra asserzione è una menzogna.</p>
            <p>Meno rammentato, sì dai poeti antichi che dai moderni, è <hi rend="sc"
              >Trofonio</hi> ; ma poichè ne parlano Cicerone e Plinio, e noi l’abbiamo in altro
              luogo incidentalmente nominato, convien darne qualche notizia. <hi rend="i"
                >Trofonio</hi> era un insigne architetto che in Lebadia, nella Beozia, scavò un
              antro nel quale si chiuse, e ove rendeva oracoli a chi andasse a consultarlo ; ed ivi
              morì di fame. Si aggiunse dipoi che un Genio andò ad abitare e a dar responsi in
              quella caverna che si continuò a chiamare l’antro di <hi rend="i">Trofonio</hi> ; ma
              che era un luogo così orrido che chiunque vi discendeva diveniva poi tanto serio e
              mesto che non rideva mai più finchè vivesse. Perciò di un uomo malinconico e che
              sembrasse spaurato dicevasi dai Greci, come in proverbio, che era disceso nell’antro
              di <hi rend="i">Trofonio</hi>.</p>
            <p>Dell’indovino <hi rend="i">Anfiarao</hi> abbiamo parlato a lungo nella guerra di
              Tebe ; di <hi rend="i">Calcante</hi> e di <hi rend="i">Euripilo</hi> abbastanza nella
              guerra di Troia, Di altri indovini antichi di minor fama <hi rend="i">fia laudabile
                tacerci</hi>, e concluder di tutti in generale quel che abbiamo accennato in
              principio, che cioè l’arte loro era un effetto d’impostura da un lato e di stupida
              credulità dall’altro ; e decisiva è la sentenza di Dante, che li condanna tutti
              quanti, antichi e moderni, all’<hi rend="i">Inferno</hi>.</p>
            <pb n="485" xml:id="p485"/>
          </div3>
          <div3 type="chapter">
            <head type="sur">LXV</head>
            <head type="main">Le Sibille</head>
            <p>Venendo ora a parlar delle <hi rend="i">Sibille</hi>, non si può così facilmente dare
              una sentenza su queste donne straordinarie e misteriose <note place="bottom">Il nome
                stesso di <hi rend="i">Sibilla</hi> ha qualche cosa di misterioso, poichè, secondo
                alcuni Etimologisti, vuolsi che sia una parola composta che in lingua greca
                significhi <hi rend="i">per decreto divino</hi>, quasi si fosse voluto riconoscere
                nelle Sibille una missione divina.</note>. Infatti neppur <hi rend="sc">Dante</hi>
              le ha condannate all’<hi rend="i">Inferno</hi> ; e solo ne parla incidentalmente
              rammentando in una similitudine la <hi rend="i">Sibilla</hi> Cumana, che dava i suoi
              responsi colle foglie nella sua caverna, come abbiamo detto parlando di Enea :</p>
            <quote>
              <l>« Così al vento nelle foglie lievi</l>
              <l>« Si perdea la sentenzia di <hi rend="i">Sibilla</hi>. »</l>
            </quote>
            <bibl>(<title>Parad.</title>, <num>xxxiii</num>, v. 65).</bibl>
            <p>Anche gli scrittori ecclesiastici che composero polemiche e sillogizzarono contro le
              falsità della religione pagana parlano delle <hi rend="i">Sibille</hi> con molto
              riserbo ; alle quali attribuirono perfino alcune profezie sulla venuta del Messia e su
              diversi fatti della vita di lui <note place="bottom">In quell’inno che la Chiesa
                cattolica recita o canta in suffragio dei defunti, e che incomincia colle parole <hi
                  rend="i">Dies iræ</hi>, è rammentata l’autorità della Sibilla insieme con quella
                di David : <hi rend="i">Teste David cum Sybilla</hi>.</note>. Quindi è che le
              immagini delle Sibille si trovano anche nelle Chiese, come per es. nel Duomo di Siena
              si vedono sul pavimento in <hi rend="i">niello</hi> o <hi rend="i">graffito</hi> dieci
                <hi rend="i">Sibille</hi>, sotto ciascuna delle quali è posta una iscrizione latina
              che accenna qual fosse la profezia a ciascuna di esse <pb n="486" xml:id="p486"
                />attribuita<note place="bottom">Tra le più celebri pitture delle Sibille basterà
                citare quella di Baldassarre Peruzzi nella chiesa detta di <hi rend="i">Fonte
                  Giusta</hi> in Siena, quella del Guercino nella Tribuna della Galleria degli
                Uffiizi in Firenze e quella del Razzi nel palazzo della Farnesina in Roma.</note>.
              Non dovrà dunque recar maraviglia che se ne parli con tanto rispetto dagli storici
              latini e dallo stesso T. Livio, e che si ammetta tra i fatti istorici che Tarquinio
              Prisco avesse comprato da una donna misteriosa, creduta una Sibilla, i <hi rend="i"
                >libri sibillini</hi>. I quali poi furon tenuti in sì gran conto daì Romani che ne
              affidarono la conservazione e la interpretazione a un Magistrato o Collegio
              sacerdotale, prima di dieci e poi di quindici persone ; e secondo il senso palese o
              supposto di questi libri si regolavano spesso in Roma i più alti affari di Stato ; e
              si ricorreva talvolta a consultarli quando veniva meno ogni umano consiglio, come nei
              casi di pestilenza o di qualche altra pubblica sventura.</p>
            <p>Non potremo ammetter di certo che le Sibille fossero profetesse ispirate dal Dio di
              Abramo, nè che gli Dei <hi rend="i">falsi</hi> e <hi rend="i">bugiardi</hi> potessero
              accordar loro virtù profetica. Non si deve dunque cercarne la spiegazione nel
              soprannaturale, che può essere oggetto di fede nelle idee religiose, non già di
              ragionamento nelle scienze umane. Solo potremo rendercene una ragione probabile
              riflettendo che <hi rend="i">Sibille</hi> chiamavansi le sacerdotesse del culto di
              Apollo nell’ Asia Minore, le quali a guisa e somiglianza della Pitonessa del tempio di
              Delfo pretendevano di essere anch’esse ispirate dallo stesso Dio e di dar veridici
              responsi, poichè avevano imparato anch’esse quel gergo amfibologico che potea
              significar bianco o nero, retto o curvo a piacere degl’interpreti o degl’interessati
              ad intendere in un modo piuttosto che in un altro. Molti dei loro responsi eran
              conservati per tradizione nella memoria degli uomini, molti altri erano inventati e
              attribuiti alle Sibille ; e siccome si credè, e forse era vero, che alcune di <pb
                n="487" xml:id="p487"/>queste Sacerdotesse preferissero una vita girovaga allo star
              sempre confinate nei penetrali del tempio, in quasi ogni regione fu asserito esservi
              stata qualche Sibilla a profetare. Quindi si raccolsero i loro responsi, veri o
              supposti, e una copia di queste raccolte erano i così detti <hi rend="i">libri
                sibillini</hi> comprati da Tarquinio. Se poi quelle donne girovaghe e misteriose che
              si spacciavano per Sibille fossero state o no sacerdotesse di Apollo, nessuno avrebbe
              potuto assicurarlo, e si credeva più facilmente l’inesplicabile maraviglioso che il
              dimostrabile positivo. E poichè era utile ai reggitori degli Stati per facilità di
              governo che il popolo fosse così credulo ed ignorante, non solo lasciavano allignare
              queste imposture, ma spesso le favorivano, le sanzionavano ed anche se ne
              impadronivano per servirsene a modo loro a dirigere o contenere il mobile volgo. Ecco
              perchè anche i poeti, amanti sempre e fautori del maraviglioso, encomiano come
              profetesse infallibili le Sibille e come veridici i loro responsi o versi sibillini,
              confermando così le volgari opinioni e aiutando la politica del governo e gl’interessi
              dei sacerdoti pagani.</p>
            <p>Molte erano le Sibille rammentate dagli Antichi più pel luogo della loro nascita che
              pel nome loro o dei loro parenti ; ma dieci soltanto furon riconosciute e registrate
              come tali da Varrone il più celebre erudito del Paganesimo ; e sono le seguenti :</p>
            <p>1ª La <hi rend="i">Sibilla Persica</hi>, di cui fece menzione Nicànore che scrisse le
              gesta di Alessandro Magno.</p>
            <p>2ª La <hi rend="i">Sibilla Libica</hi> rammentata da Euripide nel prologo della <hi
                rend="i">Lamia</hi>.</p>
            <p>3ª La <hi rend="i">Sibilla Dèlfica</hi>, di cui parlò il filosofo Crisippo in quel
              libro che egli compose sulla Divinazione.</p>
            <p>4ª La <hi rend="i">Sibilla Cumea</hi>, ossia di Cuma in Italia, che è rammentata da
              Nevio, da Pisone e da Virgilio.</p>
            <p>5ª La <hi rend="i">Sibilla Eritrèa</hi>, che nacque in Babilonia come afferma
              Apollodoro, asserendo che era sua concittadina.</p>
            <p><pb n="488" xml:id="p488"/>6ª La <hi rend="i">Sibilla Samia</hi>, di cui Eratòstene
              lasciò scritto che ne era stata fatta menzione negli antichi annali dei Samii.</p>
            <p>7ª La <hi rend="i">Sibilla Cumana</hi>, così detta perchè nata in <hi rend="i"
                >Cuma</hi>, città dell’Asia Minore. La stessa fu chiamata ancora <hi rend="i"
                >Amatea, Demòfile</hi> ed <hi rend="i">Eròfile</hi>.</p>
            <p>8ª La <hi rend="i">Sibilla Ellespontìaca</hi>, detta ancora <hi rend="i"
                >Marpessia</hi>, perchè nacque nel territorio della Troade vicino all’Ellesponto ed
              in un luogo chiamato anticamente <hi rend="i">Marpessio</hi>.</p>
            <p>9ª La<hi rend="i">Sibilla Frigia</hi>, della quale fu detto che vaticinò in
              Ancira.</p>
            <p>10ª La <hi rend="i">Sibilla Tiburtina</hi>, ossia di Tivoli, aveva nome <hi rend="i"
                >Albunea</hi>, della quale è rammentata la grotta da Orazio in una delle sue
                Odi<note place="bottom"><quote><l> « Me nec tam patiens Lacedæmon,</l><l>« Nec tam
                    Larissæ percussit campus opimæ,</l><l>« Quam domus <hi rend="i">Albuneæ</hi>
                    resonantis,</l><l>« Et præceps Anio, ac Tiburni lucus, et uda</l><l>« Mobilibus
                    pomaria rivis. »</l></quote><bibl>(<hi rend="sc">Hor</hi>., Od. <num>i</num>,
                  7ª, v. 12…..)</bibl></note>.</p>
            <pb n="489" xml:id="p489"/>
          </div3>
        </div2>
      </div1>
      <div1 type="section">
        <head type="sur">Parte IV</head>
        <head type="main">Le Apoteòsi</head>
        <div2 type="chapter">
          <head type="sur">LXVI</head>
          <head type="main">Osservazioni generali sulle Apoteosi</head>
          <p>Quei Mitologi che presero l’assunto di spiegare i <hi rend="i">miti</hi> della
            Religione Pagana per mezzo di antichi fatti istorici e di incerte tradizioni, si
            trovaron costretti di aggiungere nelle loro opere una parte che trattasse dell’<hi
              rend="i">Apoteòsi delle Virtù e dei Vizii</hi>. Riconobbero dunque che il loro sistema
            storico non spiegava tutto in Mitologia, e confessarono implicitamente che la massima
            parte delle Divinità del paganesimo erano personificazioni degli affetti dell’animo o
            buoni o rei. Quella che per essi è parte suppletoria, per me è stata la parte principale
            e fondamentale della Mitologia Greca e Romana ; e l’ho estesa anche alla spiegazione dei
            fenomeni fisici, secondo la mente di <hi rend="sc">G. Battista Vico</hi>, il quale nel
            libro <num>ii</num> dei <hi rend="i">Principii di Scienza Nuova</hi> asserisce che i <hi
              rend="sc">miti</hi> son <hi rend="i">tante Istorie fisiche conservateci dalle
              Favole</hi>. E poichè i moderni filosofi, e tra questi il Pestalozza, discepolo e
            seguace fidissimo del Rosmini, danno alla religione pagana il titolo di <hi rend="i"
              >Panteismo Mitologico</hi>, è questo un altro motivo di credere che il sistema da me
            prescelto sia il più opportuno a spiegare i miti dei Greci e dei Romani. Per me dunque
            il <pb n="490" xml:id="p490"/>parlare separatamente delle <hi rend="i">Apoteosi</hi> è
            un riassunto della parte fondamentale del mio lavoro, è una conferma di quanto ho
            dichiarato dal principio alla fine di questa Mitologia.</p>
          <p>La parola <hi rend="i">Apoteòsi</hi>, secondo la greca etimologia, significa <hi
              rend="i">deificazione</hi>, e consiste nel considerare e adorare come Dei gli esseri
            della Natura, le esistenze create<note place="bottom"><p><hi rend="sc">Tertulliano</hi>
                infatti la definisce : <quote>« Consecratio et relatio hominis demortui in
                  Deos. »</quote> — (<hi rend="i">In Apoll</hi>., cap. 34.)</p><p>Il <hi rend="sc"
                  >Giust</hi><num>i</num> nelle sue poesie estende la parola <hi rend="i"
                  >apoteosi</hi> a significare i monumenti sepolcrali posti nelle chiese e nei
                chiostri dalle famiglie private alla postuma boria dei loro
                  parenti :</p><quote><l>« Largo ai pettegoli</l><l>« Nani pomposi</l><l>« Che si
                  scialacquano</l><l>« L’<hi rend="i">Apoteosi</hi>.</l><l>« Dietro
                  l’avello</l><l>« Di Machiavello</l><l>« Dorme lo scheletro</l><l>« Di
                  Stenterello. »</l></quote><p>(<hi rend="i">Il Mementomo</hi>.)</p></note> ; e in
            un significato più ristretto si riferisce particolarmente alla deificazione degli uomini
            dopo la morte<note place="bottom">Chi conosce la <hi rend="i">Filosofia</hi> del <hi
                rend="sc">Gioberti</hi> sa bene che quel sistema filosofico è fondato sul principio
              che <hi rend="i">l’Ente crea le esistenze</hi>. Nel <hi rend="i">Panteismo
                mitologico</hi> invece si consideravano come Enti creatori le leggi e le forze della
              materia e dello spirito. È decisivo su tal proposito il seguente passo di <hi
                rend="sc">Cicerone</hi> : <quote>« Quid Opis ? quid Salutis ? quid Concordiæ ?
                Libertatis ? Victoriæ ? quarum omnium rerum quia vis erat tanta, ut sine Deo regi
                non posset, <hi rend="i">ipsa res Deorum nomen obtinuit</hi>. »</quote> — (<hi
                rend="i">De Nat. Deor</hi>., <num>ii</num>.)</note>.</p>
          <p>Il culto più antico di cui si trovi memoria negli scrittori fu quello del Sole e della
            Luna e quindi degli altri Astri ; e questo culto fu chiamato il <hi rend="i"
              >Sabeismo</hi>, perchè ridotto a regolar sistema religioso dai Sabei, antico popolo
            dell’ Arabia meridionale. Fu questa pur anco la religione dei Persiani, <pb n="491"
              xml:id="p491"/>come sappiamo dallo Zend-Avesta, che è il loro libro sacro, attribuito
            a Zoroastro. Anche a tempo di Augusto i Persiani adoravano come loro Nume supremo il
            Sole ; e Ovidio ci dice che gli sacrificavano il cavallo per offrire una veloce vittima
            al celere Dio (<hi rend="i">ne detur celeri victima tarda Deo</hi>).</p>
          <p>Dal culto dei corpi celesti si passò presto a quello dei corpi terrestri, ossia dei
            prodotti della terra, e principalmente degli animali ; ed eccoci al <hi rend="i"
              >Feticismo</hi>, che per antichità gareggia col <hi rend="i">Sabeismo</hi>, e fu
            principalmente professato dagli Egiziani, i quali anche al tempo di Mosè adoravano come
            loro Dio il bue Api, la qual goffa idolatria fu imitata dagli Ebrei nel deserto <hi
              rend="i">col vitello d’oro</hi>, che costò la vita, per ordine di Mosè, a tante
            migliaia di quegli stupidi imitatori del culto Egiziano.</p>
          <p>Il <hi rend="i">Sabeismo</hi> sarebbe stato anch’esso, com’era in origine, una specie
            di <hi rend="i">Feticismo</hi>, benchè meno goffo, non meno però materiale (poichè anche
            gli astri son composti di materia cosmica), se ben presto non fosse invalsa l’idea e la
            credenza che gli astri fossero regolati e diretti nel vero o nell’apparente lor corso da
            Esseri soprannaturali che vi presiedevano. Così al <hi rend="i">feticismo</hi>, ossia
            all’ apoteosi degli oggetti materiali, fu sostituita l’<hi rend="i">apoteosi</hi> di
            Esseri soprannaturali rappresentanti le forze o leggi della Natura fisica che producono
            il movimento della materia, e che poi furono dette scientificamente di <hi rend="i"
              >attrazione</hi> e di <hi rend="i">repulsione</hi>. Fu questo il ponte di passaggio
            dal culto materiale del <hi rend="i">feticismo</hi> al <hi rend="i">Panteismo
              mitologico</hi>, in cui si fece l’apoteosi di tutte le forze e leggi della creazione
            non solo del mondo fisico, ma pur anco del mondo morale. Furono allora immaginati e
            splendidamente dipinti con stile impareggiabile dai Greci e dai Romani i più celebri e
            graziosi miti di cui non perirà mai la memoria, finchè si leggeranno e s’intenderanno i
            loro poetici scritti e quelli dei moderni poeti che li imitarono. Ma quando nella pagana
            religione si giunse ad abusare dell’apoteosi col deificare per vile <pb n="492"
              xml:id="p492"/>adulazione i potenti della Terra non solo dopo la loro morte, ma pur
            anco in vita, si cadde allora nell’abiezione del <hi rend="i">feticismo</hi>, si tolse
            tutto il prestigio al culto degli altri Dei ; e gli uomini ragionevoli sentirono il
            bisogno di una religione più pura e più razionale.</p>
        </div2>
        <div2 type="chapter">
          <head type="sur">LXVII</head>
          <head type="main">L’Apoteosi delle Virtù e dei Vizii</head>
          <p>I Greci ed i Romani <hi rend="i">politeisti</hi>, oltre all’aver deificato tutti i
            fenomeni fisici e morali, come abbiam detto, attribuirono a queste Divinità pregi e
            difetti, virtù e vizii come agli esseri umani ; quindi vi furono divinità benefiche e
            divinità malefiche, come vi sono uomini buoni e malvagi ; ed anche le migliori divinità
            ebbero qualche difetto, come la stessa <hi rend="i">Minerva</hi> dea della Sapienza,
            della quale dissero che ambì il premio della bellezza, e, non avendolo ottenuto, si unì
            con Giunone a perseguitare per dispetto Paride ed i Troiani. Qual Nume dunque poteva
            esser perfetto, se tale non era neppur la Dea della Sapienza ? E se un Nume non è
            perfetto, può egli essere un Dio ? Quegli antichi Romani per altro che tanto fecero
            maravigliare delle loro morali virtù gli stessi Padri della Chiesa, non conobbero le
            assurdità della greca fantasia ; e gli antichi precetti religiosi riportati da <hi
              rend="sc">Cicerone</hi> con antico stile nel libro <num>ii</num> delle <hi rend="i"
              >Leggi</hi>, sono ben lontani dalle aberrazioni dei poeti greci e dei latini
            dell’ultimo secolo della repubblica, che studiarono e imitarono la greca mitologia. Da
            Tito Livio e da Cicerone sappiamo che esistevano in Roma sino dai primi secoli della
            Repubblica più e diversi tempii dedicati alla <hi rend="i">Pietà</hi>, alla <hi rend="i"
              >Fede</hi>, alla <hi rend="i">Libertà</hi>, alla <hi rend="i">Speranza</hi>, alla <hi
              rend="i">Concordia</hi>, alla <hi rend="i">Pudicizia</hi>, alla <hi rend="i">Virtù
              militare</hi>, all’<hi rend="i">Onore</hi>, alla <hi rend="i">Vittoria</hi> ed alla
              <hi rend="i">Salute</hi>
            <pb n="493" xml:id="p493"/><hi rend="i">pubblica</hi>, cioè alla più felice
            conservazione dello Stato. Anche alla Dea <hi rend="i">Mente</hi>, ossia al <hi rend="i"
              >Senno</hi>, fu eretto un tempio dopo la infelice battaglia del Trasimeno. Perciò
            queste Divinità non erano soltanto astrazioni filosofiche o personificazioni poetiche,
            ma facevano parte della religione del popolo, e stavano a dimostrare che quando si
            stabilì il loro culto pubblico e fintantochè si mantenne, il popolo credeva
            nell’esistenza della Virtù ; e solo dopo le orribili guerre civili, allo spegnersi della
            repubblica colla vita di Marco Bruto, si udì la bestemmia che egli per disperato dolore
            proferì nell’atto di uccidersi : <quote>« O Virtù, tu non sei che un nome
              vano ! »</quote></p>
          <p>Per lo contrario nei migliori tempi della Repubblica non troviamo facilmente che
            fossero eretti tempii e prestato culto pubblico a divinità viziose o credute protettrici
            del vizio. Gli stessi Baccanali introdotti in Roma da un Greco di oscura nascita (<hi
              rend="i">Grœcus ignobilis</hi>, come dice Tito Livio) e vituperosamente celebrati in
            adunanze clandestine furono legalmente perseguitati dal Console Postumio, e quindi
            proibiti dal Senato l’anno 566 dalla fondazione della città, e 186 anni avanti Gesù
            Cristo. Ma poi nel cadere della Repubblica e nei primi tempi dell’Impero sappiamo non
            solo dagli Storici, ma dai poeti stessi imperiali, che la corruzione avea dal mondo
            romano bandita ogni virtù religiosa e civile. Dicemmo, parlando di Mercurio, che i
            mercanti romani, secondo quel che afferma <hi rend="sc">Ovidio</hi> nei <hi rend="i"
              >Fasti</hi>, pregavano questo Dio a proteggerli nell’ingannare il prossimo senza
            essere scoperti, e a potersi godere tranquillamente il frutto delle loro ruberie. Anche
            Orazio mette in versi la preghiera di un ladro a <hi rend="i">Laverna</hi>, Dea dei
            ladri, in cui alla furfanteria è congiunta la ipocrisia colle parole <hi rend="i">da
              justum sanctumque videri</hi>, perchè cioè quel ladro non si contentava di rimanere
            impunito, ma voleva anche apparire agli occhi del mondo uomo santo e pio per ingannare
            più facilmente il prossimo suo. Non è noto però che la Dea Laverna avesse un pubblico
            tempio in Roma ; <pb n="494" xml:id="p494"/>e degli Dei superiori adoravansi
            pubblicamente i pregi e le virtù, e non i vizii che erano loro dai mitologi e dai poeti
            attribuiti. Ma della Dea <hi rend="i">Nèmesi</hi>, Dea della vendetta, era pubblico il
            culto ; e fu generale tra i Pagani il sentimento che lo ispirava. Nè già si contentavano
            essi di lasciare le loro vendette a questa Dea, ma davano opera ad ottenerle e compierle
            col proprio braccio e co’propri mezzi. Vero è che in Roma nel culto pubblico e nel
            tempio che erale stato eretto, questa Dea fu adorata come figlia di <hi rend="i"
              >Giove</hi> e della <hi rend="i">Giustizia</hi>, e perciò come rappresentante la
            giusta vendetta, ossia la punizione di quelle colpe che non cadono sotto la sanzione
            penale delle comuni leggi umane : riferivasi dunque piuttosto alla pubblica vendetta del
            Popolo Romano per mezzo della guerra, che alle vendette particolari dei privati
            cittadini. Ma ognuno poi l’interpretava a suo modo e secondo le sue proprie passioni ; e
            lo spirito di vendetta tanto potente e feroce nei secoli barbari, ben poco perdè della
            sua forza e della sua intensità nei secoli così detti civili, neppure dopo la
            promulgazione dell’ Evangelio che santificò il perdono e l’oblio delle offese.</p>
          <p>Di tutte le affezioni dell’animo, e perciò di tutte le Virtù e di tutti i Vizii, hanno
            gli antichi ed i moderni poeti fatto la descrizione come di tanti esseri soprannaturali,
            di tante divinità o benefiche o malefiche ; e a seconda di queste descrizioni si sono
            aiutati gli artisti a rappresentarle in scultura e in pittura. Ma non tutte queste
            allegoriche divinità ebbero culto pubblico e tempii presso i Pagani : delle Virtù però
            molte, come abbiam detto di sopra nominandole ; dei Vizii ben pochi. Per altro pitture e
            statue si fecero e si fanno tuttora di qualunque Virtù e di qualunque Vizio, ed anche di
            qualsivoglia idea astratta, politica o religiosa. Il riferirne ed analizzarne le
            poetiche descrizioni antiche e moderne è ufficio dei professori di rettorica e belle
            lettere, e il descriverne le antiche e le moderne sculture o pitture appartiensi <pb
              n="495" xml:id="p495"/>ai professori gnostici ed estetici di Belle Arti, e non al <hi
              rend="i">Mitologo</hi>, poichè <hi rend="i">miti speciali</hi> non vi sono in queste
            astrazioni, o personificazioni, o apoteosi, da raccontare.</p>
          <p>Questa facoltà poetica di rappresentare con descrizioni o con immagini sculte o dipinte
            qualunque virtù, qualunque vizio, qualunque idea astratta non è già spenta negli uomini
            dei nostri tempi ; anzi vedesi sempre rinnuovata non solo nelle moderne poesie, ma pur
            anco nei monumenti ove le Virtù civili e militari, ed anche le religiose, sono
            rappresentate per mezzo di figure umane accompagnate da oggetti simbolici che ne
            suggeriscono il significato ed il nome, senza bisogno di scriverlo sulla base delle
            medesime o in qualche parte delle loro vesti o dei loro ornamenti. E se nei pubblici
            monumenti non vedonsi che personificazioni di Virtù e di novelli pregi derivati
            dall’incremento e dal perfezionamento delle Scienze e delle Arti, nei poeti moderni
            trovansi ancora descritti e personificati i Vizii del loro secolo ; e basterà per tutti
            citare il <hi rend="sc">Giusti</hi>, che ci rappresentò quelli predominanti a tempo suo
            (cioè nella prima metà del presente secolo) facendone poeticamente l’apoteosi mitologica
            nei seguenti versi :</p>
          <quote>
            <l>« Il Voltafaccia e la Meschinità</l>
            <l>« L’Imbroglio, la Viltà, l’Avidità</l>
            <l>« Ed altre Deità,</l>
            <l>« Come sarebbe a dir la Gretteria</l>
            <l>« E la Trappoleria,</l>
            <l>« Appartenenti a una <hi rend="sc">Mitologia</hi></l>
            <l>« Che a conto del Governo a stare in briglia</l>
            <l>« Doma educando i figli di famiglia,</l>
            <l>« Cantavano alla culla d’un bambino,</l>
            <l>« Di nome Gingillino,</l>
            <l>« La ninna nanna in coro,</l>
            <l>« Degnissime del secolo e di loro. »</l>
          </quote>
          <pb n="496" xml:id="p496"/>
        </div2>
        <div2 type="chapter">
          <head type="sur">LXVIII</head>
          <head type="main">Apoteosi degl’Imperatori Romani</head>
          <p>Benchè nella Greca Mitologia si trovino alcuni uomini illustri elevati agli onori
            divini, tali <hi rend="i">apoteosi</hi> molto differivano da quelle degl’Imperatori
            romani. Infatti in Grecia richiedevasi 1° che l’eroe da considerarsi come un Dio fosse
            figlio di una Divinità o per padre o per madre ; 2° che vivendo avesse compiute imprese
            straordinarie per valore o per ingegno a prò dell’umanità ; e 3° che solo dopo la morte,
            e quando in lui si riconoscessero le due precedenti condizioni fosse considerato e
            adorato qual Nume. Perciò non deificarono nè Cadmo, nè Giasone, nè Peleo, nè Ulisse,
            perchè non eran creduti figli di una Divinità. Nell’Impero Romano all’opposto l’<hi
              rend="i">apoteosi</hi> degl’Imperatori e delle Imperatrici era divenuto un vile atto
            di adulazione al potere assoluto e dispotico del supremo imperante o dei suoi eredi e
            successori, non già come in Grecia un atto spontaneo delle popolazioni memori delle
            virtù dei suoi uomini illustri, e grate dei benefizii da essi ricevuti. Chi poteva
            infatti stimar benefici Dei i proprii tiranni, e sante Dee Livia, Poppea e
            Messalina ?</p>
          <p>A tempo dei re di Roma fu deificato soltanto Romolo, ma per gherminella politica dopo
            che i Senatori lo ebbero segretamente ucciso ; i quali non sapendo poi come acquietare
            il popolo che ricercava il suo re guerriero, gli fecero credere per mezzo di Procolo che
            fosse assunto in Cielo e divenuto un Nume, e che bisognasse adorarlo sotto il nome di
            Quirino. Il popolo che credeva Romolo figlio di Marte, credè facilmente questa nuova
            impostura come una teologica conseguenza della prima ; e il Senato fu ben contento di
            adorar come Dio colui che non avea potuto tollerar come re. Così <pb n="497"
              xml:id="p497"/>cominciò ben presto in Roma la politica a far servir la religione
            agl’interessi mondani.</p>
          <p>Da Romolo sino a Giulio Cesare non si trova altra apoteosi nella Storia romana. Neppur
            Numa, il piissimo Numa, l’inventore di tanti riti religiosi a lui suggeriti, come egli
            dava ad intendere, dalla Ninfa Egeria, fu deificato. Quasi 700 anni corsero dalla morte
            di Romolo a quella di Cesare, nel qual tempo il popolo romano divenne conquistatore del
            mondo, senza che pensasse mai a deificare alcuno dei suoi più celebri generali che a
            tanta gloria e potenza lo guidarono. Solamente dopo la proditoria uccisione di Giulio
            Cesare, il desiderio di sì cara esistenza, a cui era dovuta la prostrazione del partito
            aristocratico e inoltre tanti vantaggi a favore del popolo, fece nascere ed accoglier
            con entusiasmo l’idea di venerarlo qual Nume. Ma spenta con Marco Bruto la libertà e
            perduta affatto anche l’ombra di essa sotto Tiberio, le <hi rend="i">apoteosi</hi> degli
            Imperatori e delle Imperatrici non furono altro che solennità comandate dal Principe e
            servilmente festeggiate dal popolo, come abbiam detto di sopra ; e nel frasario stesso
            degl’Imperanti l’esser trasformati in Dei significava <hi rend="i">morire</hi>. Infatti
            l’imperator Vespasiano sentendosi vicino a morte disse : a quanto mi pare, divengo un
            Dio (<hi rend="i">ut puto, Deus fio</hi>) ; e Caracalla dopo avere ucciso il fratello
            Geta tra le braccia stesse della madre, ne ordinò l’<hi rend="i">apoteosi</hi> dicendo :
            sia Divo, purchè non sia vivo (<hi rend="i">sit divus, dum non sit vivus</hi>). Questa
            stessa frase nel poema dell’<hi rend="sc">Ariosto</hi> adopra Ruggiero, quando per
            significare che avrebbe ucciso il figlio dell’Imperator Costantino egli dice : <hi
              rend="i">e sia d’Augusto Divo. Divi</hi> infatti chiamavansi e non <hi rend="i"
              >Dei</hi> gl’imperatori romani deificati, come li troviamo detti anche nella raccolta
            delle Leggi romane dell’Imperator Giustiniano (<hi rend="i">Divus Augustus, Divus
              Antoninus, Divus Traianus</hi>, ecc).</p>
          <p>Tutte le cerimonie dell’<hi rend="i">apoteosi</hi>, o consacrazione degl’ Imperatori
            romani, ci furono descritte estesamente non solo da <pb n="498" xml:id="p498"/>Erodiano,
            ma ancora da Dione Cassio senatore, che assistè per dovere d’ufficio a quella
            dell’Imperator Pertinace l’anno 193 dell’E. V. Troppo lungo sarebbe il riportarle, ed
            anche soltanto il compendiarle ; ed inoltre stancherebbe la pazienza di qualunque
            lettore la descrizione di tante stupide superstizioni. Basti dunque il sapere che si
            fingeva che l’imperatore non fosse morto, ma soltanto malato ; e per aiutar questa
            finzione ponevasi in un gran letto di avorio la statua di cera del defunto invece del
            suo cadavere, il quale era seppellito o arso segretamente. I medici per sette giorni si
            recavano a visitare l’illustre infermo (vale a dire la statua di lui) e uscivano dicendo
            ogni giorno che l’imperatore andava sempre peggiorando. Intanto si ergeva nel Campo
            Marzio un grandioso rogo di legni intagliati in forma di edifizio a quattro o cinque
            piani, sull’ultimo dei quali ponevasi un carro dorato con la statua dell’Imperatore.
            Nell’interno del rogo eravi una stanza riccamente ornata di tappeti di broccato d’oro,
            di quadri e di statue : ivi deponevasi il feretro. Dentro e intorno al rogo spargevansi
            incensi ed aromi preziosi in gran quantità. Vi appiccava il fuoco l’erede del trono
            tenendo altrove volta la faccia. Quando le fiamme giungevano all’ultimo piano, vedevasi
            volar via da quello un’aquila, e dicevasi che l’augel di Giove portava in Cielo e nel
            consesso degli Dei l’anima dell’Imperatore. Se poi facevasi l’apoteosi di una
            Imperatrice, invece di un’aquila sostituivasi un pavone, uccello sacro alla Dea Giunone.
            In brev’ora le fiamme riducevano in cenere tutto l’edifizio, e consumavano inutilmente
            un tesoro che avrebbe potuto alleviar le miserie di molte migliaia di famiglie.</p>
          <p>Si conservano tuttora circa 60 medaglie coniate in memoria di altrettante apoteosi
            diverse ; in ciascuna delle quali vedesi un’ara ardente ed un’aquila che ergesi a volo,
            ed inoltre vi si legge la parola <hi rend="i">Consecratio</hi>, che era il termine
            officiale latino significante <hi rend="i">l’apoteosi</hi>.</p>
          <pb n="499" xml:id="p499"/>
        </div2>
        <div2 type="chapter">
          <head type="sur">LXIX</head>
          <head type="main">Di alcune Divinità più proprie del culto romano</head>
          <p>A render più completa la spiegazione della classica Mitologia, accennerò brevemente
            alcune feste che celebravansi più specialmente in Roma che altrove.</p>
          <p>Nel mese di <hi rend="i">Gennaio</hi>, il cui nome facevasi derivare da quello di <hi
              rend="i">Giano</hi>, si celebrava nel primo giorno la festa di questo Dio, e prima ad
            esso sacrificavasi che agli altri Dei, perchè egli era considerato come il portiere
            delle celeste reggia. Da questo giorno, come al presente, incominciava l’anno civile sin
            dal tempo di Numa Pompilio, e inauguravasi con molta solennità, in quanto che i nuovi
            Consoli con purpurea veste e preceduti dai loro littori prendevano possesso dell’annuo
            ufficio, e tutto il popolo vestito a festa li accompagnava al Campidoglio per assistere
            ai riti religiosi. E poichè i Consoli furono conservati, almeno di nome, anche sotto
            gl’Imperatori e sino agli ultimi tempi del romano impero, le stesse cerimonie descritte
            da <hi rend="sc">Ovidio</hi> nel libro <num>i</num> dei <hi rend="i">Fasti</hi> si
            mantennero in Roma per più di mille anni. Anzi l’uso che vi fu allora di dir l’uno
            all’altro parole di buon augurio si mantiene tuttora da quasi tremila anni, e non in
            Roma e in Italia soltanto, ma per tutta Europa e presso molti popoli delle altre parti
            del mondo. Era giorno solenne e lieto, come lo chiama Ovidio, non però tutto festivo,
            ma, come ora direbbesi, di mezza festa, e allora dicevasi <hi rend="i">intercisus</hi> o
              <hi rend="i">endotercisus</hi>, perchè dopo i riti solenni religiosi e civili ciascuno
            attendeva al proprio ufficio, o professione nelle altre ore del giorno. Credevasi di
            cattivo augurio che il primo giorno dell’anno si lasciasse trascorrere inerte senza
            adempiere pur anco gli obblighi del proprio stato.</p>
          <p><pb n="500" xml:id="p500"/>Il dì 11 dello stesso mese celebravansi le <hi rend="i"
              >Feste Carmentali</hi>, che si ripetevano il dì 15, e vi si univano anche quelle in
            onore di <hi rend="i">Pòrrima</hi> e <hi rend="i">Posverta</hi>. Noi abbiamo già detto
            nel corso di questa Mitologia che la Ninfa <hi rend="i">Carmenta</hi> era madre di
            Evandro, e che esulando insieme col figlio venne nel Lazio e fissò la sua dimora su quel
            monte che poi fu detto il Palatino. Quanto poi a <hi rend="i">Porrima</hi> e <hi
              rend="i">Posverta</hi>, Ovidio e Macrobio asseriscono che esse erano o sorelle o
            compagne di Carmenta, e che la prima, cioè <hi rend="i">Porrima</hi>, indovinava le cose
            accadute, e la seconda, cioè <hi rend="i">Posverta</hi>, le future. Ma queste sono
            deduzioni filologiche arditamente derivate dalla presupposta etimologia di quei
            nomi.</p>
          <p>I Romani adoravano come Dea anche <hi rend="i">Giuturna</hi>, sorella di Turno re dei
            Rutuli, resa celebre da <hi rend="sc">Virgilio</hi> nel suo poema dell’<hi rend="i"
              >Eneide</hi>. Le fu dedicato anticamente un tempio nel Campo Marzio il giorno stesso
            delle Feste Carmentali.</p>
          <p>Nel mese di <hi rend="i">Febbraio</hi> è da notarsi la festa della Dea <hi rend="i"
              >Sospita</hi>, il cui nome significa <hi rend="i">salvatrice</hi>. In origine e
            grammaticalmente la voce <hi rend="i">sospita</hi> è un aggettivo che soleva aggiungersi
            dai Lanuvini alla Dea Giunone. Poi divenne un nome di una particolare Divinità ; e <hi
              rend="sc">Cicerone</hi> nel lib. <num>i</num>
            <hi rend="i">De Nat. Deor</hi>. ci dice che la rappresentavano con una pelle di capra
            sulle spalle, con un’asta e un piccolo scudo e i calzari rovesciati ; ma che questa non
            era nè la Giunone Argiva, nè la Giunone Romana.</p>
          <p>La Dea <hi rend="i">Fornace</hi> fu un’invenzione del re Numa Pompilio. Era veramente
            una Dea da quelle <hi rend="i">etadi grosse</hi>, come direbbe Dante ; ma <hi rend="sc"
              >Ovidio</hi> asserisce che i contadini furono molto lieti di questa protettrice dei
            loro forni, e che la pregavano devotamente :</p>
          <quote>
            <l>« Facta Dea est Fornax ; læti fornace coloni</l>
            <l>« Orant ut fruges temperet illa suas. »</l>
          </quote>
          <p>Della <hi rend="i">Dea Muta</hi> non ci danno notizia che Ovidio e Lattanzio ; e dicono
            che era una Naiade, la quale fu privata <pb n="501" xml:id="p501"/>della favella da
            Giove, perchè parlava troppo. La pregavano perchè facesse tacere le male lingue.</p>
          <p>Le <hi rend="i">Feste Caristie</hi> erano un solenne convito fra i parenti ed affini
            che si riunivano annualmente in questo giorno alla stessa mensa, non solo in
            attestazione e conferma del loro reciproco affetto, ma principalmente per avere
            occasione di sopire in mezzo alla comune letizia qualche discordia che fosse nata fra
            taluni di loro nel corso dell’anno. Alcuni fanno derivare la voce <hi rend="i"
              >Charistia</hi> dal greco <hi rend="i">charisma</hi> (dono) ; <hi rend="sc"
              >Ovidio</hi> dall’aggettivo <hi rend="i">chari</hi> :</p>
          <quote>
            <l>« Proxima cognati dixere Charistia chari,</l>
            <l>« Et venit ad socias turba propinqua dapes. »</l>
          </quote>
          <p>Nel mese di <hi rend="i">Marzo</hi> celebravasi la festa degli <hi rend="i"
            >Ancili</hi>. È narrato anche nella <hi rend="i">Storia Romana</hi> il miracolo dell’<hi
              rend="i">ancile</hi> caduto dal Cielo a tempo di Numa. <hi rend="i">L’ancile</hi> era
            uno scudo di figura ellittica e perciò <hi rend="i">privo di angoli</hi>, come, secondo
            alcuni etimologisti, significa il nome stesso. Il buon popolo di Numa non solo vide
            co’suoi propri occhi il miracolo, ma udì anche una voce dal Cielo che prometteva ai
            Romani la maggior potenza finchè avessero conservato quello scudo. E Numa ne fece
            costruire altri undici, non solo simili, ma tanto uguali che neppur l’artefice seppe in
            appresso distinguere qual fosse quello caduto dal Cielo. Si tenevano tutti custoditi con
            molta cura, e solo una volta all’anno nel mese di marzo i sacerdoti del Dio Marte li
            portavano per le vie della città cantando e saltando secondo il rito. Quei sacerdoti
            eran chiamati <hi rend="i">Salii</hi> dal saltar che facevano processionalmente ; e
            l’inno che essi cantavano essendo stato composto ai tempi di Numa, era divenuto
            inintelligibile a loro stessi : solo dall’esservi più volte ripetuta la parola <hi
              rend="i">Mamurio</hi> si credè che quel vocabolo fosse il nome dell’artefice degli
            undici ancili, poichè dicevasi per tradizione che egli null’altro premio <pb n="502"
              xml:id="p502"/>avesse richiesto dell’ opra sua che di esser rammentato nell’inno <hi
              rend="i">saliare</hi>.</p>
          <p><hi rend="i">Vèiove</hi> significa <hi rend="i">Giove piccolo</hi>, ossia bambino,
            secondo gli etimologisti latini e lo stesso Ovidio. Perciò questo Dio è rappresentato
            giovinetto e senza i fulmini in mano, ma invece accompagnato dalla capra che fu la sua
            nutrice nell’isola di Creta. Aveva un tempio fra i due boschi dell’asilo di Romolo. Si
            celebrava la festa di <hi rend="i">Giove Bambino</hi> il dì 7 dei mese di marzo.</p>
          <p><hi rend="i">Anna Perenna</hi> era una Dea adorata soltanto dai Romani, perchè
            credevano che fosse quella stessa Anna sorella di <hi rend="i">Didone</hi>, rammentata
            da <hi rend="sc">Virgilio</hi> nel lib. <num>iv</num> dell’<hi rend="i">Eneide</hi>, e
            dopo la morte della sorella e per varie vicende dolorosissime venuta nel Lazio. Le
            aggiunsero il titolo di <hi rend="i">Perenna</hi> perchè era considerata come una Ninfa
            del fiume Numicio. <hi rend="sc">Ovidio</hi> ne dà l’etimologia latina con un giuoco di
            parole, facendo dire alla stessa Dea :</p>
          <quote>
            <l>« Amne perenne latens Anna Perenna vocor. »</l>
          </quote>
          <p>Nel mese di <hi rend="i">Aprile</hi> troviamo notata il dì 6 la <hi rend="i">Natività
              di Diana</hi> e il dì 7 la <hi rend="i">Natività di Apollo</hi>. Questa indicazione è
            conforme alla ortodossia mitologica, secondo la quale credevasi che di questi due Dei
            gemelli <hi rend="i">Diana</hi> fosse nata un giorno prima di <hi rend="i"
            >Apollo</hi>.</p>
          <p>Le feste <hi rend="i">Robigali</hi>, cioè in onore del Dio <hi rend="i">Robìgo</hi>,
            facevansi per implorare da questo Dio che tenesse lontana la <hi rend="i">ruggine</hi>
            dalle biade. <hi rend="i">Robigo</hi> in latino significa <hi rend="i">ruggine</hi>, e i
            Romani debbono a Numa Pompilio l’invenzione di questo Dio. Noi abbiamo notato nel
            Cap. XXXIII che di molti Dei si conoscono le attribuzioni dal significato stesso del
            loro nome ; e tra gli altri abbiamo rammentato il Dio <hi rend="i">Robigo</hi>.</p>
          <p>Nel mese di <hi rend="i">Maggio</hi> troviamo indicato che il primo giorno di quel mese
            fu eretta un’ara ai <hi rend="i">Lari Prèstiti</hi>. Quest’epiteto <pb n="503"
              xml:id="p503"/>di <hi rend="i">Prestiti</hi> dato ai <hi rend="i">Lari</hi> è
            d’origine tutta latina : deriva da <hi rend="i">prœstare opem</hi> (prestar soccorso).
            Sotto questo titolo erano considerati i protettori della città. Degli Dei <hi rend="i"
              >Lari</hi> abbiamo parlato a lungo nel Cap. XXXVIII.</p>
          <p>Nello stesso giorno si celebrava la festa della Dea <hi rend="i">Bona</hi>. Questa è la
            stessa che la Dea <hi rend="i">Fauna</hi> moglie del Dio <hi rend="i">Fauno</hi>, di cui
            abbiamo parlato nel Cap. XXXV. Fu detta la Dea <hi rend="i">Bona</hi> perchè era di una
            così scrupolosa modestia e castità, che si chiuse nel suo <hi rend="i">ginecèo</hi> e
            non volle vedere altra faccia di uomo che quella di suo marito. Perciò le matrone romane
            le prestavano un culto religioso in un tempio chiamato <hi rend="i">opertum</hi> (che in
            latino vuol dir <hi rend="i">chiuso</hi>), perchè a quei riti e in quel tempio non erano
            ammessi gli uomini. La <hi rend="i">Storia Romana</hi> ci narra che essendovisi
            introdotto il licenzioso P. Clodio travestito da donna, egli fu stimato sacrilego ; e
            questo scandalo fu causa che Cesare ripudiò la propria moglie, dicendo che sulla moglie
            di Cesare non dovevan cadere nemmeno sospetti.</p>
          <p>Nel mese di <hi rend="i">Giugno</hi> trovasi rammentata la dedicazione del tempio a
            Giunone <hi rend="i">Monèta</hi>. Questo titolo di <hi rend="i">Monèta</hi> dato a
            Giunone è di origine latina : deriva a <hi rend="i">monendo</hi> (dall’avvertire) perchè
            gli antichi Romani dicevano che questa Dea li aveva avvertiti che facessero un
            sacrifizio di espiazione immolando una scrofa pregna. <hi rend="sc">Cicerone</hi> stesso
            disapprova questa e simili stolte superstizioni nel lib. <num>ii</num>
            <hi rend="i">De Divinatione</hi>.</p>
          <p><hi rend="i">Bellona</hi>, il cui nome è di origine tutta romana, derivando da <hi
              rend="i">bellum</hi> cioè dalla guerra, era creduta sorella del Dio Marte ed auriga
            del medesimo nelle battaglie, quando egli combatteva dal suo carro. Essa pure si
            dilettava di sangue e di stragi, come afferma <hi rend="sc">Orazio</hi>, dicendola <hi
              rend="i">gaudentem cruentis</hi>. Aveva un tempio fuori di Roma, ove si radunava il
            Senato per dare udienza a quegli ambasciatori che non erano ammessi in città. I
            sacerdoti di questo culto si chiamavano <hi rend="i">Bellonarii</hi>, derivando il loro
            nome da quello della Dea.</p>
          <p><pb n="504" xml:id="p504"/>Il Dio <hi rend="i">Summàno</hi>, quantunque avesse un
            tempio in Roma, da prima nel Campidoglio, e poi, al tempo delle guerre di Pirro, presso
            il Circo Massimo, ove tutti gli anni si celebrava la detta festa il dì 20 di giugno ; e
            per quanto questo Nume sia rammentato da molti dei più celebri scrittori Latini, restò
            peraltro incerto per lungo tempo quale ufficio egli avesse. Marziano Capella, poeta
            latino del quinto secolo dell’ E. V. asserisce nel suo libro intitolato <hi rend="i"
              >Satyricon</hi> che <hi rend="i">Summanus</hi> significa <hi rend="i">Summus
              Manium</hi>, il primo degli Dei Mani, e perciò il Dio <hi rend="i">Plutone</hi>.
            Cicerone e Plauto rammentano questo Dio <hi rend="i">Summano</hi>, ma non ne spiegano
            gli attributi : <hi rend="sc">Plinio</hi> nel libro <num>ii</num>, cap. 52 della sua <hi
              rend="i">Storia Naturale</hi>, dice soltanto che a questo Dio si attribuivano i
            fulmini notturni, come a Giove i diurni. Ovidio poi confessa che non sa qual Dio sia
              (<hi rend="i">quisquis is est</hi>). Peraltro i moderni Filologi che rivaleggiano coi
            Paleontologi a ricostruire con frammenti fossilizzati gli esseri preistorici, si sono
            impossessati di questo vocabolo <hi rend="i">Summanus</hi>, e raccogliendo qualche altra
            indicazione che si trova di questo Dio e in Varrone e in Festo e negli <hi rend="i">Acta
              fr. Arval</hi>. e nel <hi rend="i">Glossarium Labronicum</hi>, concludono col Preller
            che <hi rend="i">Summanus</hi> è un Dio del cielo notturno, a cui si attribuivano i
            temporali notturni come a Giove quelli diurni. Ma questa conclusione è quella stessa di
            Plinio nel luogo da me citato di sopra. Non ha fatto dunque il Preller una nuova
            scoperta, ma soltanto ha dimostrato con qualche altro documento esser la più vera
            l’asserzione di Plinio<note place="bottom">Noterò inoltre che l’illustre grecista e
              filologo prof. <hi rend="sc">B. Zandonella</hi> in un suo articolo inserito nell’<hi
                rend="i">Ateneo</hi> di Firenze del 15 febbraio 1874, esaminando il nome <hi
                rend="i">Monsummano</hi>
              <quote>« applicato a borgo e monte nel Veneto e nella Val di Nievole »</quote> mentre
              non approva <quote>« l’etimologia di <hi rend="i">Monsummano</hi> da Sommo Mane (il
                Plutone dei Pagani) che fu adottata dal Proposto Gori e poi dal Tigri nella
                descrizione di <hi rend="i">Pistoia e suo territorio</hi>, »</quote> e invece
              riconosce giusta la conclusione del Preller, non nasconde per altro che le notizie
              date dal dotto autore tedesco <hi rend="i">non discordano punto da quelle</hi>, <hi
                rend="sc">più erudite</hi>
              <hi rend="i">del Giornale Arcadico stampato in Roma nel 1820</hi>, cioè mezzo secolo
              prima degli scritti del Preller. — Avvertimento agli ammiratori di tutto ciò che è
              straniero, e non curanti o dispregiatori di ciò che è nostro.</note>.</p>
          <pb n="505" xml:id="p505"/>
        </div2>
        <div2 type="chapter">
          <head type="sur">LXX</head>
          <head type="main">Delle Divinità straniere adorate dai Romani</head>
          <p>Se per divinità straniere adorate dai Romani si dovessero intendere tutte quelle che
            non furono inventate dai Romani stessi, converrebbe dire che le più di esse fossero
            straniere, fatte poche eccezioni di Divinità Italiche e dell’apoteosi di qualche Virtù e
            di qualche Vizio, come abbiamo notato nel corso di questa Mitologia. I Romani infatti
            che per ordine di tempo comparvero gli ultimi nella scena politica del mondo antico e
            costituirono l’ultima e al tempo istesso la più potente monarchia prima che sorgesse il
            Cristianesimo, portarono già radicato negli animi loro e impiantarono officialmente
            nella loro città, sin dalla sua fondazione, il Politeismo Troiano e Greco. Racconta lo
            stesso Tito Livio che i Troiani profughi dalla loro città distrutta dai Greci vennero in
            Italia seguendo il loro Duce Enea principe troiano, creduto figlio di Venere e di
            Anchise ; che Enea fece alleanza con Latino re dei Latini e ne sposò la figlia Lavinia ;
            che Ascanio figlio di Enea e di Creusa fondò Alba Lunga ; che dalla dinastia dei re
            Albani discesi in linea retta da Enea, nacque il fondatore di Roma a cui si attribuì per
            padre il Dio Marte. Dal che si deduce che le Divinità adorate allora nel Lazio e nel
            territorio stesso ove sorse Roma esser dovevano per la massima parte quelle stesse dei
            Troiani e dei Greci al tempo della guerra di Troia, poichè <hi rend="sc">Omero</hi> in
            tutta quanta l’<hi rend="i">Iliade</hi> ne <pb n="506" xml:id="p506"/>rammenta sempre
            almeno le principali, come adorate egualmente da entrambe le nazioni. E poi, in quanto
            al <hi rend="i">Politeismo</hi> dei Romani, aggiungendovisi le tradizioni che l’Arcade
              <hi rend="i">Evandro</hi>, creduto figlio della Dea <hi rend="i">Carmenta</hi>, venuto
            nel Lazio prima di Enea, avea fondata la città di <hi rend="i">Fenèo</hi> su quel monte
            che dal nome di suo figlio Pallante fu detto il Palatino, sarà necessario ammettere che
            egli avesse introdotto il politeismo greco nel luogo stesso che in appresso fu il centro
            della nuova città di Romolo : tanto è vero che anche a tempo di Cicerone, com’egli
            afferma nelle sue lettere, esisteva nel monte Palatino l’antro consacrato da Evandro al
            culto del Dio <hi rend="i">Luperco</hi>, vale a dire del Dio <hi rend="i">Pane</hi>. Si
            continuarono inoltre in Roma sino agli ultimi tempi dell’impero pagano le <hi rend="i"
              >Feste Carmentali</hi>, cioè in onore della Dea <hi rend="i">Carmenta</hi> madre di
            Evandro. Anche il culto di Ercole Tebano fu introdotto nella stessa regione da Evandro
            ed accolto dai popoli limitrofi in ringraziamento dell’averli Ercole liberati da quel
            mostro dell’assassino <hi rend="i">Caco</hi>,</p>
          <quote>
            <l>« Che sotto il sasso di monte Aventino</l>
            <l>« Di sangue fece spesse volte laco. »</l>
          </quote>
          <p>Della qual liberazione e del qual culto non solo ragionano a lungo <hi rend="sc"
              >Virgilio</hi> nel lib. <num>ix</num> dell’<hi rend="i">Eneide</hi> ed <hi rend="sc"
              >Ovidio</hi> nel lib. <num>i</num> dei <hi rend="i">Fasti</hi>, ma anche <hi rend="sc"
              >Tito Livio</hi> nel lib. <num>i</num> e <num>ix</num> della sua <hi rend="i"
              >Storia</hi> e Valerio Massimo in più luoghi, e ci fanno sapere che l’ara consacrata
            ad Ercole in Roma chiamavasi <hi rend="i">Massima</hi>, e che suoi sacerdoti erano i <hi
              rend="i">Potizii</hi> e i <hi rend="i">Pinarii</hi>. Lo stesso Numa Pompilio che
            inventò tante cerimonie e pratiche religiose, non aggiunse alcun Dio a quelli adorati al
            tempo di Romolo ; e solo fece credere che quanto egli ordinava gli fosse suggerito dalla
            Ninfa Egeria. La base adunque della religione dei Romani era il <hi rend="i"
              >politeismo</hi> dei Troiani e dei Greci già professato da Romolo e dai suoi compagni
            prima di fabbricare la città di Roma. Quando dunque dai Mitologi si parla di Dei
            stranieri adorati dai Romani non si deve intender <pb n="507" xml:id="p507"/>delle
            greche Divinità che i Romani conoscevano e adoravano sin dall’origine di Roma, ma di
            tutte le altre di qualsivoglia nazione delle quali era ammesso o almeno tollerato il
            culto in Roma, dopo che fu accordata la cittadinanza romana a tutti i popoli
            conquistati. Per altro raramente i poeti greci e i latini rammentano qualche divinità
            delle altre nazioni, e solo alcuni di loro fanno un’eccezione per le principali Divinità
            Egiziane, che sono <hi rend="i">Osìride, Iside</hi> ed <hi rend="i">Anùbi</hi>.</p>
          <p>Quantunque i Greci sotto Alessandro Magno, e trecento anni dopo di loro i Romani sotto
            Cesare, Marc’ Antonio ed Augusto, avessero conquistato l’Egitto, poche e sconnesse
            notizie ci hanno tramandato gli scrittori di ambedue quelle nazioni relativamente al <hi
              rend="i">feticismo</hi> Egiziano ed alle idee religiose che quel popolo annetteva al
            suo stravagantissimo culto. L’antico Egitto rimane tuttora in molte parti, e materiali e
            morali, un mistero. Sono tuttora soggetto d’interminabili dispute non solo il <hi
              rend="i">feticismo</hi> e l’interpretazione dei geroglifici, ma pur anco le piramidi,
            gli obelischi, l’istmo, le oasi, il delta, le bocche o foci del Nilo e la stessa
            sorgente di questo fiume.</p>
          <p>L’Egizia Dea <hi rend="i">Iside</hi>, poichè credevasi che fosse la stessa Ninfa <hi
              rend="i">Io</hi> trasformata in vacca da Giove, fu ben presto adorata ed ebbe un
            tempio in Roma, come asserisce <hi rend="sc">Lucano</hi> nel lib. <num>viii</num> della
              <hi rend="i">Farsalia</hi> :</p>
          <quote>
            <l>« Nos in templa tuam Romana accepimus <hi rend="i">Isim</hi>. »</l>
          </quote>
          <p>Di questa Dea eran devote principalmente le donne ; tra le quali è rammentata da
            Tibullo la sua <hi rend="i">Delia</hi>, che passò ancora qualche notte avanti le porte
            del tempio d’<hi rend="i">Iside</hi> a pregar la Dea per la salute di Tibullo stesso che
            era infermo in Corfù. I sacerdoti <hi rend="i">Isiaci</hi> portavano il capo raso ed
            erano vestiti di tela di lino, e perciò si chiamavano <hi rend="i">linìgeri</hi> ; e <hi
              rend="i">linìgera</hi> trovasi detta la stessa Dea Iside. Lo stromento sacro per le
            cerimonie religiose era il <hi rend="i">sistro</hi>, formato di una larga <pb n="508"
              xml:id="p508"/>lamina di metallo piegata in figura ellittica, nella quale inserivansi
            diverse bacchette mobili parimente di metallo ; e se ne traeva un suono musicale con
            studiati e regolari colpi e movimenti.</p>
          <p>I Romani adoravano <hi rend="i">Iside</hi> sotto la forma di donna ; ma gli Egiziani
            sotto quella di vacca, perchè credevano che questa Dea insieme col suo fratello e marito
              <hi rend="i">Osiride</hi>, dopo avere insegnato a loro l’agricoltura, si fossero
            trasformati essa in vacca ed <hi rend="i">Osiride</hi> in bove o toro. Nè gli Egiziani
            si contentavano di adorare queste due Divinità sotto la forma dei suddetti animali, ma
            tenevano nel loro tempio e prestavano il loro culto ad un bue vivente a cui davasi il
            nome di Bue <hi rend="i">Api</hi>. Questo bue aveva il pelo nero, e soltanto nella
            fronte era bianco ed in alcuni punti della groppa. I sacerdoti Egiziani dopo tre anni lo
            annegavano in un lago, e poi dicevano che era morto o perduto ; di che facevasi un gran
            lutto con gemiti e pianti da tutto il popolo ; ma dopo tre giorni, avendo già pronto un
            altro bove simile, dicevano che si era ritrovato o era risuscitato ; e il popolo ne
            faceva maravigliosa festa. Con queste stravaganti cerimonie volevasi alludere alla
            favola o tradizione Egizia che <hi rend="i">Tifòne</hi> avesse ucciso segretamente il
            suo fratello <hi rend="i">Osiride</hi> ; e che questi poi fosse trasformato in bove.
            Aggiungono inoltre che Iside insieme con suo figlio <hi rend="i">Oro</hi> uccidesse
            Tifone in battaglia.</p>
          <p><hi rend="i">Osìride</hi> è chiamato ancora <hi rend="i">Seràpide</hi> ; sotto ambedue
            i quali nomi è rammentato dagli scrittori latini. Nel tempio d’<hi rend="i">Iside</hi> e
            di <hi rend="i">Seràpide</hi> ponevasi la statua del Dio <hi rend="i">Arpòcrate</hi> che
            era considerato come Dio del silenzio, e perciò rappresentavasi in atto di premer le
            labbra col dito indice della mano destra, segno usitatissimo ed espressivo d’intimazione
            di silenzio. Quest’atto è anche segno di stare attenti, come abbiamo in <hi rend="sc"
              >Dante</hi> :</p>
          <quote>
            <l>« Perch’io, acciò che ‘l Duca stesse attento,</l>
            <l>« Mi posi il dito su dal mento al naso. »</l>
          </quote>
          <p><pb n="509" xml:id="p509"/>I Latini poi, e fra questi Catullo, usarono la frase <hi
              rend="i">reddere aliquem Harpocratem</hi> per significare ridurre qualcuno al
            silenzio.</p>
          <p>Trovasi anche rammentato dagli scrittori latini il Dio <hi rend="i">Anùbi</hi>, che gli
            Egiziani dicevano esser figlio di Osiride, e lo rappresentavano sotto la forma di cane e
            talvolta di uomo, ma però sempre colla testa di cane, come se ne vedono alcuni idoletti
            di metallo nel Museo Egiziano. <hi rend="sc">Virgilio</hi> stesso nel libro
              <num>ix</num> dell’<hi rend="i">Eneide</hi> nomina il <hi rend="i">latrator
              Anubis</hi> ; ma pare che, in generale, i Romani non avessero gran devozione per
            questi mostruosi Dei Egiziani, poichè <hi rend="sc">Giovenale</hi>, nella <hi rend="i"
              >Satira</hi>
            <num>xv</num>, così ne parla :</p>
          <quote>
            <l>« Chi, o Vòluso, non sa quai mostruose</l>
            <l>« Adora deità l’Egitto stolta ?</l>
            <l>« Qui i coccodrilli, là di velenose</l>
            <l>« Serpi Ibi sazia a venerar si volta ;</l>
            <l>« Di sacri omaggi segno eziandio pose</l>
            <l>« Caudata scimia in fulgid’oro scolta</l>
            <l>« Là dove a Tebe diroccata accanto</l>
            <l>« Scioglie i magici suon Mennone infranto.</l>
            <l>« Quinci il gatto in onor, quindi è a vedere</l>
            <l>« Fluviatil lato accor devoto incenso ;</l>
            <l>« Si prostra al cane, di cittadi intere,</l>
            <l>« E non anzi a Diana, il popol denso :</l>
            <l>« Violar cipolle e porri, o far parere</l>
            <l>« Sol d’azzannarli, fora un fallo immenso.</l>
            <l>« O sante genti, a cui da terra sorti</l>
            <l>« Questi Numi sì ben nascon negli orti !</l>
          </quote>
          <bibl>(Traduz. di G. Giordani).</bibl>
          <pb n="510" xml:id="p510"/>
        </div2>
        <div2 type="chapter">
          <head type="sur">LXXI</head>
          <head type="main">Decadenza e fine del Politeismo greco e romano. <lb/>Primordii e
            progressi del Cristianesimo.</head>
          <p>Nei tempi eroici della romana Repubblica (eroici non solo per valore, ma ancora per
            senno e per moralità), i riti degli Dei stranieri non erano ammessi in Roma, come
            avverte T. Livio nel lib. <num>iv</num> e nel <num>xxxix</num> della sua storia ; anzi
            non si adottarono neppure i più strani ed assurdi <hi rend="i">miti</hi> della greca
            mitologia inventati da quelle fervide e sbrigliate fantasie dei greci poeti e dei greci
            sacerdoti. I Romani sino al termine della seconda guerra punica furono i <hi rend="i"
              >puritani</hi> della pagana religione, e considerarono sin dal tempo di Numa il
            sentimento religioso e morale come il primo <hi rend="i">fattore
            dell’incivilimento</hi> ; e perciò ebbero cura di tenerne lungi qualunque elemento che
            tendesse a viziare la moralità delle azioni, senza la quale non può esistere vera
            civiltà. Ma quando la romana costanza che trionfò di tutti gli ostacoli e di tutte le
            più dure prove non fu abbastanza forte contro le prosperità e le ricchezze, e si lasciò
            vincer da queste, le idee morali cominciarono ad esser neglette ed obliate, e la
            religione stessa perdè il suo prestigio e la sua dignità, e non servì più allo scopo
            altamente sociale per cui fu istituita. In Roma insiem coi vizii penetrarono le più
            strane idee religiose contrarie affatto alla buona morale. Aggiungendovisi poi le <hi
              rend="i">apoteosi</hi> degli Imperatori e delle Imperatrici, parve, com’ era
            veramente, prostituita la religione al potere politico e negata l’esistenza stessa degli
            Dei, presumendo che essi potessero accogliere nel loro numero e nel loro consesso
            qualunque mortale benchè scellerato ed empio, come furono i più degli Imperatori
            romani.</p>
          <p><pb n="511" xml:id="p511"/>Contemporaneamente a queste prime <hi rend="i">apoteosi</hi>
            sorgeva e ben presto diffondevasi una nuova religione, i cui seguaci destarono
            l’ammirazione di tutti per la bontà e santità della vita : e questo parve un gran
            miracolo in mezzo a società così corrotta ; questo richiamò l’attenzione di tutti sulla
            nuova religione del <hi rend="i">Cristianesimo</hi>, perchè dagli ottimi effetti morali
            che quella produceva ne’suoi seguaci inducevasi la convinzione che ottime esser
            dovessero le massime che essa insegnava. Perciò <hi rend="sc">Dante</hi> fa dire al
            poeta Stazio nel C. <num>xxii</num> del <hi rend="i">Purgatorio</hi>, relativamente a
            questi primi Cristiani :</p>
          <quote>
            <l>« Vennermi poi parendo <hi rend="i">tanto santi</hi>,</l>
            <l>« Che quando Domizian li perseguette,</l>
            <l>« Senza mio lagrimar non fur lor pianti.</l>
            <l>« E mentre che di là per me si stette,</l>
            <l>« Io gli sovvenni, e <hi rend="i">lor dritti costumi</hi></l>
            <l>« Fer dispregiare a me tutt’altre sette. »</l>
          </quote>
          <p>Un ragionamento simile a quello del poeta Stazio condusse alla stessa conseguenza di
            farsi Cristiani tutti quei politeisti che non erano affatto privi del lume della
            ragione ; e se alcuni furon trattenuti dalla paura delle persecuzioni, molti altri si
            esposero ai tormenti ed anche alla morte, e suggellaron col sangue l’attestazione della
            loro novella Fede. Quando poi cessarono le persecuzioni, e i re stessi e gl’imperatori
            divenner cristiani, si dileguò ben presto il <hi rend="i">politeismo</hi> dal mondo
            romano, e il Cristianesimo si diffuse pur anco fra i popoli barbari, fuor dei confini
            del romano impero. Ai primi del secolo IV dell’era cristiana, Costantino Magno fu il
            primo imperatore cristiano ; ma soltanto negli ultimi anni dello stesso secolo furono
            officialmente aboliti da Teodosio il Grande quasi tutti i sacerdozii del Politeismo,
            incluso quello delle Vestali. I più ostinati a conservare il culto dei falsi Dei furono
            gli abitanti delle campagne e dei villaggi o borghi, che in latino chiamavansi <hi
              rend="i">pagani</hi> (aggettivo derivato da <hi rend="i">pagus</hi>
            <pb n="512" xml:id="p512"/>che significa borgo o villaggio), e perciò il <hi rend="i"
              >politeismo</hi> stesso fu detto il <hi rend="i">Paganesimo</hi> ; il qual termine
            divenne poi, tanto in prosa quanto in poesia, più comune e più usato che gli altri due
            di <hi rend="i">politeismo</hi> e di <hi rend="i">gentilesimo</hi><note place="bottom"
                  ><p><hi rend="i">Paganesimo</hi>, secondo la derivazione latina, significherebbe
                religione dei contadini. Negli scrittori della bassa latinità è detto <hi rend="i"
                  >paganitas</hi>, come abbiamo nel Codice Teodosiano, lib. <num>xv</num>, tit. 5 :
                  <hi rend="i">Paganitatis stolidœ errore detineri</hi>. Negli scrittori
                ecclesiastici i <hi rend="i">politeisti</hi> son detti ancora <hi rend="i"
                  >Ethnici</hi> e <hi rend="i">Gentiles</hi>, vocaboli che sono sinonimi, il primo
                in greco e il secondo in latino ; onde è derivata in italiano la parola <hi rend="i"
                  >gentilesimo</hi> che si può usare indifferentemente per <hi rend="i"
                  >paganesimo</hi> ; ma non così la parola <hi rend="i">gentili</hi> per <hi
                  rend="i">pagani</hi>, perchè il vocabolo <hi rend="i">gentili</hi> ha due altri
                diversi significati : uno più usato e comune invece di <hi rend="i">cortesi</hi> ; e
                l’altro legale, che sta ad indicare le persone della stessa <hi rend="i"
                  >famiglia</hi>, la quale in latino dicevasi più comunemente <hi rend="i"
                >gens</hi>, mentre <hi rend="i">familia</hi> significava anche i servi o schiavi. Da
                questo significato legale è derivato in italiano l’aggettivo <hi rend="i"
                  >gentilizio</hi> ; come abbiamo nelle locuzioni : stemmi gentilizii, titoli
                gentilizii ecc. <hi rend="sc">Dante</hi> estese il significato legale di <hi
                  rend="i">gentili</hi> a tutte le persone dello stesso partito, e precisamente a
                tutti i Ghibellini (considerandoli come componenti una sola famiglia per
                gl’interessi comuni che avevano) quando egli disse all’ Imperatore Alberto Tedesco
                nel Canto <num>vi</num> del <hi rend="i">Purgatorio</hi> :</p><quote><l>« Vien,
                  crudel, vieni, e vedi la pressura</l><l>« <hi rend="i">De tuoi gentili</hi>, e
                  cura lor magagne. »</l></quote></note>. Ma poichè la religione dell’Evangelo ai
            più santi precetti di morale univa la principal massima sociale che <hi rend="i">tutti
              gli uomini sono eguali</hi>, e perciò favoriva e comandava l’abolizione della
            schiavitù, anche i più rozzi ed ostinati contadini cominciarono ad apprezzare se non la
            sublimità, che non potevano intendere, almeno l’utilità di questa nuova religione ; e
            tutto l’impero romano, abiurato il <hi rend="i">paganesimo</hi>, divenne cristiano.</p>
          <p>FINE</p>
          <pb n="n.p." xml:id="pn.p."/>
        </div2>
      </div1>
          <div1 type="contents">
            <head>Indice alfabetico</head>
            <div2>
              <head>Di tutti i termini mitologici e scientifici</head>
              <label>spiegati in ambedue i volumi di questa mitologia</label>
              <p>NB. I numeri indicano le pagine. I termini derivati son distinti con <hi rend="i"
                  >caratteri italici</hi>, e posti subito dopo quei nomi da cui derivano.</p>
              <p>Per mezzo di quest’ Indice alfabetico può la presente <hi rend="sc">Mitologia</hi>
                far l’ufficio pur anco di <hi rend="i">Dizionario Mitologico</hi>.</p>
              <list>
                <item><label>A</label></item>
                <item>Abdir <ref target="#p29">29</ref></item>
                <item>Abila <ref target="#p364">364</ref></item>
                <item>Absirto <ref target="#p341">341</ref>, <ref target="#p343">343</ref></item>
                <item>Acheloo <ref target="#p369">369</ref>, <ref target="#p387">387</ref></item>
                <item>Acheronte <ref target="#p196">196</ref></item>
                <item>Achille <ref target="#p410">410</ref>, <ref target="#p427">427</ref> e seg.</item>
                <item>Aci <ref target="#p282">282</ref></item>
                <item>Acònito 365s</item>
                <item><hi rend="i">Aconitìna</hi> <ref target="#p365">365</ref></item>
                <item>Acrisio <ref target="#p308">308</ref></item>
                <item>Admèto <ref target="#p111">111</ref></item>
                <item>Adone <ref target="#p150">150</ref>, <ref target="#p151">151</ref></item>
                <item>Adrasto <ref target="#p396">396</ref></item>
                <item>Aello <ref target="#p470">470</ref></item>
                <item>Aereoliti <ref target="#p41">41</ref></item>
                <item>Afrodite <ref target="#p143">143</ref>, <ref target="#p144">144</ref></item>
                <item>Agamennone <ref target="#p420">420</ref>, <ref target="#p421">421</ref> e seg.</item>
                <item>Agave <ref target="#p167">167</ref>, <ref target="#p168">168</ref></item>
                <item>Agènore <ref target="#p320">320</ref></item>
                <item>Aglaia <ref target="#p146">146</ref></item>
                <item>Aglàuro <ref target="#p129">129</ref></item>
                <item>Aiaci (i due) <ref target="#p435">435</ref>, <ref target="#p446">446</ref></item>
                <item>Albalunga <ref target="#p477">477</ref></item>
                <item>Àlbula <ref target="#p476">476</ref></item>
                <item>Albùnea <ref target="#p488">488</ref></item>
                <item>Alcide <ref target="#p357">357</ref></item>
                <item>Alceste <ref target="#p473">473</ref></item>
                <item>Alcmena <ref target="#p355">355</ref></item>
                <item>Alcmeone <ref target="#p402">402</ref>, <ref target="#p403">403</ref> e seg.</item>
                <item>Aletto <ref target="#p210">210</ref></item>
                <item>Alfesibèa <ref target="#p403">403</ref></item>
                <item>Alfèo <ref target="#p286">286</ref></item>
                <item>Altèa <ref target="#p326">326</ref></item>
                <item>Amadriadi <ref target="#p279">279</ref></item>
                <item>Amaltèa (ninfa) <ref target="#p280">280</ref></item>
                <item>Amaltea (sibilla) <ref target="#p488">488</ref></item>
                <item>Ambrosia <ref target="#p225">225</ref></item>
                <item>Amàzzoni <ref target="#p360">360</ref>, <ref target="#p361">361</ref></item>
                <item><hi rend="i">Amazzonìte</hi> <ref target="#p361">361</ref></item>
                <item>Ammòne <ref target="#p57">57</ref>, <ref target="#p245">245</ref></item>
                <item><hi rend="i">Ammonìte</hi> <ref target="#p57">57</ref></item>
                <item>Anna Perenna <ref target="#p502">502</ref></item>
                <item>Anchise <ref target="#p414">414</ref>, <ref target="#p465">465</ref></item>
                <item>Ancili <ref target="#p501">501</ref></item>
                <pb n="516" xml:id="p516"/><item>Andrògeo <ref target="#p381">381</ref></item>
                <item>Andromaca <ref target="#p445">445</ref>, <ref target="#p449">449</ref></item>
                <item>Andròmeda <ref target="#p314">314</ref>, <ref target="#p316">316</ref></item>
                <item>Anfiarào <ref target="#p396">396</ref>, <ref target="#p401">401</ref></item>
                <item>Anfiòne <ref target="#p90">90</ref>, <ref target="#p349">349</ref></item>
                <item>Anfitrite (dea) <ref target="#p175">175</ref></item>
                <item><hi rend="i">Anfitrite</hi> (astro) <ref target="#p177">177</ref></item>
                <item><hi rend="i">Anfitrìte</hi> (animale) <ref target="#p177">177</ref></item>
                <item>Anfitrione <ref target="#p354">354</ref> e seg.</item>
                <item>Antènore <ref target="#p441">441</ref></item>
                <item><hi rend="i">Antenòra</hi> <ref target="#p441">441</ref></item>
                <item>Antèo <ref target="#p365">365</ref> e seg.</item>
                <item>Anticlèa <ref target="#p462">462</ref></item>
                <item>Antìfate <ref target="#p455">455</ref> e seg.</item>
                <item>Antigone <ref target="#p395">395</ref></item>
                <item>Antiloco <ref target="#p462">462</ref></item>
                <item>Anubi <ref target="#p509">509</ref></item>
                <item>Api (il bue) <ref target="#p508">508</ref></item>
                <item>Apollo <ref target="#p91">91</ref> e seg.</item>
                <item>Apoteòsi <ref target="#p489">489</ref> e seg.</item>
                <item>Aquario <ref target="#p417">417</ref></item>
                <item>Aquilòne <ref target="#p300">300</ref></item>
                <item>Aracne <ref target="#p136">136</ref></item>
                <item>Ara massima <ref target="#p506">506</ref></item>
                <item>Ares <ref target="#p138">138</ref></item>
                <item><hi rend="i">Areopago</hi> <ref target="#p138">138</ref></item>
                <item>Aretùsa <ref target="#p286">286</ref></item>
                <item>Àrcade <ref target="#p118">118</ref> e seg.</item>
                <item>Archèmore <ref target="#p335">335</ref></item>
                <item>Argeste <ref target="#p299">299</ref></item>
                <item>Argìa <ref target="#p397">397</ref>, <ref target="#p399">399</ref></item>
                <item>Argo (con 100 occhi) <ref target="#p81">81</ref></item>
                <item>Argo (nave) <ref target="#p332">332</ref>, <ref target="#p342">342</ref></item>
                <item><hi rend="i">Argonauti</hi> <ref target="#p341">341</ref> e seg.</item>
                <item>Arianna <ref target="#p167">167</ref>, <ref target="#p385">385</ref></item>
                <item>Arione <ref target="#p352">352</ref></item>
                <item>Aristèo <ref target="#p353">353</ref></item>
                <item>Arpie 336, <ref target="#p360">360</ref>, <ref target="#p470">470</ref></item>
                <item>Arpòcrate <ref target="#p508">508</ref></item>
                <item>Ascàlafo <ref target="#p54">54</ref></item>
                <item>Ascanio <ref target="#p477">477</ref></item>
                <item>Asclèpio <ref target="#p102">102</ref></item>
                <item>Asòpo <ref target="#p408">408</ref></item>
                <item>Assàraco <ref target="#p414">414</ref></item>
                <item>Astianatte <ref target="#p445">445</ref></item>
                <item>Astrèa <ref target="#p32">32</ref></item>
                <item>Astrèo <ref target="#p297">297</ref></item>
                <item>Atena <ref target="#p132">132</ref> e seg.</item>
                <item><hi rend="i">Atene</hi> <ref target="#p132">132</ref> e seg.</item>
                <item><hi rend="i">Atenèo</hi> <ref target="#p134">134</ref></item>
                <item>Ati <ref target="#p43">43</ref></item>
                <item>Atalanta <ref target="#p326">326</ref></item>
                <item>Atlante <ref target="#p315">315</ref></item>
                <item><hi rend="i">Atlanti</hi> <ref target="#p177">177</ref></item>
                <item>Atrèo <ref target="#p406">406</ref> e seg.</item>
                <item><hi rend="i">Atrìdi</hi> <ref target="#p407">407</ref> e seg.</item>
                <item>À tropo <ref target="#p207">207</ref></item>
                <item>Attèone <ref target="#p119">119</ref></item>
                <item>Augìa <ref target="#p362">362</ref></item>
                <item>Aurora <ref target="#p96">96</ref></item>
                <item>Austro <ref target="#p300">300</ref></item>
                <item>Autòmi <ref target="#p153">153</ref> e seg.</item>
                <item>Aventino <ref target="#p367">367</ref></item>
                <item><label>B</label></item>
                <item>Bacco <ref target="#p160">160</ref> e seg.</item>
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                <item>Titèa <ref target="#p26">26</ref></item>
                <item>Titòne <ref target="#p414">414</ref>, <ref target="#p419">419</ref></item>
                <item>Tizio <ref target="#p226">226</ref></item>
                <item>Toante <ref target="#p448">448</ref></item>
                <item>Tomi (città) <ref target="#p343">343</ref></item>
                <item>Triforme (dea) <ref target="#p114">114</ref> e seg.</item>
                <item>Tritonia (dea) <ref target="#p133">133</ref></item>
                <item>Tritone (dio) <ref target="#p176">176</ref></item>
                <item><hi rend="i">Tritoni</hi> (dei) <ref target="#p176">176</ref> e seg.</item>
                <item><hi rend="i">Tritoni</hi> (molluschi) <ref target="#p177">177</ref> e seg.</item>
                <item><hi rend="i">Tritoniani</hi> (terreni) <ref target="#p177">177</ref> e seg.</item>
                <item>Trofonio <ref target="#p484">484</ref></item>
                <item>Troia (città) <ref target="#p412">412</ref> e seg.</item>
                <item>Turno <ref target="#p476">476</ref></item>
                <item><label>U</label></item>
                <item>Ulisse <ref target="#p451">451</ref>, <ref target="#p452">452</ref> e seg.</item>
                <item><hi rend="sc">Uràno</hi> <ref target="#p16">16</ref>, <ref target="#p24">24</ref> e seg.</item>
                <item><hi rend="i">Uranìa</hi> <ref target="#p105">105</ref>, <ref target="#p106">106</ref></item>
                <item><hi rend="i">Uranografiche</hi>(carte) <ref target="#p000">000</ref></item>
                <item><label>V</label></item>
                <item>Vèiove <ref target="#p502">502</ref></item>
                <item>Venere (dea) <ref target="#p143">143</ref> e seg.</item>
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                <item>Virbio <ref target="#p392">392</ref></item>
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                <item><label>X</label></item>
                <item>Xanto <ref target="#p287">287</ref></item>
                <item><label>Z</label></item>
                <item>Zèffiro <ref target="#p298">298</ref></item>
                <item>Zend-Avesta <ref target="#p491">491</ref></item>
                <item>Zete <ref target="#p298">298</ref>, <ref target="#p336">336</ref></item>
                <item>Zeus <ref target="#p54">54</ref></item>
                <item>Zodiaco <ref target="#p95">95</ref></item>
                <item>Zoroastro <ref target="#p491">491</ref></item>
              </list>
              <pb n="n.p.n.p."/>
            </div2>
            <div2>
              <head>Errata-corrige</head>
              <p>A pag. 314 lin. 21 invece di <hi rend="i">Arianna<space rend="tab"> </space></hi>si
                legga Andròmeda</p>
              <p> » 448 » 12 » <hi rend="i">Chersoneto<space rend="tab"> </space></hi>»
                Chersonèso</p>
              <p> » » » 15 » <hi rend="i">vi approdavano</hi><space rend="tab"> </space>»
                approdavano</p>
              <p> » 451 » 27 » <hi rend="i">orme<space rend="tab"> </space></hi>» arme</p>
            </div2>
          </div1>
    </body>
  </text>
</TEI>